Quantcast
Channel: Cristina Kirchner – Pagina 148 – eurasia-rivista.org
Viewing all 153 articles
Browse latest View live

“Capire le rivolte arabe” a Modena: il video

$
0
0
Sabato 8 ottobre si è tenuta a Modena la conferenza dal titolo “Capire le rivolte arabe”, organizzata da Pensieri in Azione e IsAG e rientrante nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia. Davanti alle circa 70 persone che riempivano la Sala conferenze della Circoscrizione Centro Storico, Daniele Scalea e Pietro Longo (redattori di “Eurasia” e autori del libro Capire le rivolte arabe) hanno parlato, rispettivamente, del ruolo dei media nelle rivolte e dell’Egitto e Bahrayn come casi esemplari di studio. La conferenze si è protratta grazie agl’interventi ed alle domande che hanno animato il dibattito col pubblico. Proponiamo di seguito il video delle relazioni di Scalea e Longo. 

 

Prima parte:

Seconda parte:


IX Forum di Rodi “Dialogo di Civiltà”

$
0
0

Si è tenuto a Rodi (Grecia), dal 6 al 10 ottobre 2011, il IX Forum “Dialogo di Civiltà”.

Era presente, tra i numerosi relatori d’alto livello provenienti da tutto il mondo, anche Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”.

L’organizzazione è stata a cura del World Public Forum “Dialogue of Civilizations“.

 

Geopolitica e costituzioni: i sommari

$
0
0
È uscito il numero XXIII (2/2011) della rivista di geopolitica “Eurasia”, intitolato GEOPOLITICA E COSTITUZIONI. Il volume, composto di 26 articoli su 256 pagine, tratta di come le leggi fondamentali influiscano sulla politica internazionale, ed in particolare di come l’ingegneria costituzionale etero-imposta sia stata rilevante nell’ultimo secolo per correggere la postura geopolitica di alcuni paesi rispetto alla potenza egemone.
Ecco di seguito l’elenco ed un breve sommario di ciascuno degli articoli presenti in questo numero.

 

Tiberio Graziani, I costruttori di carte ottriate

Lo studio dei rapporti tra la legge fondamentale di uno Stato e la geopolitica è tornato di attualità tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. In quel periodo (1989 – 1991), coincidente con il collasso del sistema bipolare, gli USA intensificarono il loro ruolo di “costruttori di Nazioni libere”. Proclamatisi “Nation and State Builders”, gli Stati Uniti interferirono nella elaborazione delle Carte fondamentali dei nuovi Stati nazionali, sorti dalla deflagrazione dell’ex blocco sovietico. Tale intromissione non costituì un fatto nuovo nella storia della politica estera statunitense, ma una costante. Una lettura “geopolitica” degli ordinamenti costituzionali ci dimostra che le Carte fondamentali degli Stati non egemoni sono sostanzialmente assimilabili alle Costituzioni ottriate. Nella transizione tra la fase unipolare e il sistema multipolare appare necessaria la formulazione di nuovi paradigmi costituzionali articolati su base continentale.

Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG.

 


Giuseppe Romeo, Eteronomia di una complementarità necessaria

In una società degli Stati e dei popoli, la condivisione di principi e valori universali contenuti nelle Carte Fondamentali e negli Statuti delle organizzazioni sovranazionali diventano le regole sulle quali si svolge il disegno di un ordine mondiale definito, misurabile nelle dinamiche e disciplinabile nei modi di agire di ogni singolo attore. La collocazione internazionale di uno Stato, il ruolo politico che intenderà giocare come protagonista nella comunità internazionale non potrà che essere espressione, allora, non solo della sua cultura giuridica ma dell’accettare di agire in una comunità politica che si costituzionalizza man mano in un’ottica di universalità del diritto e dei diritti.

Giuseppe Romeo è analista politico e pubblicista; ha collaborato a vario titolo con diverse università italiane nelle materie di Diritto dell’Unione Europea, Storia dei trattati e politica internazionale, Sociologia delle relazioni internazionali e Studi strategici. È cultore di Studi strategici e di Analisi della politica estera presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano.

 


Guilherme Sandoval Góes, Il geodiritto e i centri mondiali del potere

Nel presente articolo sono evidenziati i rapporti tra diritto costituzionale e geopolitica. Nel caso specifico del Brasile, il diritto costituzionale attraversa una delle fasi più delicate della sua evoluzione, posto che i principi d’ordine politico liberale mirano a sottrarre alla Costituzione la propria forza normativa a garanzia del benessere e dello sviluppo della collettività locale. Il diritto costituzionale nel mondo postmoderno non può rimanere lontano dalla realtà internazionale che lo circoscrive senza che gli sia assegnato un corretto ruolo di controllo nella protezione dei diritti fondamentali. La Costituzione è dinamica e aperta e deve servire da fondamento materiale per l’elaborazione delle politiche pubbliche all’interno dello Stato Costituzionale di Diritto.

Il capitano Guilherme Sandoval Góes è professore di Diritto; coordinatore della Divisione di Affari Geopolitici e di Relazioni Internazionali della Scuola Superiore di Guerra del Brasile; coordinatore del Corso di Master in Diritto Costituzionale dell’Università Estácio de Sá; Master e Dottorato in Diritto per l’Università dello stato di Rio de Janeiro.

 


Aldo Braccio, Carte costituzionali: casi di “sovranità limitata”

I rapporti di forza internazionali determinano spesso una ricaduta sul piano costituzionale interno dei Paesi carenti di effettiva sovranità. Le cosiddette “guerre di Liberazione” intraprese dalla superpotenza statunitense costituiscono un esempio probante di tale fenomeno: alcune disposizioni costituzionali conformi a tale orientamento figurano nelle Leggi Fondamentali di Italia, Germania, Austria, Giappone, Kosovo, Afghanistan, Iraq, quasi come richiamo e ombra di una più generale occupazione culturale ed economica, dopo e oltre quella militare.

Aldo Braccio è redattore di “Eurasia”. Membro del Consiglio Direttivo dell’ISAG – Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, è autore di Turchia, ponte d’Eurasia, Fuoco Edizioni, Roma 2011.

 


Mahdi Darius Nazemroaya, Privatizzazione e costruzione del “impero”

Gli Stati Uniti hanno riscritto la costituzione dei popoli vinti nella Seconda Guerra Mondiale. Negli ultimi due decenni, tuttavia, Washington è riuscita a ristrutturare totalmente gli Stati vinti economicamente e politicamente attraverso un processo di de-centralizzazione e grazie alla legalizzazione della tutela straniera sulle loro strutture politiche e sulle loro economie nazionali. Dalla ex Jugoslavia in Afghanistan e in Iraq, questo processo è andato di pari passo con la guerra e un’immediata ed estesa presenza militare straniera. A tale riguardo le nuove costituzioni nazionali di questi paesi sono state al centro del processo ed hanno aperto la porta per l’integrazione di questi Stati nella costruzione dell’ “impero” di Washington.

Mahdi Darius Nazemroaya, sociologo, ha svolto attività di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Antropologia dell’Università di Ottawa e, sul tema dell’integrazione in Nord America, presso il Parlamento del Canada. È uno dei fondatori della Ottawa University Archeological Society (uOAS), il suo primo vicepresidente (2010-oggi) e il presidente del comitato uOAS che ha progettato un programma universitario di archeologia, lanciato dall’Università degli Studi di Ottawa. È un collaboratore di Global Research e ricercatore associato in geopolitica del Sud-Ovest asiatico, del Caucaso e dell’Asia centrale presso il Centre for Research on Globalization (CRG) di Montréal.

 


Carlo Schmid, Che significa propriamente “legge fondamentale”?

Quello che segue è il discorso tenuto al Parlamento tedesco dal deputato socialdemocratico Carlo Schmid l’8 settembre 1948. In esso si toccano i seguenti temi: Che cosa significa “Costituzione”? Che cosa è uno Stato? La situazione della Germania. L’ingiustizia della divisione. Accenno al processo di Norimberga. Il Reich tedesco sopravvive. Il dominio straniero è contrario al diritto delle genti. I vincitori hanno bloccato la sovranità popolare. Non esiste un popolo dello Stato della Repubblica Federale. L’assemblea nazionale tedesca. Un imperativo. Le condizioni dei vincitori. La Legge fondamentale non è una Costituzione. La Costituzione del Reich tedesco non può derivare dalla Legge fondamentale. Nessun riconoscimento della divisione del territorio: è una questione d’onore. L’unità deve essere spezzata con la forza.

Carlo Schmid, giurista ed accademico, è stato parlamentare tedesco dal 1947 al 1972, presidente dell’Assemblea dell’Unione dell’Europa Occidentale dal 1963 al 1966.

 


David Cumin, L’Ostpolitik di uno Stato senza costituzione nazionale

L’Ostpolitik del Cancelliere Brandt, che prese l’avvio in seguito all’arrivo della SPD al governo e si sviluppò tra il 1969 e il 1982, perseguì l’obiettivo della riunificazione tedesca. I dirigenti tedesco-occidentali ritenevano che l’atteggiamento aggressivo dell’Occidente avesse indotto gli Stati dell’Est a mostrarsi aggressivi a loro volta nei riguardi dell’Occidente. Essi pensavano che, se la politica di forza fosse stata sostituita da una politica di dialogo, la “distensione” tra gli Stati dell’Est e dell’Ovest avrebbe portato ad una “distensione” tra lo Stato e la società ad Est, dunque all’apertura delle frontiere e quindi al superamento dello statu quo. Ma per superare lo statu quo, bisognava cominciare col riconoscerlo. Un’URSS diventata sicura nel suo impero sarebbe stata incline alla distensione e all’apertura. Così l’Ostpolitik fu una politica “idealista” nei metodi (la cooperazione), “realista” rispetto ai destinatari (i governi), “conservatrice” nelle sue modalità a breve termine (la stabilizzazione), “rivoluzionaria” nei suoi obiettivi a lungo termine (il superamento della divisione).

David Cumin è dottore in Diritto pubblico, docente di Diritto pubblico e Scienze politiche (Università “Jean Moulin” Lyon III).

 


Sara Bagnato, Un caso d’ingegneria statuale: la Bosnia-Erzegovina

La Bosnia-Erzegovina è il principale e il più esteso – geograficamente e storicamente – esperimento di ingegneria politica internazionale, un progetto pilota di creazione di uno Stato dall’esterno. Nel corso degli ultimi 15 anni un complesso consorzio di Agenzie internazionali sostenute dai governi occidentali ha tentato di trasformare un territorio post-bellico devastato ed etnicamente partizionato in uno Stato multietnico, democratico ed economicamente stabile. L’attuale impasse politico ed istituzionale del paese ha messo in luce la fallacia della strategia usata, benché essa abbia permesso di uscire da un’imbarazzante guerra e garantire alla Bosnia un futuro europeo.

Sara Bagnato è dottoressa in Relazioni internazionali (Università degli Studi di Perugia).

 


Stefano Vernole, Dal tribunale dell’Aja a Rekom

L’arresto dell’ex Generale serbo-bosniaco Ratko Mladic sancisce, simbolicamente, la fine del capitolo giudiziario inaugurato dal Tribunale dell’Aja, destinato a lasciare il posto ad una nuova macchina burocratica trasnazionale più moderna ed efficace: Rekom. Anche se cambiano gli strumenti, i fini rimangono gli stessi: condizionare pesantemente la sovranità nazionale degli Stati balcanici e mantenere i territori appartenenti all’ex Jugoslavia sotto il controllo della NATO e dell’alta finanza internazionale. I diritti umani e la giustizia internazionale al servizio degli obiettivi geopolitici atlantisti.

Stefano Vernole è redattore di “Eurasia” e saggista.

 


Alberto B. Mariantoni, Chi ci libererà dai “liberatori”?

L’articolo si apre con la constatazione che l’Italia è un Paese a sovranità limitata, condizionato nella sua esistenza da forze esterne e ostili, sicché le classi politiche che si succedono, per quanto corrotte e incompetenti, non possono e non vogliono risolvere i tanti problemi che da decenni lo affliggono. Vengono quindi elencate le prove di tale sudditanza dell’Italia, l’ultima e più plateale delle quali è l’aggressione alla Libia: tale aggressione, alla quale l’Italia partecipa obtorto collo, è contraria ai nostri stessi interessi nazionali. L’autore indica successivamente le cause di tale sudditanza e identifica le forze esterne condizionanti negli USA e nella NATO. La nostra impotenza attuale, che inizia con la sconfitta del 1945 e la perdita dello statuto di Stato sovrano, è da addebitare ai vari trattati di pace (in parte segreti) firmati con gli Alleati, nonché ai successivi accordi bilaterali (anche questi segreti) tra Italia e Stati Uniti.

Alberto B. Mariantoni, politologo, scrittore e giornalista, ha a lungo collaborato con il settimanale “Panorama”.

 


Alessandro Lattanzio, La Sicilia da Parigi a Parigi

La mancanza di sovranità nazionale, evidenziata dalla presenza delle basi USA/NATO sulla nostra penisola, impedisce alla Sicilia di svolgere quel ruolo di piattaforma degli scambi e delle relazioni tra i popoli del Mediterraneo che la sua posizione geografica le consentirebbe. Come portaerei atlantista sul Mediterraneo, la Sicilia rischia invece di diventare l’imbuto delle tensioni e delle frustrazioni che scaturiscono dagli interventi militari condotti in nome della “guerra al terrorismo” e dell’ “ingerenza umanitaria”.

Alessandro Lattanzio è redattore di “Eurasia” e saggista.

 


Claudio Mutti, La nuova costituzione ungherese

Il 25 aprile scorso, giorno di Pasquetta, il “Magyar Közlöny” (la gazzetta ufficiale ungherese) ha pubblicato il testo della nuova “Legge fondamentale dell’Ungheria” (Magyarország Alaptörvénye), firmata in quello stesso giorno dal Presidente della Repubblica Pál Schmitt e approvata dal Parlamento di Budapest lunedì 19 aprile. Scegliendo il Lunedì dell’Angelo per pubblicare il testo della nuova Costituzione, che entrerà in vigore il 1 gennaio 2012, si è voluto collegare tale evento con la festa cristiana della Resurrezione.

Claudio Mutti è redattore di “Eurasia” e saggista.

 


Kees van der Pijl, La discrepanza costituzionale in seno alla UE

L’Autore intende mostrare come il programma adottato dalla Germania in seguito all’ascesa delle grandi imprese nell’economia politica globale, trovi le sue basi nell’Occidente anglofono del Nordatlantico e nella sua eredità liberale lockiana. Egli ricerca le diverse caratteristiche di questa eredità, che ha consentito al capitale di costituirsi come forza sociale transnazionale ed analizza le incompatibilità strutturali che hanno ostacolato l’integrazione dell’Unione Europea all’interno del più ampio “Occidente” e continueranno ad ostacolarla. L’Autore individua nel cuore dell’Unione Europea una “discrepanza costituzionale”: da un lato, la contraddizione tra un neoliberismo organicamente sviluppato nel contesto dello heartland lockiano e la tradizione dello Stato contendente che ha guidato per secoli lo sviluppo europeo continentale; dall’altro, il relativo vantaggio dell’Europa settentrionale rispetto ai paesi dell’Europa meridionale.

Kees van der Pijl è docente di Relazioni internazionali all’Università del Sussex (Inghilterra). Nel 2008 ha ricevuto il Deutscher Memorial Prize per il suo libro Nomads, Empires, States.

 


Pietro Longo, Costituzionalismo e state-building in Iraq

L’operazione Iraqi Freedom che ha abbattuto il regime del Ba‘th di Saddam Husayn ha posto il problema della ricostruzione successiva. Mentre il paese conosceva una disastrosa guerra civile ed una rivincita dei settori della società in precedenza oppressi, le operazioni di State-Building si svolgevano sotto la direzione delle forze occupanti e con una quasi totale assenza delle agenzie internazionali. L’architettura costituzionale che n’è risultata ha acceso un dibattito politico ed accademico, in merito alla genuinità della forma federale che la nuova Repubblica irachena ha assunto. Se da un lato questo principio è stato invocato al fine di garantire l’uguaglianza di tutti i cleavages, dall’altro le istanze autonomiste hanno dato luogo ad un organismo che in alcuni casi può apparire come nient’altro che la somma delle sue parti. Inoltre la scarsa partecipazione dei sunniti alle negoziazioni ha suscitato diversi interrogativi circa la reale legittimità della Costituzione approvata nel 2005.

Pietro Longo, arabista, dottorando in Studi sul Vicino Oriente all’Università l’Orientale di Napoli, è ricercatore presso l’IsAG. Si occupa di diritto musulmano e dei paesi islamici e svolge ricerche anche sulla geopolitica e le relazioni internazionali del Vicino Oriente. E’ coautore (con Daniele Scalea) di Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario (IsAG – Avatar, Dublino 2011)

 


Come Carpentier de Gourdon, Le costituzioni dell’Impero Britannico, dell’India e del Commonwealth

La Costituzione indiana trasse ampia ispirazione da vari modelli occidentali ed in particolare anglosassoni, e fu inevitabilmente influenzata dalla struttura del Commonwealth britannico, che mirava a mantenere la supervisione della Corona sui territori dell’Impero, come dominî o regni associati. L’India accettò con riluttanza uno statuto ibrido in qualità di repubblica membra del Commonwealth che affermava princìpi socialisti, la volontà di agire da guida dei paesi decolonizzati e di costruire una Terza Forza che lottasse per la pace tra i due blocchi avversari della Guerra Fredda, discostandosi così dagl’interessi britannici e atlantici. Sin dall’Indipendenza la Costituzione è evoluta adottando vari elementi indigeni e modificando il preminente carattere legislativo angloamericano.

Côme Carpentier de Gourdon è direttore aggiunto della rivista indiana “World Affairs” e vicedirettore dello Euro-Asia Institute (Università “Jamia Millia Islamia” di Nuova Delhi).

 


Claudio Mutti, La “Costituzione” di Atene. Democrazia e talassocrazia

Nell’Atene del V secolo a. C. non esistette ovviamente una “Costituzione” nel senso che tale termine ha oggi in relazione allo Stato di diritto, vale a dire una carta di norme fondamentali intese a garantire gli ordinamenti politici ed a stabilire i diritti e i doveri dei cittadini. L’opera di Aristotele che viene comunemente intitolata “Costituzione degli Ateniesi” è in realtà un trattato che, dopo aver esaminato la storia di Atene sotto il profilo dei cambiamenti politici, descrive il sistema così come si presenta all’epoca dell’Autore. Se il capitolo 23 di quest’opera aristotelica presenta un certo interesse sotto il profilo geopolitico, ancor più marcato da una tale prospettiva è l’omonimo scritto pervenutoci assieme al corpus senofonteo, perché riconduce la “costituzione degli Ateniesi” e il regime democratico ad una causa eminentemente geografica: la vicinanza del mare.

Claudio Mutti, redattore di “Eurasia”, è antichista e finnugrista.

 


Paolo Bargiacchi, Manipolazione extraterritoriale della Costituzione americana

L’articolo descrive il punto di vista giuridico applicato alle prigioni statunitensi in territori occupati o non facenti parte dello Stato nordamericano. In particolare si sofferma sui casi di Guantanamo e Bagram, ne analizza la giurisprudenza e l’interpretazione e manipolazione delle sentenze ad opera del potere politico. Le corti di appello e la Corte Suprema degli Stati Uniti hanno, con alcune sentenze, riconosciuto l’estensione della Costituzione e delle norme internazionali che regolano il trattamento dei detenuti anche alle prigioni di Guantanamo e Bagram, ma le autorità statunitensi continuano a rifiutarsi di applicare tali norme giuridiche, compreso l’habeas corpus, comparando l’Afghanistan o Cuba, alla Germania occupata dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale o ad altri casi precedenti dove la prassi e la giurisprudenza, nel passato, hanno di fatto avvallato il rifiuto dell’applicazione di qualsiasi elementare diritto, compresi quelli derivanti dai trattati internazionali, da parte delle Autorità nordamericane.

Paolo Bargiacchi è professore associato di diritto internazionale presso l’Università Kore di Enna.

 


Lorenzo Salimbeni, La Carta del Carnaro. Irredentismo e sindacalismo rivoluzionario

La Carta del Carnaro, che Gabriele d’Annunzio promulgò l’8 settembre 1920 in una delle fasi più “rivoluzionarie” del periodo in cui ebbe i pieni poteri a Fiume, è stata a lungo ritenuta una composizione poetica aulica e barocca del poeta abruzzese, invece si tratta di un documento concepito soprattutto da Alceste De Ambris, sindacalista rivoluzionario che vi traspose concetti giuridici all’avanguardia per i tempi e che si rifacevano al filone repubblicano e mazziniano del Risorgimento italiano. Il federalismo, la riorganizzazione del lavoro attraverso le corporazioni per evitare l’annichilimento dell’individuo, i nuovi diritti che vi si prospettavano ed i compiti dello Stato, tutto in questo documento, di cui fin da principio i suoi estensori sapevano che poco sarebbero riusciti a realizzare nel contesto fiumano, voleva essere soprattutto un esempio per i popoli usciti dalla temperie della Grande Guerra per rispondere alle loro istanze sociali.

Lorenzo Salimbeni è dottorando di ricerca in Storia Contemporanea presso la Scuola Dottorale in Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Trieste. Dirigente della Lega Nazionale e socio dell’IsAG, giornalista pubblicista e operatore culturale attraverso varie realtà associative.

 


Giovanni Andriolo, I rifugiati somali in Yemen

Il continuo deterioramento, negli ultimi due decenni, della situazione politicosociale in Somalia ha dato luogo ad un fenomeno dalle dimensioni crescenti e dalle conseguenze imprevedibili e difficilmente controllabili: si tratta della fuga da parte di migliaia di cittadini somali verso i Paesi africani confinanti e verso le coste dello Yemen, attraverso il Golfo di Aden. Questo flusso incessante coglie impreparato il Governo yemenita e favorisce, suo malgrado, i contatti tra militanti di gruppi armati islamisti somali e yemeniti, nonché attività di traffico internazionale e di sfruttamento di esseri umani, coinvolgendo a vari livelli attori locali, regionali e internazionali. La questione si configura attualmente come una delle crisi umanitarie più gravi al mondo.

Giovanni Andriolo, dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino), è ricercatore presso l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

 


Elia Cuoco, Se la “Linea Azzurra” si allunga di 200 miglia

Un teatro caldissimo. E a settanta miglia nautiche dalla costa un nuovo motivo di contesa tra Libano e Israele. Un motivo da miliardi di dollari. Tel Aviv ha investito tempo e risorse per garantirsi una indipendenza energetica fondamentale per la sua sopravvivenza. E non cederà tanto facilmente alle pretese libanesi. La legge nazionale per lo sfruttamento delle risorse petrolifere catapulta il Libano sulla scena come un attore non più disposto a subire passivamente lo strapotere dell’ingombrante vicino, ma deciso a far valere le sue ragioni, forte dello storico supporto francese e tedesco ma anche della mutata linea politica statunitense nell’area, che vede nel rafforzamento della leadership economica e politica libanese una chiave di volta nel processo di stabilizzazione dell’area e nella contemporanea eliminazione o ridimensionamento di Hizballah.

Elia Cuoco è un ufficiale della Marina Militare Italiana. Dopo la laurea in Scienze Politiche ha continuato gli studi in geopolitica operando al contempo in contesti internazionali sia sotto comando NATO sia ONU. Collabora con diverse riviste in ambito Ministero Difesa.

 


Emanuele C. Francia, Internazionalizzazione e globalizzazione

Per “internazionalizzazione” si intende il fenomeno che riguarda specificatamente l’attività di impresa oltre i confini nazionali. L’analisi della dinamica delle variabili interne ed esterne all’impresa rappresenta il punto di partenza per la comprensione del modo in cui questa può porsi o si pone rispetto ai suoi interlocutori internazionali. Se non capito e gestito, come per lo più è avvenuto in questi anni, il fenomeno della globalizzazione può avere tra suoi effetti conseguenze devastanti, soprattutto per le economie occidentali sviluppate, quella italiana compresa.

Emanuele C. Francia, manager e consulente, ha seguito per anni le operazioni cross-border per numerose imprese italiane in Europa e Stati Uniti. Da alcuni anni vive a Pechino ed è co-fondatore e partner di Emasen Consulting, una società di consulenza specializzata nei processi di internazionalizzazione. Scrive per alcune riviste economiche e collabora sia con università in Italia sia in Cina nell’ambito della ricerca e dell’insegnamento.

 


Konstantin Zavinovskij, Intervista a Tair Mansurov

Tair A. Mansurov è segretario generale della Comunità Economica Eurasiatica (EvrAzES). Politologo, studioso dei rapporti russo-kazaki, è stato ambasciatore del Kazakistan nella Federazione Russa.

 


Lorenzo Salimbeni, Intervista a Antonio Palmisano

Antonio L. Palmisano è professore associato in Antropologia culturale ed in Antropologia politica all’Università degli Studi di Trieste, corso in Scienze internazionali e diplomatiche. Tra la fine del 2002 e l’inizio del 2004 ha operato in Afghanistan come “Senior advisor” per la riforma giudiziaria all’interno del programma “Rebuilding the Justice System”, assegnato al Governo italiano dagli Accordi di Bonn del 5 dicembre 2001.

 


Claudio Mutti, Recensione a A. Carandini, “La leggenda di Roma”

Giacomo Guarini, Recensione a N. Irti, “Norma e luoghi”

Giacomo Guarini, Recensione a P. Longo e D. Scalea, “Capire le rivolte arabe”

Finito il letargo liberale, si risveglia l’Eurasia

$
0
0

Dopo la breve estate liberale di Medvedev, il cui culmine è stata l’intesa, vacua quanto obbligata, con Obama sulla riduzione dei rispettivi arsenali strategici nucleari (START III), e la presentazione del ‘reset’ dei rapporti russo-statunitensi, un bottone che non è mai stato premuto, si rimette in marcia il percorso verso la ricomposizione dello spazio geostrategico e geopolitico eurasiatico.

Il primo ministro russo Vladimir Putin ha scritto un articolo pubblicato sulle Izvestia, accennava all’Unione Eurasiatica quale potente alleanza economica. Nel suo articolo, Vladimir Putin si sofferma sul futuro di Russia, Bielorussia e Kazakistan, nel quadro dell’introduzione di uno spazio economico unico, che entrerà in vigore il 1° gennaio 2012 nell’ambito dell’Unione Doganale. Per il primo ministro russo, l’Unione Euroasiatica soddisferà anche il ruolo di ‘efficace collegamento’ tra Europa e Asia-Pacifico. Uno spazio economico con un mercato di 165 milioni di consumatori, senza frontiera o altre barriere, in cui gli abitanti saranno in grado di spostarsi, lavorare e studiare liberamente. Mosca, Astana e Minsk integreranno le loro politiche economiche e monetarie, e costruiranno una vera e propria unione economica sull’esempio dell’Unione europea. Vladimir Putin ha messo in chiaro che questo è il primo passo verso l’integrazione dello spazio post-sovietico. Parlando a bordo dell’incrociatore Mikhail Kutuzov, a Novorossijsk, Putin ha presentato lo slogan ‘Andare avanti, solo in avanti!’ il che significa che non ci sarebbe stata più alcuna ritirata strategica. Inoltre, nel suo articolo, Putin ha ricordato gli stretti legami economici che univano le repubbliche sovietiche e che la rottura di questi legami, ha inferto un duro colpo ai nuovi Stati indipendenti.

L’articolo, in sostanza, delinea le politiche che Putin, se eletto presidente nel 2012, attuerà.

L’idea dell’unione attrae la maggior parte dei cittadini delle repubbliche post-sovietiche, mentre l’idea della libera circolazione dei capitali, attrarrebbe le imprese. L’Unione sarà sicuramente sostenuta da comunisti, nazionalisti, conservatori e liberali.

Così, Putin avrà buone possibilità di raccogliere un ampio supporto.

Un ulteriore elemento a supporto della visione di Putin, potrebbe essere il seguente:
Il Segretario di Stato dell’Unione di Russia e Bielorussia, Pavel Borodin, non sarà rieletto per un nuovo mandato a dicembre, le cui dimissioni imminenti sono state annunciati a Minsk, da Aleksandr Lukashenko e confermate dal Cremlino.

Al posto di Borodin, secondo una fonte dell’amministrazione presidenziali russa, si punta al leader del Movimento Eurasiatico Internazionale (MED) Aleksandr Dughin. Gli esperti ritengono che le dimissioni di Borodin suggeriscano che Vladimir Putin ha già intrapreso la creazione dell’Unione euroasiatica.

Venerdì scorso, il Presidente della Bielorussia, Aleksandr Lukashenko, ha detto che la Russia vuole sostituire Pavel Borodin alla carica di Segretario di Stato dello Stato dell’Unione di Russia e Bielorussia.” Informa RIA Novosti: “La Russia invita un’altra persona – è un suo diritto. Per inciso, il presidente del Consiglio di Stato Supremo è vostro umile servitore, “- ha detto Lukashenko, i 7 Ottobre 2011, in una conferenza stampa con i media russi in Bielorussia, sottolineando che si stava prendendo in considerazione questa raccomandazione. La fonte dell’amministrazione presidenziale ha confermato che il nuovo Segretario di Stato dell’Unione potrebbe essere il capo del MED, (Dughin)”.
Aleksandr Gelevich Dughin aveva detto: “Oggi siamo tutti Lukashenko, Gheddafi, Saddam Hussein. Tutti noi siamo rappresentati dagli Stati sovrani e indipendenti che lottano fino all’ultima goccia di sangue contro il processo di sottrazione della sovranità, la colonizzazione e la globalizzazione“.
Il progetto di Unione Eurasiatica, che resta aperto ad altri possibili aderenti, soprattutto alle ex repubbliche sovietiche, reintegra anche la Belarussia di Lukashenko, che negli ultimi anni, sotto la presidenza liberal-energetica di Medvedev, aveva subito varie forme di ostracismi e vessazioni. A queste mosse strategiche si associa anche un’altra importante repubblica ex-sovietica, il Kazakhstan: “Almaty e personalmente il presidente Nazarbayev sono sempre stati a favore di una più stretta integrazione economica con la Russia e gli altri paesi dell’ex URSS. L’Unione Euroasiatica che il presidente Nazarbayev propose per primo nel 1994, dovrebbe apportare un mutuo beneficio ai propri partner”. Il Kazakistan è già un entusiasta sostenitore dell’unione doganale con la Russia e la Bielorussia, che Putin vede come il trampolino di lancio per l’Unione Eurasiatica.” E nel frattempo “Il Kazakistan ha tolto la moratoria sui lanci di prova dei missili balistici intercontinentali (ICBM) russo dal centro spaziale di Bajkonur, ha detto il capo della agenzia spaziale russa Roscosmos Vladimir Popovkin. ‘Ora che il divieto è stato tolto saremo testeremo lanciare un ICBM da Baikonur a novembre’.
Questo programma mette fine all”estate liberale‘ di Medvedev, che tramonta sotto i colpi di un vento autunnale che ha gelato le prospettive filo-occidentali del partito dell’energia (Gazprom e associati) cui Medvedev è il referente. Tale sferza proviene dalle sabbie del Sahara libico, dove le potenze occidentali e i loro stati tributati petro-monarchici del Golfo Persico, approfittando dell’incertezza vigente a Mosca e a Beijing, hanno ottenuto mano libera contro un paese amico, la Jamahiryia Libica, che da febbraio 2011 è sottoposto a una brutale aggressione e a uno spietato bombardamento aereo della NATO. A tale aggressione partecipano tutti i tipi di asset militar-spionistici e d’influenza cui dispongono le potenze occidentali: mercenari para-narcos latinoamericani; al-qaidisti recuperati a Guantanamo o nelle prigioni dell’Afganistan; mercenari della Blackwater; truppe speciali anglo-francesi e dei petro-emirati, squadroni della morte islamisti e tribali del Nord Africa; ex-monarchici, oppositori e transfughi del regime libici. Il tutto assistito dalla kermesse mediatica occidentale (cui hanno prestato il fianco le maggiori vedette del bel mondo intellettuale della sinistra occidentale, ex-marxista o post-marxista che sia). La Libia, comunque, rappresenta il canto del cigno dell’apparato mediatico-propagandistico della disinformazione strategica occidentale, poiché difficilmente riuscirà a metter a segno lo stesso colpo permesso dalla cosiddetta ‘Primavera Araba‘:
Le autorità siriane hanno messo in guardia la comunità internazionale da un riconoscimento ufficiale del Consiglio nazionale, composto da oppositori del presidente siriano Bashar Assad. ‘Adotteremo misure severe contro uno Stato che riconosce questo consiglio illegale’ – ha detto oggi il ministro degli esteri siriano Walid al-Muallem in una conferenza stampa, informa Xinhua. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche i ministri di cinque paesi dell’America Latina (Bolivia, Venezuela, Nicaragua, Cuba ed Ecuador), che sono arrivati a Damasco per esprimere il sostegno al governo della Siria. Al-Muallem ha espresso il parere che le sanzioni imposte dall’UE all’economia della Siria ‘con il pretesto dei diritti umani’, hanno lo scopo di ‘far morire di fame il popolo siriano.’ Inoltre, il ministro ha detto che oggi 110 poliziotti e 1000 militari sono stati uccisi da “gruppi armati” che ricevono finanziamenti e sostegno materiale dai paesi occidentali.
Il capo della diplomazia siriana ha anche espresso l’apprezzamento verso Russia e Cina per la loro presa di posizione nel Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite (ONU). Ricordiamo che recentemente i due Paesi hanno bloccato l’adozione della risoluzione antisiriana al Consiglio di sicurezza dell’ONU, grazie al loro veto. “La Russia avverte di non permettere eventuali interferenze straniere negli affari della Siria e chiede un dialogo nazionale in Siria con la partecipazione dell’opposizione,” ha detto al-Muallem.”
La Russia e Cina, quindi bloccano l’assalto dell’occidente contro la Siria. I due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno posto il veto sulla bozza di risoluzione promossa da Francia, Germania, Inghilterra e Portogallo in cui si condannava il regime di Assad per la dura repressione delle aggressioni islamiste camuffate da ‘pacifiche’ manifestazioni di civili ‘dissenzienti’. Su quindici componenti del Consiglio, nove hanno votato a favore: Francia, Inghilterra, Germania, Portogallo, Stati Uniti, Bosnia Erzegovina, Nigeria, Gabon e Colombia. Quattro gli astenuti: India, Sud Africa, Libano e Brasile (insomma il BRICS). Ovviamente, i presunti promotori mondiali della democrazia e dei diritti non hanno accettato la decisione dei russi e dei cinesi. Susan Rice, rappresentante permanente degli Stati Uniti all’ONU, ha dichiarato che Washington è ‘indignata’ per il risultato del voto. “Oggi la Siria ha avuto la prova di quali sono i Paesi che hanno ignorato il suo appello. Questo Consiglio ha il dovere di porre fine a sei mesi di violenze, torture e repressioni. E ha il dovere di prendere una decisione che garantisca la pace e la sicurezza di un paese e di milioni di persone“. Neanche il rappresentante francese, Geraud Araud, non riuscendo più a trattenere la rabbia per lo smacco subito (e per la consapevolezza che il trucco oramai non funziona più) è giunto a dire perfino che il “veto politico è dettato da interessi particolari” (senza commenti). Comunque, le potenze occidentali hanno avvertito che il veto non fermerà il loro sforzo a porre fine alla sovranità della Siria.
E tutto ciò accade, mentre a Sirte, va in fumo l’ennesima promessa di una vittoria decisiva avanzata dal CNT: “Nell”offensiva finale’ contro Sirte, dove migliaia di ribelli montati su pickup e appoggiati da carri armati T-55, eseguono un attacco simultaneo da est, lungo la costa, e da sud. Le bande armate golpiste, assaltano l’ospedale, il centro congressi Ouagadogou e l’Università. Sebbene gli attacchi aerei della NATO contro i lealisti infliggano 40 caduti tra i loro ranghi, il contrattacco delle forze patriottiche respinge l’offensiva ribelle e scaccia dall’università gli occupanti golpisti, eliminando 211 combattenti del CNT, tra cui il loro comandante, il colonnello Amin al-Turki, che poche ore prima aveva detto “Stiamo per porre fine a questa resistenza. Sirte è nostra!”; inoltre restano feriti altri 300 elementi delle forze ribelli, le quali si ritirano disordinatamente. Secondo un comandante militare del CNT, Abdel-Basit Haroun, il bilancio delle perdite subite dai golpisti sarebbe di 560 ribelli uccisi e oltre 900 feriti.

10/10/2011
Alessandro Lattanzio,   storico,  esperto di questioni militari, è redattore di Eurasia. È autore, fra l’altro,  di Terrorismo sintetico (all’Insegna del Veltro, Parma 2007), Potere globale. Il ritorno della Russia sulla scena internazionale (Fuoco, Roma 2008), Atomo Rosso. Storia della forza strategica sovietica (Fuoco, Roma 2009) e L’Eurasia contesa (Fuoco, Roma 2010).
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com  

 

L’Afpak tra dilemmi e incertezze

$
0
0

A dieci anni dall’intervento statunitense e della NATO, l’Afghanistan si trova in una condizione sempre più difficile. Unitamente all’incertezza del futuro politico afghano si registra negli ultimi mesi l’incapacità degli Stati Uniti di gestire l’intricata situazione interna; questa è legata a una sorta di “dilemma” nel considerare il proprio approccio nei confronti del Pakistan, paese indispensabile per la sua posizione geopolitica. Islamabad non intende abbandonare l’influenza sull’Afghanistan poichè percepisce la propria sicurezza legata a doppio filo con Kabul. Il recente avvicinamento tra Karzai e l’India può complicare la situazione.

 

Gli ultimi mesi in Afghanistan sono stati contraddistinti da una recrudescenza della violenza. L’uccisione di figure di primo piano della politica afghana, tra le quali Ahmed Wali Karzai e Burhanuddin Rabbani, l’attacco talebano all’ambasciata statunitense e al comando NATO a Kabul, nonché l’incremento degli scontri militari nella zona sud-orientale del paese testimoniano come la situazione afghana sia sempre più delicata. L’incertezza sembra l’espressione più adatta per descrivere il futuro del paese. È sempre più evidente la debolezza politica del governo Karzai, isolato a livello internazionale, nonostante possa contare sull’appoggio recentemente offerto dall’India. La stessa strategia statunitense nei confronti dell’Afghanistan sembra aver raggiunto un punto di non ritorno per il fallimento di alcuni importanti obiettivi e la crescente instabilità del paese. Cina, Iran, India, ma soprattutto Pakistan, ricopriranno un ruolo sempre più importante, con il rischio di un incremento della competizione regionale. Unitamente alle incertezze caratterizzanti il futuro afghano esiste una sorta di “dilemma” nel considerare il proprio approccio verso l’Afghanistan, riscontrabile non solo nella strategia di Washington, ma in parte anche in quella di Pakistan e India.

 

– Le ipotesi dell’uccisione di Rabbani: un sintomo dell’incertezza afghana

 

La recente uccisione di Rabbani indica come sia difficile comprendere la politica interna afghana senza collegarla, assieme alla competizione tra i diversi gruppi etnici del paese, anche agli obiettivi dei diversi Stati interessati al futuro afghano dopo l’annunciato ritiro statunitense.

Burhannuddin Rabbani era una delle maggiori figure del variegato panorama politico di Kabul. Presidente dell’Afghanistan tra il 1992 e il 1996, fu un importante punto di riferimento per la resistenza dei mujaheddin contro i sovietici durante gli anni ‘80, contando sul concreto appoggio pakistano. Successivamente alla caduta del suo governo, rovesciato nel 1996 dai talebani, guidò la resistenza dell’Alleanza del Nord contro il regime. È stato accusato di numerosi ed efferati delitti, ma, nonostante fosse la figura più importante del gruppo etnico tagiko, era considerato un nazionalista afghano, capace di favorire l’unità del paese nonché il dialogo tra le diverse etnie. Non a caso, Rabbani ha rappresentato negli ultimi anni un fondamentale “ponte” tra Karzai, pashtun, e le etnie del nord, tagiki, hazara e uzbeki. Per questo motivo l’ultimo ruolo pubblico di primo livello ricoperto da Rabbani è stato quello di capo dell’Afghan High Peace Council, avente come obiettivo un ipotetico dialogo con i talebani in nome della riconciliazione nazionale.

E’ poco chiaro chi siano i veri mandanti della sua uccisione e, almeno per il momento, è possibile ricorrere solamente ad alcune ipotesi che offrono degli interessanti spunti legati al contesto geopolitico e alle strategie di Stati Uniti, Pakistan, India e Iran.

In un primo momento l’uccisione è stata attribuita ai talebani, accusati di non voler continuare il dialogo con il governo afghano e gli Stati Uniti: in questo modo avrebbero dimostrato l’inesistenza di una possibile alternativa al loro governo. In realtà, più che a una mancanza d’interesse nei confronti di un’ipotetica trattativa con Karzai e gli Stati Uniti, i talebani avrebbero eliminato quella che consideravano una delle figure più importanti della politica afghana. Rabbani poteva rappresentare un pericoloso concorrente per il dopo-2014, un’alternativa credibile al debole governo Karzai. Un’altra spiegazione è legata alla recente recrudescenza degli attacchi e degli scontri militari. Gli Stati Uniti hanno come obiettivo, nonostante l’annunciato ritiro, la realizzazione di una base militare permanente almeno fino al 2024. Per rendere effettivo questo scopo necessitano però dell’accettazione da parte degli afghani di una situazione di fatto: ovvero che la loro presenza risulterà indefinita nel tempo. I talebani, al contrario, dimostrerebbero all’opinione pubblica afghana, non solo che la presenza statunitense è sgradita, ma anche che l’eventualità di una sua indefinita permanenza sia impossibile. I talebani utilizzano a questo proposito una tattica psicologica più che un’adeguata forza militare, colpendo determinati luoghi e personaggi simbolo, come ad esempio l’ambasciata statunitense a Kabul e Rabbani. In ogni caso, la stessa visuale negativa della presenza permanente degli Stati Uniti espressa dai talebani è dichiarata, più o meno chiaramente, anche da Iran, Cina, Russia e Pakistan.

I talebani avrebbero inoltre visto nella figura di Rabbani un possibile ostacolo all’ascesa dei pashtun. L’eliminazione dell’ex presidente potrebbe essere letta come la volontà di minare i rapporti tra Karzai e le etnie del nord. In questa maniera i pashtun potrebbero premere maggiormente sul governo, con evidenti ripercussioni negative per tagiki, hazara e uzbeki. Vista la debolezza dell’amministrazione Karzai, la quale non gode dell’appoggio di tutte le etnie, come dimostrato dalle vicende legate alle ultime elezioni, non è da escludere che l’assassinio possa fomentare lo scontro tra le differenti componenti etnolinguistiche nell’intero Afghanistan (L’inaugurazione del Parlamento afghano. L’isolamento di Karzai e i risvolti geopolitici).

L’alternativa Rabbani a Karzai, garanzia di un ruolo maggiormente importante per l’Alleanza del Nord e per le etnie settentrionali, rappresentava un fattore intollerabile non solo per i pashtun, ma anche per il Pakistan. Islamabad avrebbe valutato negativamente l’influenza crescente di Rabbani, il quale aveva da diversi anni un legame particolare con Iran e India. L’ascesa di Rabbani a Kabul avrebbe potuto comportare un conseguente diverso ruolo per l’India. Nell’ottica pakistana la presenza di Nuova Delhi in Afghanistan è valutata come una sorta di pericoloso accerchiamento geopolitico. Al contrario, un governo alleato a Kabul favorirebbe il contenimento dell’ascesa economica e militare del nemico di sempre in Asia Meridionale. L’Afghanistan non è solamente considerato il territorio di “ritirata” strategica in caso d’invasione indiana, ma anche un indispensabile alleato: avere sia ad ovest che ad est degli Stati nemici è una prospettiva altamente negativa per gli interessi strategici di Islamabad. Inoltre, il fatto che la linea Durand non sia completamente riconosciuta dal governo di Kabul, testimonia l’esistenza di un’ulteriore preoccupazione pakistana, ovvero il problema legato al nazionalismo pashtun. Vista l’instabilità statuale e le passate mire di alcuni governi afghani verso le aree tribali pakistane (FATA) e la Khyber Pakhtunkhwa, il Pakistan intende agire attivamente in Afghanistan anche per motivi legati alla propria sicurezza interna. Questa è una delle richieste che Islamabad ha sempre posto nei confronti degli Stati Uniti. Storicamente, il Pakistan ha favorito la caduta di determinati governi o l’ascesa di personalità gradite in Afghanistan per il suo successivo controllo; l’ipotesi che anche in questa occasione il Pakistan e l’ISI abbiano giocato un ruolo fondamentale non sarebbe dunque improbabile. In ogni caso, non solo l’India può aver subito un contraccolpo negativo dall’uccisione di Rabbani, ma anche l’Iran: Tehran vedeva in Rabbani una figura di primo piano per il soddisfacimento dei propri interessi. Le dichiarazioni del responsabile per l’Afghanistan del ministero degli esteri iraniano, Mohsen Pak-Ayeen, testimoniano come l’Iran abbia perso un importante alleato (Iranian FM Official Blames NATO for Rabbani’s Assassination). Il diplomatico individua negli Stati Uniti e nella NATO i mandanti dell’esecuzione di Rabbani, poiché il loro obiettivo sarebbe quello d’indebolire Karzai e prevenire l’avvento di personalità politiche troppo vicine a Tehran. L’uccisione di Rabbani sarebbe dunque legata a quella di Ahmed Karzai, in modo da ricattare il governo affinchè accetti le richieste statunitensi e della NATO. Per quanto concerne il governo Karzai, è indubbio che gli Stati Uniti stiano esercitando una certa pressione su di esso e che sia sempre più debole. L’attuale amministrazione a Kabul risentirà dunque fortemente dell’avvenuta uccisione di Rabbani. Innanzitutto Karzai ha perso un importante interlocutore, fondamentale per il dialogo con le etnie settentrionali, le quali osserveranno con maggiore negatività le aperture verso i talebani, sponsorizzate da Karzai. Questi ultimi, nonostante abbiano dimostrato recentemente un concreto interesse per la riconciliazione, giudicano negativamente il presidente per il suo stretto legame con tagiki, hazara e uzbeki (What the Taliban Want). Il rischio è che il già intricato mosaico afghano sia contraddistinto, unitamente alle pressioni esercitate dall’esterno, da un’elevata instabilità interna foriera di possibili scontri etnolinguistici dalle conseguenze imprevedibili anche per i paesi vicini. Tutto ciò è inoltre collegato al sempre più delicato rapporto tra Washington e Islamabad: in queste ultime settimane alcuni analisti hanno parlato di un ipotetico intervento di terra statunitense in Pakistan.

 

– I dilemmi statunitensi, pakistani, indiani e l’alleanza tra Karzai e l’India

 

Il deteriorarsi delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan sta catalizzando l’attenzione dei media pakistani. In questi giorni si è parlato di un possibile intervento di terra statunitense nelle FATA per il sostegno offerto dal Pakistan alla rete Haqqani. L’organismo, fondato da Jalaluddin Haqqani, attualmente guidato dal figlio Sirajuddin e basato nel Waziristan settentrionale, opera lungo la linea Durand dagli anni dell’invasione sovietica dell’Afghanistan. Gli obiettivi strategici statunitensi a Kabul sarebbero colpiti proprio dalla rete Haqqani, considerata la responsabile di numerosi attentati. Il governo pakistano ha risposto alle accuse, ricordando che la rete venne creata e finanziata dalla CIA, in funzione anti-sovietica. In ogni caso la politica statunitense nei confronti del Pakistan sembra essere legata a un dilemma: il Pentagono, nonostante mantenga solidi rapporti con l’apparato militare pakistano, e la CIA propenderebbero per un incremento dell’intervento statunitense in Pakistan, aumentando i bombardamenti dei droni e attivando anche un’azione di terra; il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca sembrano invece più cauti, soprattutto per la mancanza di tempo in vista delle elezioni del prossimo anno e per la grave crisi economica. Esistono però ulteriori motivi geopolitici che rendono un attacco ad Islamabad altamente improbabile. Nonostante sia diviso da rivalità etniche, Islamabad ha un importante collante caratterizzato dalla religione, una popolazione di 177 milioni di abitanti, nonché un potente esercito dotato di armamenti nucleari. In queste settimane, i partiti politici principali, nonostante gli equilibri del paese rimangano precari, sembrano aver ritrovato una certa unità nazionale di fronte alle minacce statunitensi. Inoltre, il Pakistan rimane, data la sua posizione strategica, un alleato troppo importante per Washington, soprattutto per i rifornimenti militari e logistici da inviare in Afghanistan via Karachi. E’ probabile che ci sia un’intensificazione dei bombardamenti sulle FATA, ma non un intervento di terra, nonostante il Pakistan richieda da tempo la necessità di porre il proprio veto alle azioni aeree sul suo territorio. Islamabad può contare sul sostegno attivo di Arabia Saudita e Cina e ha recentemente migliorato le relazioni con Iran e Russia; ben conscia del proprio ruolo strategico per gli Stati Uniti, ha aumentato il suo potere negoziale. La stessa India osserva negativamente un ipotetico intervento di Washington in Pakistan. Nuova Delhi è irritata dai fallimenti statunitensi a Kabul, così come paventa l’esplodere di una guerra civile in Afghanistan. Un conflitto esteso al Pakistan renderebbe l’area altamente instabile, con ripercussioni negative per la stessa India; si potrebbe registrare un aggravamento della conflittualità in Kashmir, senza dimenticare la presenza di un’elevata minoranza musulmana nel territorio indiano. La politica di Nuova Delhi degli ultimi mesi nei confronti del Pakistan sembra andare in tutt’altra direzione, come dimostrato dai recenti incontri bilaterali. A questo proposito una soluzione del decennale problema legato al Kashmir potrebbe comportare delle conseguenze positive anche per l’Afghanistan. Infatti, la rete Haqqani e altri organismi collegati sono storicamente percepiti dal centro militare e politico pakistano come un importante strumento di difesa in funzione principalmente anti-indiana. Un nodo fondamentale da risolvere è essenzialmente il “dilemma della sicurezza” del Pakistan. Islamabad non potrà agire militarmente contro l’autonomo sistema legato ad Haqqani se prima non vedrà soddisfatte le necessarie condizioni politiche adatte al raggiungimento della propria sicurezza geostrategica; la quale è strettamente legata all’ascesa dell’India, percepita costantemente come una minaccia. Inoltre, un ipotetico attacco militare ai gruppi islamisti metterebbe in forse, non solo il collante religioso in grado di mantenere unito il paese lacerato dalla conflittualità etnolinguistica, ma anche la legittimità stessa dello Stato; la storia del paese testimonia infatti le costanti pressioni esercitate dai gruppi clericali, molto importanti nella società, aventi come obiettivo l’ideale del Pakistan come puro “Stato islamista”. Il dialogo tra Pakistan e India potrebbe risultare a questo proposito il fattore determinante per la stabilità della regione. La rete Haqqani, la Shura di Quetta e altri organismi simili sono utilizzati non solo in funzione anti-indiana in Kashmir o direttamente in India, ma anche per gli interessi strategici pakistani in Afghanistan.

Il rapporto indo-pakistano potrebbe però avere nell’immediato futuro un andamento conflittuale. Nonostante infatti gli Stati Uniti abbiano pubblicamente criticato il Pakistan per l’appoggio offerto alla rete Haqqani, sembra che l’amministrazione Obama, a differenza del Pentagono e della CIA, stia cercando un dialogo con questa stessa organizzazione, promettendo delle cariche future governative a Kabul (Before Lashing Out, U.S. and Pakistani Intel Reached Out to Insurgent Group; BBC:Haqqani Says US Wants Him to Join Afghan Gov’t). Gli Stati Uniti per non compromettere la propria strategia in Afghanistan opterebbero dunque per una soluzione politica piuttosto che militare. E’ evidente come una simile prospettiva sia sgradita a Nuova Delhi, visto il carattere di organismo precipuamente anti-indiano della rete Haqqani e per i legami troppo stretti che si ristabilirebbero tra Islamabad e Washington. La recente visita di Karzai in India, con la firma a margine dei colloqui di importanti accordi militari e commerciali, va letta in questo contesto di riposizionamento delle alleanze regionali. Se gli Stati Uniti sembravano allontanarsi dal Pakistan, il quale si stava avvicinando sempre più alla Cina, in queste ultime settimane il rapporto tra Washington e Islamabad può aver trovato dei margini di miglioramento; dall’altro lato, l’India ha rafforzato il proprio legame con l’Afghanistan, ma soprattutto con Karzai e l’Alleanza del Nord, destando l’allarme del Pakistan. Islamabad osserverebbe la messa in atto di un possibile accerchiamento, visto che l’importante accordo commerciale firmato tra India e Afghanistan include l’Iran, il cui territorio potrebbe fare da transito per i prodotti indiani in Asia Centrale; area in cui Nuova Delhi è interessata ad aumentare la propria influenza. Tehran sembra aver riannodato i propri rapporti con Nuova Delhi, ma è chiaro che chiederà una conferma da parte dell’India della propria autonomia dagli interessi strategici statunitensi nell’area. Bisognerà comprendere se effettivamente Nuova Delhi intraprenderà questo diverso approccio. Tehran potrebbe comunque assumere un ruolo importante nella regione, nonché diventare un’ulteriore fonte di competizione tra India e Pakistan: in questo modo la strategia degli ultimi anni di contenimento regionale operata da Washington verso l’Iran risulterebbe fallita. Inoltre, l’Iran troverebbe un importante alleato nell’India nel prevenire l’ascesa a Kabul delle forze d’ispirazione wahabita, maggiormente connesse al Pakistan e alla rete Haqqani, visti i passati canali finanziari per l’organismo provenienti dalle monarchie sunnite del Golfo Persico.

La regione potrebbe dunque registrare un nuovo possibile scontro tra India e Pakistan per l’influenza strategica nell’Hindu Kush. Il dialogo tra i due paesi verrebbe sostituito dalla competizione in Afghanistan, così come avvenuto durante gli anni ’90, rendendo il quadro geopolitico dell’area sempre più complicato. In ogni caso, nonostante le preoccupazioni dell’alleato pakistano, gli Stati Uniti giudicherebbero positivamente l’aiuto militare indiano. Lo stesso Karzai ha comunque ricordato come sia necessario in primo luogo un colloquio diretto con il Pakistan.

Infine, Nuova Delhi ha siglato un importante accordo con Kabul per l’esplorazione indiana di minerali e idrocarburi presso il passo di Hajigak. Tutto ciò potrebbe destare non solo le preoccupazioni statunitensi, ma anche cinesi. L’aumentata influenza della Cina in Asia Centrale rappresenta, infatti, l’unica certezza dell’area. L’instabilità interna afghana potrebbe dunque comportare degli effetti negativi anche per gli interessi della Cina, vista la recente acquisizione dei diritti d’esplorazione per i giacimenti di petrolio nel relativamente tranquillo nord-ovest dell’Afghanistan.

 


*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

Incontro con l’ambasciatore della Siria a Mosca organizzato da S. Baburin

$
0
0

Il 6 ottobre 2011 su invito del rettore dell’Università Statale Russa di Economia e Commercio (RSUTE) e presidente del Comitato russo di solidarietà con i popoli della Libia e della Siria Sergey Nikolaevich Baburin, l’ambasciatore della Repubblica Araba Siriana in Russia Sua Eccellenza Mohamed Riad Haddad ha tenuto un discorso presso una sala dell’Università.

 

Alla tavola rotonda, denominata “La situazione in Siria: tendenze e previsioni”, hanno partecipato anche insegnanti e studenti dell’RSUTE, studiosi orientalisti, rappresentanti del Comitato russo di Solidarietà con i popoli della Libia e Siria, dell’Organizzazione Interregionale Pubblica “Veche” e di altre organizzazioni pubbliche, i rappresentanti della diaspora siriana in Russia, compresi i fondatori del Comitato Siriano di Unità Nazionale, oltre a vari blogger che scrivono di temi politici e giornalisti. La tavola rotonda è stata, inoltre, collegata in video-conferenza con 15 città russe, per permettere agli studenti e insegnanti delle filiali dell’Università di prendere parte alla discussione.

 

L’Ambasciatore siriano ha annunciato ufficialmente che i dirigenti della Siria continueranno la rotta verso le riforme annunciate e si opporranno sempre a qualsiasi interferenza esterna negli affari interni dello Stato: «Tali interferenze non sono finalizzate a preservare l’integrità della Siria, ma a risolvere i problemi nel Paese con l’uso della forza armata». Secondo l’ambasciatore, in cambio della revoca delle sanzioni contro la Siria si richiede di abbandonare il sostegno alla resistenza araba e al popolo palestinese. Riad Haddad ha anche fatto notare che il rappresentante ufficiale degli Stati Uniti ha dichiarato pubblicamente che non servono delle riforme in Siria, ma si mira al cambiamento di regime.

 

In collegamento televisivo dalla città di Kemerovo all’ambasciatore è stato chiesto del ruolo di “Al Qaeda” negli eventi in Siria. L’ambasciatore ha risposto che la partecipazione di “Al Qaeda” non indica che si è in presenza del biglietto da visita dell’appartenenza a questa organizzazione. “Al Qaeda” è, soprattutto, una ideologia, un modo di pensare, l’orientamento all’estremismo, al terrorismo, la creazione della paura e delle guerre intestine all’interno di un popolo, la chiamata all’omicidio. Tutto ciò lo vediamo oggi all’opera in Siria.

 

Il Professor Musin dell’RSUTE ha chiesto che cosa sta facendo la Siria per contrastare la guerra d’informazione contro il Paese. Secondo l’ambasciatore, contro la Siria in realtà si svolge una guerra, e per l’80% questa guerra si svolge nel campo dell’informazione. La Siria non è in grado di affrontare ad armi pari questa potente macchina di propaganda mondiale. Per esempio, nella località di Jisr al-Shugur sono state trovate due fosse comuni con cadaveri di persone uccise dagli estremisti anti-governativi. Ottanta i corpi decomposti. Il governo siriano ha subito invitato tutti gli ambasciatori stranieri e i giornalisti dei principali mass media del mondo ad andare a vedere tutto di persona. Alcuni hanno rifiutato. Ma quelli che sono venuti, ed erano parecchi, non hanno scritto su questo ritrovamento nemmeno una riga. Riad Haddad in persona, durante questa visita, ha chiesto un commento all’ambasciatore statunitense in Siria su quello che ha visto, ma questi si è categoricamente rifiutato di commentare.

 

La Siria sta usando tutte le proprie, piuttosto modeste, possibilità. I mass media della Siria cercano di distribuire materiali veridici sulla reale situazione del Paese. E, naturalmente, i siriani hanno bisogno del sostegno dei giornalisti russi e dei blogger. Attualmente la Siria ha invitato i rappresentanti delle 12 maggiori agenzie d’informazione. L’ambasciatore ha anche promesso di trasmettere al Comitato russo di solidarietà con i popoli della Libia e della Siria dei video con i materiali e documenti che raccontano la guerra contro la Siria.

 

All’Ambasciatore della Repubblica araba siriana è stato anche chiesto in merito alla situazione in Libia. Secondo il suo parere, la Siria ha suoi principi politici, uno di questi è la non ingerenza negli affari interni di altri Stati. Dopo l’aggressione contro la Libia tutti hanno visto le sofferenze del popolo libico, le vittime e le distruzioni. La lezione libica dimostra che nessuno, compreso la NATO, può portare con la forza la democrazia in un qualunque Paese.

 

Piotr Rybakov, rappresentante della comunità online “Per Gheddafi e la sua gente”, ha detto che il primo dovere del presidente Al Asad, così come di qualsiasi capo di Stato, sia proteggere il suo popolo. Gli Stati Uniti pretendono di insegnare alla Siria come vivere, nonostante che la storia degli Stati Uniti ammonta a soli 200 anni, e ha chiesto all’ambasciatore quanti secoli è lunga la storia della Siria. L’ambasciatore Mohammed Riad Haddad ha risposto che la Siria ha una storia di 7.000 anni. E la cosa più importante è che durante tutto questo tempo non c’è stata nessuna guerra civile nel Paese. Ora l’Occidente sta accendendo in Siria, come già ha fatto in Iraq, i conflitti e le ostilità tra le fedi religiose.

 

E la domanda più pacifica è stata fatta da una studentessa in collegamento da Kazan: «a Kazan nel 2013 si svolgeranno le “Universiadi”. A quali specialità parteciperanno gli atleti siriani?».

Sorridente l’ambasciatore ha detto che gli atleti siriani gareggeranno principalmente nel salto in alto.

«State in attesa!» ha aggiunto ottimisticamente S. Baburin.

Il progetto eurasiatico, una minaccia per il Nuovo Ordine Mondiale

$
0
0

Si potrebbe essere tentati di considerare il documento del premier russo Vladimir Putin, “Un nuovo progetto per l’integrazione del Eurasia: Il futuro in divenire“, che è stato pubblicato sulle Izvestia del 3 ottobre 2011, come un programma tracciato sommariamente da un concorrente delle elezioni presidenziali; ma dopo un controllo, sembra essere solo una parte di un quadro più ampio. L’articolo di opinione, ha momentaneamente acceso ampie polemiche in Russia e all’estero, ed ha evidenziato lo scontro di posizioni in corso sullo sviluppo globale…

Indipendentemente dalla interpretazione dei dettagli, la reazione dei media occidentali al progetto di integrazione presentato dal premier russo, è uniformemente negativo e riflette con estrema chiarezza una ostilità aprioristica verso la Russia e le iniziative che avanza. Mao Zedong, però, era solito dire che affrontare la pressione dei propri nemici è meglio che essere in una condizione in cui non si preoccupano di tenerti sotto pressione.

Aiuta a capire perché, al momento, i titoli in stile Guerra Fredda spuntano costantemente sui media occidentali e perché la recente presentazione dell’integrazione eurasiatica di Putin, è percepita dall’Occidente come una minaccia.
La spiegazione più ovvia è che, se attuato, il piano diverrebbe una sfida geopolitica al nuovo ordine mondiale, al dominio della NATO, del FMI, dell’Unione europea e degli altri organismi sovranazionali, e al primato palese degli Stati Uniti. Oggi, una sempre più assertiva Russia suggerisce, ed è pronta ad iniziare a costruire, un’ampia alleanza basata su principi che forniscono una valida alternativa al neoliberismo e all’atlantismo. E’ un segreto di pulcinella, che in questi giorni l’Occidente sta mettendo in pratica una serie di progetti geopolitici di vasta portata, per riconfigurare l’Europa sulla scia dei conflitti balcanici e, sullo sfondo della crisi provocata in Grecia e a Cipro, assemblare il Grande Medio Oriente sulla base di cambiamenti di regime in serie, in tutto il mondo arabo e, come progetto relativamente nuovo, la realizzazione del progetto per l’Asia, il cui recente disastro in Giappone, è stata una fase attiva

Nel 2011, l’intensità delle dinamiche geopolitiche è senza precedenti dal crollo dell’Unione Sovietica e del blocco orientale, con tutti i principali paesi e organismi internazionali che vi contribuiscono. Inoltre, l’impressione attuale è che la forza militare, in qualche modo, sia diventata uno strumento legittimo nella politica internazionale.
Solo pochi giorni fa, Mosca ha attirato una valanga di critiche dopo aver posto il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che potrebbe autorizzare la replica dello scenario libico in Siria. Come risultato, l’inviata permanente degli USA all’ONU, S. Rice, ha rimproverato la Russia e la Cina per il veto, mentre il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, ha dichiarato che “è un giorno triste per il popolo siriano. E’ un giorno triste per il Consiglio di Sicurezza“. Durante l’acceso dibattito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 5 settembre, il rappresentante siriano ha redarguito Germania e Francia, ed ha accusato gli USA del genocidio perpetrato in Medio Oriente. Dopo di che, S. Rice ha accusato la Russia e la Cina di sperare di vendere armi al regime siriano, invece di stare dalla parte del popolo siriano, e ha abbandonato precipitosamente la riunione, e l’inviato francese Gérard Araud ha rilevato che “Nessun veto può cancellare la responsabilità delle autorità siriane, che hanno perso qualsiasi legittimità uccidendo il proprio popolo“, lasciando l’impressione che uccidere i popoli, come in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia, dovrebbe essere un privilegio della NATO.
I “partner” occidentali di Mosca si indignano quando la Russia, di concerto con la Cina, pone ostacoli sulla strada del nuovo ordine mondiale. La Siria, anche se un paese di notevole valenza regionale, giunge ad emergere nell’ordine del giorno solo fugacemente, ma l’ambizioso piano di Putin per l’intera Eurasia – “per raggiungere un più alto livello di integrazione – una Unione Euroasiatica” – avrebbe dovuto aspettarsi di evocare le preoccupazioni profonde e durature dell’Occidente. Mosca sfida apertamente il dominio globale da parte dell’Occidente “suggerendo un modello di una potente unione sovranazionale che può diventare uno dei poli del mondo di oggi, pur essendo un efficace collegamento tra l’Europa e la dinamica regione Asia-Pacifico“. Senza dubbio, il messaggio di Putin che “la combinazione di risorse naturali, di capitale e di forte potenziale umano, renderà l’Unione Euroasiatica competitiva nella gara industriale e tecnologico e nella corsa al denaro degli investitori, in nuovi posti di lavoro e negli impianti di produzione all’avanguardia” e che “insieme con altri protagonisti e istituzioni regionali come l’Unione Europea, USA, Cina e l’APEC, garantirà la sostenibilità dello sviluppo globale“, sembra allarmante per i leader occidentali

Né il crollo dell’URSS e del mondo bipolare, né la conseguente proliferazione di “democrazie” filo-occidentali, ha segnato un punto finale nella lotta per il primato mondiale. Ciò che seguì fu un periodo di interventi militari e rovesciamenti di regimi sfidanti, con l’ausilio della guerra dell’informazione e l’onnipresente soft power occidentale. In questo gioco, l’Eurasia rimane il primo premio in linea con l’imperativo geopolitico di John Mackinder, per cui “Chi governa l’Est Europa comanda l’Heartland, chi governa l’Heartland comanda l’Isola-Mondo, chi governa l’Isola-Mondo controlla il mondo“.
Alla fine del XX secolo gli USA sono diventati il primo paese non eurasiatico a combinare i ruoli di potenza più importante del mondo e di arbitro finale negli affari eurasiatici. Nel quadro della dottrina del nuovo ordine mondiale, gli Stati Uniti e l’Occidente nel suo complesso, vedono l’Eurasia come una zona di importanza fondamentale per il loro sviluppo economico e crescente potere politico. Il dominio globale è un obiettivo dichiarato apertamente e costantemente perseguito della comunità euro-atlantica e dalle sue istituzioni militari e finanziarie – la NATO, il FMI e la Banca Mondiale – insieme con i media occidentali e le innumerevoli ONG. Nel processo, l’establishment occidentale rimane pienamente consapevole del fatto che, nelle parole Z. Brzezinski, il “primato globale dell’America è direttamente dipendente da quanto tempo e quanto efficacemente la sua preponderanza sul continente eurasiatico è sostenuta“. Sostenere la “preponderanza“, a sua volta, significa assumere il controllo di Europa, Russia, Cina, Medio Oriente e Asia Centrale

L’aperta egemonia occidentale in Europa, Asia centrale e, quindi, in Medio Oriente e anche in Russia, conta quale risultato indiscutibile degli ultimi due decenni, ma al momento la situazione appare fluida. Gli osservatori occidentali, cinesi e russi prevedono un fallimento imminente del modello di globalizzazione neoliberista integrata nel nuovo ordine mondiale, ed è in arrivo il tempo, per la classe politica, di adottare una visione.

Aprendo nuove opportunità per proteggere gli originali modelli di sviluppo nazionali dalla pressione atlantista, e per mantenere una reale sicurezza internazionale, il nuovo progetto di integrazione di Putin mantiene una promessa importante, per la Russia e i suoi alleati, e presenta quindi ai nemici della Russia un problema serio. Né la Russia, né alcun altra repubblica post-post-sovietica può sopravvivere nel mondo di oggi da sola, e la Russia come attore chiave geopolitico dell’Eurasia, con una potenzialità economica, politica e militare senza precedenti in tutto lo spazio post-sovietico, può e deve, giocare l’offerta di una architettura mondiale alternativa.
L’allergia dell’Occidente al piano di Putin è dunque spiegabile, ma, a prescindere dalla opposizione che il progetto può incontrare, la debolezza di alcuni dei suoi elementi, e la potenziale difficoltà nel metterlo in pratica, il progetto di integrazione eurasiatica nasce dalla vita nello spazio geopolitico e culturale post-sovietico ed è affine alle attuali tendenze globali. Sopravvivere, conservando le basi economiche e materiali dell’esistenza nazionale, mantenendo vive le tradizioni e costruendo un futuro sicuro per i figli, sono gli obiettivi che le nazioni eurasiatiche possono realizzare solo se rimangono allineate con la Russia. In caso contrario, l’isolamento, le sanzioni e gli interventi militari le attendono…

E’ gradita la ripubblicazione con riferimento alla rivista on-line della Fondazione per la Cultura strategica www.strategic-culture.org.
Traduzione di Alessandro Lattanzio

Il volontariato italiano in Bosnia e i rapporti Italia-Serbia

$
0
0

Si è tenuto a Modena mercoledì 12 ottobre, dalle ore 14 alle 18.30, il seminario di studi “Giuseppe Barbanti Brodano, il volontariato italiano in Bosnia-Erzegovina e i rapporti tra l’Italia e la Serbia”, presso l’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Modena e Reggio Emilia, in Via Università 4.

Sono intervenuti come relatori, tra gli altri, anche Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, e Dragan Mraovic, membro del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto Storico di Modena e del Laboratorio Russia-Europe del Dipartimento di Scienze del linguaggio e della cultura, con il patrocinio dell’Università di Modena e Reggio Emilia e la collaborazione dell’Associazione d’Amicizia Italia-Serbia.

Per maggiori informazioni cliccare qui.


Crepuscolo della NATO?

$
0
0

Lo scorso 4 ottobre i Ministri della Difesa dei Paesi aderenti alla NATO si sono incontrati a Bruxelles per discutere un eventuale, ulteriore riassetto dell’ordinamento strategico dell’Alleanza Atlantica.

Tuttavia, nel corso della riunione non è emersa una visione strategica condivisa, ma un affresco piuttosto problematico riguardo ai meccanismi finanziari su cui si regge la NATO, incardinati sugli esborsi statunitensi.

La crisi ha aperto crepe assai profonde nella struttura economica statunitense, al punto che negli Stati Uniti l’ala più marcatamente reazionaria e isolazionista del partito Repubblicano (il Tea Party) ha trovato il proprio posto al sole.

Ciò ha spinto l’indipendente Robert Gates, Segretario alla Difesa sia nell’amministrazione retta da Bush junior che in quella di Obama, a mettere pubblicamente in discussione il futuro prossimo della NATO puntando il dito contro l’avidità di numerosi paesi europei che, secondo il parere di Washington, non contribuiscono a sufficienza per potenziare l’Alleanza.

Il Congresso statunitense – ha affermato Gates – non è più disposto ad approvare ulteriori stanziamenti finanziari per ovviare alla voragine aperta dalla ristrettezza alla spesa di paesi che evidentemente non sono in grado o non hanno l’intenzione di erogare fondi finalizzati al potenziamento della loro stessa struttura di difesa”.

Gates si riferiva evidentemente alla stagnazione delle missioni in Afghanistan e soprattutto in Libia, dove l’intraprendenza iniziale di Francia e Gran Bretagna è andata progressivamente attenuandosi.

In realtà, tuttavia, l’obiettivo di Washington non verte assolutamente sullo smantellamento della NATO, quanto sul lanciare un chiaro ed inequivocabile monito ai propri alleati, richiamandoli al rispetto degli accordi presi al momento dell’adesione all’Alleanza.

I paesi europei non sono però nelle condizioni adeguate per profondere sforzi in questo senso e difficilmente riusciranno a convincere le rispettive opinioni pubbliche della necessità di contribuire ad alimentare un’Alleanza Atlantica che sta dimostrandosi sempre più come un mero braccio armato della politica estera statunitense privato del proprio carattere originariamente difensivo.

Come spesso accade i momenti di crisi riservano sia rischi che opportunità, che nel caso specifico corrispondono all’irripetbile occasione di revisionare integralmente l’architrave della NATO, che ha perso la propria ragion d’essere al momento del collasso dell’Unione Sovietica.

Nel corso del vertice di Roma (7 novembre 1991) il Consiglio Atlantico avallò i progetti riorientatitivi dell’Alleanza escogitati da Washington.

Nel documento intitolato The Alliance’s New Strategic Concept ratificato al termine della riunione si legge infatti che: “Contrariamente alla predominante minaccia del passato i rischi che permangono per la sicurezza dell’Alleanza sono multidirezionali e di natura  multiforme, cosa che li rende difficili da prevedere (…). Le tensioni potrebbero sfociare in crisi dannose per la stabilità europea e portare a conflitti armati suscettibili di coinvolgere potenze esterne o espandersi anche all’interno dei paesi della NATO“.

Da ciò si deduce che: “La dimensione militare della nostra Alleanza resta un fattore cruciale, ma la novità sta nel fatto che essa sarà posta al servizio di un concetto più ampio di sicurezza“.

Il “concetto più ampio di sicurezza” menzionato all’interno del documento è stato messo in pratica in Somalia, Jugoslavia, Afghanistan e Libia, scenari in cui l’Alleanza Atlantica è intervenuta unilateralmente in assenza di attacchi diretti contro alcun paese membro, cosa che ha fatto decadere il principio cardine dell’Alleanza secondo cui “Un attacco contro uno o più membri è considerato come un attacco contro tutti“.

La NATO si configura quindi come un’alleanza che gli Stati Uniti hanno promosso con l’obiettivo di puntellare il proprio predominio sul Vecchio Continente, che passa per il veto relativo alla nascita di un esercito europeo e per il sabotaggio di ogni progetto di integrazione tre Europa ed Asia.

L’erosione dalla NATO rappresenta perciò una soluzione obbligata per un’Europa priva di ogni residuo di sovranità.

Nikolai Hovhannisyan, Il problema del Karabakh

$
0
0

Nikolai Hovhannisyan
Il problema del Karabakh
Il faticoso percorso verso la libertà

Roma, Studio 12, 2011
174 p. ; 23 cm
EAN 9788896109311
€ 18,00

Recensione di Giuliano Luongo

In quante pagine si può riassumere la lunga e sanguinosa tragedia del Nagorno-Karabakh, questione di confine che tutt’ora affligge il popolo armeno e che ancora pare senza uscita? Al Prof. Nikolay Hovhannisyan dell’Accademia Nazionale delle Scienze d’Armenia, nel suo “Il problema del Karabakh – il faticoso percorso verso la libertà e l’indipendenza” (ed. Studio 12, 2011), ne sono bastate meno di duecento per inquadrare con efficacia e lucidità il lungo e doloroso percorso degli abitanti di quest’area verso l’autodeterminazione e la libertà.

Il Nagorno-Karabakh o Artsakh – l’antico nome armeno della regione – è un’area contesa tra Armenia e Azerbaigian sin dall’annessione di queste due repubbliche all’Unione Sovietica. Il governo dell’URSS, come mossa strategica di avvicinamento alla Turchia, decise negli anni ’30 di far passare la regione del Nagorno-Karabakh – a stragrande maggioranza di popolazione armena – all’Azerbaigian. Dopo anni di soprusi e di tentativi di pulizia etnica da parte del governo di Baku, il Karabakh ha cercato il ritorno all’Armenia e l’indipendenza a più riprese, sino agli ultimi anni di esistenza dell’URSS: il traguardo sembrava raggiunto tra la fine degli anni ’80 e primi anni ’90 grazie al risultato di un referendum favorevole al distacco dall’Azerbaigian, ma la caduta del governo sovietico impedì il riconoscimento ufficiale del plebiscito, aprendo così la strada alle pretese azere e al conflitto armato.

L’intera impostazione del libro è molto efficace nella sua semplicità: ognuno dei capitoli del testo approfondisce un elemento particolare della storia del Karabakh, descrivendo con abbondanza di dettagli ogni singolo aspetto delle pretese armene e della loro legittimità, smontando al contempo tutte le ragioni azere con motivazioni ragionate. Uno dei temi portanti del libro è infatti non solo la dimostrazione della vacuità delle pretese del governo di Baku, ma la stessa messa in dubbio delle ragioni storiche dell’esistenza dell’Azerbaigian come stato.

L’analisi del Prof. Hovhannisyan inizia dai fattori storici antichi, geografici e etno-culturali dell’area, al fine di dimostrare come l’Artsakh sia armeno a dispetto di ogni pretesa o imposizione estera. Sulla base di queste premesse, l’autore procede, capitolo dopo capitolo, con un’esposizione dettagliata di tutte le dinamiche, sino alla guerra degli anni ’90 e all’affannoso cessate il fuoco, a tutt’oggi vigente, seppur costantemente violato. Il testo si avvia alla conclusione con un lungo, preciso e disincantato elenco delle varie proposte di risoluzione del conflitto, per poi chiudersi con un epilogo cosciente sullo stato attuale del Nagorno-Karabakh, un ente dichiaratosi indipendente, uno stato a sé che crede nel valore della democrazia.

A rendere peculiare il testo non è solo la tematica trattata – ingiustamente ignorata da molti storici mainstream – e l’incontestabile precisione della ricostruzione storica, ma anche lo stile con il quale vengono descritti i fatti storici e le argomentazioni.

L’intero libro, nonostante una prosa di base distaccata – testimoniante l’obiettività e l’attenzione scientifica di un abile storico come Hovannisyan – lascia che la passione e l’accoramento per la tematica trattata affiorino in maniera impercettibile quanto inesorabile nei passaggi più salienti, riuscendo a coinvolgere il lettore in pieno senza bisogno di iperboli e sensazionalismi: Hovannisyan rende vivo il desiderio di libertà dei suoi connazionali senza perdere di vista il metodo d’analisi scientifico che si confà ad un saggio di questa portata.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Continua la sfida contro Bashār al-Asad

$
0
0

Sebbene Damasco abbia iniziato il suo percorso di riforme, il boicottaggio NATO persiste nel tentativo di destabilizzare il governo di Bashār al-Asad. Le recenti manovre introdotte, infatti, intendono condurre la Siria ad un cambiamento libero dalle ingerenze esterne, in quanto promosso esclusivamente dalle forze sociali interne del paese. Tuttavia, queste misure non hanno placato le preoccupazioni del blocco filo-atlantico per il quale Damasco costituisce ancora una grossa opportunità. La Siria, infatti, rappresenta, un baluardo importante contro l’imperialismo. Alleato del vicino Iran, il paese è anche un valido supporto al Libano resistente e alla lotta palestinese. Pertanto, se l’obiettivo è quello di garantire all’entourage NATO l’avanzata verso il Vicino Oriente, nessuna riforma, promossa da al-Asad, potrà soddisfare le richieste occidentali.

I recenti sviluppi della situazione siriana

Fin dall’inizio delle proteste, la vicenda siriana ha mostrato caratteri comuni con quella libica. Per i due paesi, infatti, era stato già da tempo predisposto un identico copione. Tuttavia, fino ai disordini del 2011 è parso difficile trovare il pretesto per darne attuazione. A tal proposito, alcune fonti raccontano con accuratezza il preludio della presunta “primavera araba”. Il sovvertimento del governo siriano, insieme a quello libico e a quello libanese, era annoverato nell’agenda politica di Washington fin dal 2002. All’epoca, John Bolton, sotto segretario di stato del governo Bush, annunciò l’obiettivo dell’amministrazione statunitense. Stando alle fonti[1], il progetto prevedeva la realizzazione di un colpo di stato militare parallelamente nei tre paesi, ma, avrebbe avuto un principio di realizzazione solamente in Libia dove sarebbe stato sventato dallo stesso Muʿammar al-Qaḏḏāfī.

Nel caso siriano, era stata scelta la città di Daraa, situata al confine con la Giordania. Per la sua posizione, la città si prestava alla realizzazione del complotto anche in virtù della sua vicinanza con le alture del Golan, strappate da Israele alla Siria nel 1967. I disordini scoppiati nel mondo arabo hanno fornito l’occasione adatta per alimentare le speranze dell’avanzata occidentale nel Vicino Oriente. Secondo le fonti, esattamente come accadde anche a Bengasi, sarebbe stato costruito un banale incidente che avrebbe fatto degenerare la situazione e approfittato di un preesistente malcontento popolare. Pertanto, tale malessere, che Bashār al-Asad non ha mai negato, è stato cavalcato da fattori di accusa internazionale per riscaldare il contesto politico interno. Come anticipato, il presidente siriano non ha mai negato la legittimità delle proteste, né che le proposte di cambiamento fossero delle alternative ragionevoli. Piuttosto, il presidente ne ha deplorato l’utilizzo da parte occidentale. Il gruppo dei presunti ribelli, infatti, sarebbe più una squadra di mercenari, al soldo della CIA e del Mossad, reclutati dalla famiglia saudita, fedele alleato di Washington. In questi mesi, ben equipaggiati di armi, munizioni e denaro, i presunti rivoltosi hanno ripetutamente aggredito proprietà pubbliche e private compiendo violenze sui civili senza suscitare nemmeno un po’ di indignazione da parte dei paesi che si assurgono a tutori dei diritti e della democrazia. Nell’ultimo mese, queste milizie armate hanno ucciso indisturbatamente diversi civili, tra cui contadini, medici e funzionari della pubblica amministrazione (per citare solo alcuni esempi, il dottor Mohamed al-Omar dell’Università di Aleppo, il figlio del Gran Mufti di Siria, il primario di chirurgia toracica Hasan Aid, il vice preside della facoltà di Architettura, Mohamed Ali Aqil e numerosi altri cittadini innocenti). Le loro azioni, pertanto, più che dal desiderio di democrazia e di tutela dei diritti, sembrano essere mirate alla destabilizzazione del governo di al-Asad.

A conferma dell’emulazione dello scenario libico, inoltre, si aggiunge la costituzione del Consiglio Nazionale di Transizione siriano. Questo, pur raccogliendo i presunti ribelli, è stato designato, esattamente come nel caso libico, dalla discrezionalità occidentale come il legittimo rappresentante del popolo siriano.

La strumentalizzazione delle mancanze democratiche del governo e dei morti nelle proteste è percepita anche da reali movimenti di opposizione siriani che, da tempo, chiedono un programma di riforme. Infatti, esiste in Siria un’opposizione sana, protagonista di passate manifestazioni, che, attualmente, condanna la campagna diffamatoria contro il governo siriano. Non a caso, questi movimenti rifiutano di unirsi alle milizie stipendiate da Washington e accettano il percorso di riforme promosso da al-Asad.

Una parte del popolo siriano, infatti, considera la manovra del presidente, la sana premessa per una trasformazione che non ceda ai ricatti NATO e che non comprometta la sovranità nazionale. A tal proposito, la solida consapevolezza patriottica costituisce uno dei pilastri di legittimazione del paese. La Siria, infatti, possiede delle radici fortemente ideologizzate riconducibili, in parte, allo storico progetto della “Grande Siria” e, ancora oggi, quei movimenti che auspicano il ripristino del passato storico, non intendono cedere alle logiche imperialistiche.

Dall’inizio dei disordini, al-Asad ha parlato due volte[2] alla nazione senza mai negare le esigenze del suo popolo. In realtà, il presidente non sembra essere venuto meno al suo impegno. Le recenti manovre, infatti, si concentrano su due pilastri: le riforme politiche ed economiche e lo smantellamento dei gruppi armati. Al riguardo, il Parlamento ha approvato la nuova legge elettorale che stabilisce il diritto di voto libero, eguale e segreto per tutti i maggiori di 18 anni. Un altro testo ha permesso la liberalizzazione dei mezzi di comunicazione. Inoltre, la legge sul multipartitismo, approvata di recente, consente la costituzione libera dei partiti politici purché il loro programma sia conforme alle norme internazionali sulla tutela dei diritti umani. Attualmente, invece, si discute del nuovo testo costituzionale.

Nonostante ciò, la campagna diffamatoria contro la Siria non si arresta. In aggiunta, l’accanimento contro il paese è amplificato dalle misure economiche di sabotaggio attuate dagli USA in collaborazione con i sauditi. Nello specifico, Thierry Meyssan spiega che l’erogazione delle risorse petrolifere siriane, sebbene siano presenti in misura ridotta rispetto a quelle dei paesi limitrofi, necessita del sistema bancario occidentale. Pertanto, il fronte filo-NATO è riuscito ad attaccare la Siria congelando il sistema e impedendone le transazioni.

Per completare l’operazione di destabilizzazione mancava un ultimo passo: una risoluzione ONU che ne consentisse l’occupazione. Ancora una volta, secondo l’esempio libico.

Il voto al Consiglio di Sicurezza

Nel corso della votazione della risoluzione 1973, che permetteva l’aggressione contro la Libia, i delegati russo e cinese, astenendosi, avevano rifiutato di esercitare il loro diritto di veto. Circa la proposta di voto sull’eventuale risoluzione destinata alla Siria, gli eventi sono andati diversamente da quanto auspicato dall’asse USA-Unione Europea.

Il testo sottoposto alla votazione del Consiglio di Sicurezza è stato promosso dall’Europa e, in particolare, dalla Francia. Una prima formula chiedeva la fine delle violenze, il rispetto per i diritti umani e prevedeva che, qualora la Siria non si fosse adattata alle richieste, venissero impiegate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU delle “misure mirate, incluse delle sanzioni”[3]. Contro questa versione, Cina e Russia hanno proposto una formula che sanciva fermamente il principio di non interferenza e il rispetto della sovranità del paese. Tuttavia, gli Europei, con i francesi ancora una volta in prima linea, hanno rifiutato l’idea russo-cinese proponendo la semplice introduzione di modifiche al testo originario. In sintesi, la proposta francese, poi ammessa alla votazione, sanciva che il Consiglio di Sicurezza avrebbe potuto adottare delle “misure mirate”. Come ha fatto notare giustamente la delegazione russa, anche in questo caso, le “misure mirate”, seppure non specificate, avrebbero potuto includere manovre di ogni genere.

Il 4 ottobre, il Consiglio di Sicurezza ha votato la formula proposta dagli europei. Russia e Cina, servendosi del veto, hanno impedito la manovra contro la Siria. Successivamente alla votazione, i media hanno lasciato spazio all’indignazione delle potenze europee e in particolare a quella francese. Sebbene siano stati i personaggi più discussi, né il delegato russo, Vitaly Churkin, né il rappresentante cinese, Li Baodong, hanno trovato ampio spazio nei mezzi di informazione. Che questi abbiano agito esclusivamente in nome dell’interesse siriano potrebbe essere discutibile, tuttavia, le ragioni da loro riportate sembrano meritare attenzione.

Tra gli argomenti esposti dall’ambasciatore Vitaly Churkin e dal delegato cinese, Li Baodong, quello che riveste maggiore rilevanza riguarda il principio della tutela della sovranità siriana. Infatti, come insegna l’aggressione contro Tripoli, il nuovo testo avrebbe creato un altro caso libico. A tal proposito, il portavoce di Mosca, ha spiegato che l’aggressione al Colonnello ha palesemente mostrato alla comunità internazionale le modalità con cui uno strumento del Consiglio possa essere facilmente utilizzato per autorizzare interventi militari celati dalla targa della salvaguardia dei diritti. In sintesi, le vicende NATO in Libia non devono essere interpretate come un modello, come il testo sotto votazione avrebbe voluto fare, piuttosto sono da intendersi come un percorso da evitare.

Pertanto, ad una nuova ipotesi di occupazione NATO, Russia e Cina hanno preferito manifestare fiducia nei confronti del presidente al-Asad e del suo recente processo di riforme. Sebbene le manifestazioni rivelino un generale malessere interno, affinché il cambiamento sia il più sano possibile sarebbe bene dare alle riforme recentemente approvate, il tempo di produrre i loro effetti sul piano pratico. Il delegato russo, inoltre, ha sollevato l’allarme sui presunti ribelli. Il generale sostegno della comunità internazionale a queste milizie sembrerebbe piuttosto preoccupante, perché non rappresentative del popolo e perché fornite di armi e munizioni in grosse quantità.

Attualmente, le difficoltà economiche e il sabotaggio ritardano l’efficacia degli sforzi di al-Asad. Anche in tale occasione, i mezzi di comunicazione hanno condotto ad una percezione errata degli eventi. Le rivolte arabe, piuttosto che essere state analizzate caso per caso, sono state descritte con toni leggendari ed epici che hanno trovato facile consenso nell’opinione pubblica. Il veto esercitato dalla Russia e dalla Cina rappresenta una mossa di valore anche dal punto di vista mediatico, ragione per la quale ad essa non è stato dato ampio spazio. Tuttavia, la determinazione dell’Europa e degli Stati Uniti non sembra dimostrare un’arresa. Non è escluso, infatti, che questi riescano a trovare delle altre vie per legittimare l’auspicata impresa contro la Siria.

[1] http://www.voltairenet.org/The-plan-to-destabilize-Syria

[2]

[3] “targeted measures, including sanctions”.

Laura Tocco è dottoranda presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Accordo in Belgio: verso la fine della crisi politica

$
0
0

Il Belgio, la ventesima economia mondiale, sede delle principali Istituzioni Europee e del quartier generale della NATO, nonché membro fondatore dell’UE e capitale d’Europa, sembra finalmente vedere la fine del tunnel, quello di un interminabile governo provvisorio, durato 18 mesi, il più lungo della storia, anche più di quello dell’Iraq. Dalla metà di settembre, infatti, i rappresentanti di otto partiti sembrano aver raggiunto  un accordo per la riforma dello Stato, che entro due o tre settimane dovrebbe portare alla formazione di un governo effettivo. L’urgenza Dexia, il gruppo bancario franco-belga che per primo in Europa rischia il fallimento, avrebbe contribuito alla risoluzione dell’impasse politica di uno dei Paesi cardine dell’Unione Europea.

Quadro storico-economico belga

Il Belgio ha dovuto sempre fare i conti con le ancestrali divisioni tra le principali comunità linguistiche del Paese, divisioni legate peraltro alle differenti capacità economiche e produttive tra il Nord fiammingo e il Sud Vallone.

Così l’indipendenza del Paese nel 1830 dal Regno Unito dei Paesi Bassi fu portata avanti dalla minoranza francese, di religione cattolica, dall’attività industriale fiorente e dall’economia florida, contro le popolazione olandese. Fino alla fine del XIX secolo la sola lingua ufficiale fu il francese e i diritti dei fiamminghi furono drasticamente ridotti. Questo fu reso possibile anche grazie al fatto che fino agli anni Sessanta del ‘900 l’intera economia belga – così come l’intera Europa – si resse sul settore carbo-siderurgico, di cui la Vallonia, appunto, era maggiormente fornita. Quando questo settore andò in crisi negli anni Ottanta – parallelamente ad una rivalutazione delle attività industriali del Nord –, i fiamminghi riuscirono a ristabilire una situazione di uguaglianza ed, anzi, essi stessi sono oggi l’anima trainante del Paese. Mentre la Vallonia si trova oggi impegnata in un lento processo di riconversione del proprio apparato industriale, le Fiandre non sono solo la parte più popolosa del Paese, ma anche quella più produttiva, grazie alle imprese nel settore petrolchimico, meccanico, elettronico, automobilistico (il Belgio è il primo costruttore mondiale di autovetture pro capite), senza dimenticare quello delle pietre preziose. Da sole le Fiandre producono il 60% del PIL nazionale e la propria disoccupazione è 1/3 rispetto a quella del Sud. Discorso a parte, infine, per la Regione di Bruxelles-Capitale, regione come le altre due, enclave delle Fiandre, ma a maggioranza francese, vero nodo della contesa fra le due parti del Paese.

Perciò il sistema partitico belga riflette il multilinguismo e la complessità del sistema istituzionale: non esistono partiti belgi in senso stretto, ma solo partiti fiamminghi o valloni (anche i partiti di Bruxelles non hanno mai preso piede). Così anche il sistema elettorale non elegge deputati a livello federale: i cittadini possono votare solo un partito della propria comunità linguistica-culturale. La struttura belga, dunque, è duale, che riflette, cioè, le due comunità. Dalle elezioni politiche del 2007 queste divisioni si sono accentuate, si sono acuite le diversità di vedute riguardanti la riforma dello Stato, fino a condurre il Paese verso una vera e propria crisi istituzionale che è esplosa definitivamente in occasione delle elezioni del 13 giugno 2010 e dell’incapacità di formare un esecutivo.

Struttura e organizzazione belga

Il Belgio, situato al confine tra l’Europa germanofona e l’area linguistica e culturale romanza, in base alla Costituzione del 1831 è una Monarchia costituzionale ereditaria, anche se le riforme del 1994 e del 2001, che hanno trasferito maggiori competenze a livello locale e regionale, lo hanno reso un sistema federale (c.d federalismo per disaggregazione), che include entità di differente natura con sovrapposizione territoriale: a nord, la regione delle Fiandre, con popolazione di lingua fiamminga (variante dell’olandese) con il 58% della popolazione totale; a sud, la Vallonia, francofona ed una piccola comunità germanofona, di lingua tedesca, che formano complessivamente il 32% circa dell’intera popolazione; nel mezzo la regione diBruxelles-Capitale, ufficialmente bilingue, a maggioranza francofona.

Con le elezioni del giugno 2010, il governo belga sperava di poter superare la crisi politica causata dalla spaccatura tra i partiti fiamminghi e valloni, riguardo la determinazione della circoscrizione elettorale di Bruxelles. A nord aveva vinto largamente il partito nazionalista (ed indipendentista) della Nuova Alleanza Fiamminga (Nieuw-Vlaamse Alliantie = N-VA) di Bart De Wever, a sud il Partito Socialista di Elio di Rupo. Il risultato si è riflesso a livello parlamentare, dove i separatisti dell’N-VA hanno ottenuto 27 seggi, mentre i socialisti francofoni 26, affianco dei quali si pongono numerosi altri partiti.

La N-VA è diventato il primo partito fiammingo e la principale forza politica a livello nazionale. I rappresentanti dei partiti si sono succeduti nell’ultimo anno alla testa delle trattative per trovare un’intesa sulle problematiche più controverse, tra cui: la riforma dello Stato, la legge di finanziamento e lo status di Bruxelles, senza risultati positivi. Re Alberto II ha incaricato dapprima Yves Leterme, poi il deputato socialista fiammingo Johan Vande Lanotte, poi il socialista vallone Di Rupo e, infine, nuovamente Leterme come Primo Ministro ad interim per lo svolgimento degli affari correnti (quest’ultimo ha anche detenuto il semestre di presidenza dell’Unione Europea da luglio a dicembre 2010) e nel tentativo di trovare una soluzione alla situazione di stallo.

Ma quali sono i nodi della disputa? Innanzitutto la ridefinizione dell’assetto federale dello Stato. Da quando nel 1993 fu riformata la Costituzione, il Paese è stato suddiviso in tre entità amministrative autonome e tre lingue ufficiali: francese, olandese, tedesco. La comunità fiamminga, di tradizione olandese-tedesco, avrebbe voluto applicare con rigore il principio di sussidiarietà, limitando il più possibile il compito dello Stato. La comunità vallone, invece, propende per uno Stato centralista, con il mantenimento delle materie di competenza esclusiva dello Stato centrale come politica estera, difesa e giustizia.

Altri punti di contrasto sono: la riforma del senato; la nomina dei sindaci; i voti ai belgi all’estero; la separazione giuridica del distretto di Bruxelles, in cambio di alcune agevolazioni ai francofoni in termini di bilinguismo nei tribunali e nelle procure; il finanziamento della capitale francofona; la distribuzione della ricchezza e la conseguente riforma fiscale. I fiamminghi vorrebbero un sistema di tasse che renda giustizia all’economia del nord del Paese, più ricca e produttiva.

Questa perdurante instabilità politica e l’esistenza di un governo con competenze limitate, c’è da dire che comunque non hanno intaccato la situazione economica del Paese: il rapporto debito-PIL alla fine del 2010 è sceso sotto la soglia psicologica del 100%, il tasso di disoccupazione e in calo e, secondo le statistiche di Eurostat, il PIL nel 2010 è aumentato del 2,1% (uno dei dati migliori di Eurolandia, dove l’incremento medio è stato del +1,7%).

Il raggiungimento di un accordo

Il 13 settembre 2011 Leterme ha rassegnato le dimissioni per diventare, a fine anno, vicesegretario aggiunto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Il Re Alberto ha dovuto procedere nuovamente alle consultazioni per cercare di risolvere l’impasse politico-istituzionale.

Il 15 settembre 2011 è stata raggiunta un’intesa tra gli otto principali partiti del Paese. L’accordo, definito “storico”, con una mossa strategica di Di Rupo, incaricato in extremis di tentare il tutto per tutto, riguarda principalmente la questione dello status della circoscrizione bilingue a maggioranza francofona di Bruxelles-Hal-Vilvorde. Da anni i fiamminghi invocano la scissione del distretto e l’annullamento di una serie di diritti linguistici ed elettorali speciali di cui beneficiano i circa 130mila francofoni che vivono nella periferia fiamminga di Bruxelles. L’intesa sembra dare il definitivo benestare alla separazione del distretto, ma restano ancora nodi, come il finanziamento per la capitale, il bilanciamento della concessione fiamminga ed il trasferimento delle competenze. Tra le altre riforme in attesa di approvazione ci sono quelle del senato che diventerebbe un’assemblea degli “enti federali”; la nomina dei sindaci, con un iter molto complesso; la procedura semplificata per il voto dei belgi all’estero; il rifinanziamento di Bruxelles che avverrà in parallelo alla sua scissione.

Lo scorso 8 ottobre sono stati meglio chiariti alcuni punti: la durata della legislatura federale da 4 a 5 anni, portandola in linea con le legislazioni regionali, a partire dal 2014; il rafforzamento dell’autonomia regionale in materia fiscale, di gestione della sanità e della sicurezza sociale. Inoltre, la protezione civile e il sistema dei vigili del fuoco resteranno di competenza federale, così come il codice della strada. Saranno cancellati privilegi linguistici e amministrativi fino ad ora concessi ai francofoni che vivono nelle zone fiamminghe della regione di Bruxelles. Infine, occorrerà valutare se nella futura maggioranza ci saranno i due partiti Verdi del Paese (Groen e Ecolo), i quali hanno contribuito al raggiungimento dell’accordo, ora in discussione al Parlamento.

Sicuramente anche la crisi della banca franco-belga Dexia, ha costituito un altro problema urgente da risolvere e ha evidentemente indotto le parti ad accelerare le trattative per uscire dallo stallo.

Conclusioni

Il punto chiave della governance belga è stato ancora una volta la sua forte tradizione consociativa, che le ha sempre permesso di risolvere conflitti, anche piuttosto aspri, attraverso la partecipazione di tutte le parti sociali interessate a tavoli di trattative istituzionali ed informali. Anche il ruolo della Monarchia, in questo senso, ha giocato un ruolo importante nel mantenimento della coesione – politica e sociale – del Paese in un momento tanto delicato. Così sembra anche essere stato ridimensionato il rischio dell’approfondirsi delle spaccature tra fiamminghi e valloni e delle possibili conseguenze a livello europeo dello stesso. Esistono, infatti, numerosi casi di richieste autonomistiche in tutta Europa – in Spagna, nel Regno Unito, in Germania, in Italia, in Slovacchia, in Romania, senza dimenticare il caso del Kosovo – che guardavano e continuano ad osservare l’evolversi della situazione belga. Il sistema federale belga è sempre stato utilizzato come modello di riferimento per i sostenitori di un federalismo efficace, ponderando le esigenze autonomiste con le caratteristiche proprie di uno Stato centrale. Di conseguenza, le diatribe belghe avrebbero potuto dare una nuova spinta ai movimenti autonomisti estremisti, disseminati per il continente.

La crisi politica del Belgio aveva, infine, preoccupato molto l’Unione Europea – soprattutto nel semestre di presidenza che Bruxelles ha detenuto nel secondo semestre del 2010 – dubitando della capacità di gestire gli impegni comunitari. Il Belgio è riuscito, tuttavia, ad ottenere alcuni importanti risultati: nell’arco del proprio semestre, infatti, è stato adottato il dossier riguardante la supervisione finanziaria che consiste nella creazione di autorità di vigilanza sui rischi prudenziali delle banche, delle compagnie assicurative e dei mercati finanziari; è stato trovato un accordo per la creazione di un semestre europeo che permetta di verificare sia gli sforzi compiuti dagli Stati membri riguardo al Patto di stabilità e crescita, sia i progressi sulle iniziative più importanti della Strategia Europea 2020; è stato peraltro trovato un accordo sulla cooperazione in materia di lotta all’evasione fiscale; altre importanti misure sono state prese, infine, nel campo della sanità transfrontaliera, dell’ambiente (Bruxelles ha condotto le trattative dei Vertici di Nagoya e di Cancun), della cittadinanza e sono stati conclusi tre nuovi capiti dei negoziati di adesione della Croazia. È sulla base di ciò che la Commissione ha dato piena fiducia al governo provvisorio belga ed è convinto che l’incipiente governo sarà forte, efficace e stabile.

Donatella Ciavarroni è laureanda in Storia delle Relazioni Internazionali (Università di Urbino)

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Contro il mondo postmoderno

$
0
0

Si è tenuto a Zvenigorod (Mosca), i giorni 15 e 16 ottobre, il seminario “Contro il mondo postmoderno”.

Tra i numerosi relatori provenienti da tutto il mondo, è intervenuto anche Claudio Mutti, redattore di “Eurasia” e membro del Direttivo dell’IsAG.

L’organizzazione è stata a cura del professor Aleksandr G. Dugin per l’Università di Stato di Mosca.

 

 

MAGGIORI DETTAGLI E FOTO (cliccare)

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Terrorismo islamico: nuove sfide e minacce.

$
0
0

Sono trascorsi ormai dieci anni dall’attentato compiuto da Al-Qaeda al World Trade Center e al Pentagono, e la data dell’11 settembre 2001 rappresenta tuttora uno dei grandi fattori di mutamento negli obiettivi e nelle strategie, in politica estera e interna, dell’Occidente e di tutti gli stati del mondo.

L’attacco terroristico ha portato la comunità internazionale a ridiscutere alcuni elementi che, dalla fine del sistema bipolare, sono alla base dell’attuale sistema multipolare decentrato: l’emergere di una nuova minaccia globale, cioè il terrorismo di matrice ideologico-religiosa, e di nuovi nemici, ovvero gli attori non statuali transnazionali; la vulnerabilità della superpotenza americana, colpita nel proprio territorio con quello che è stato vissuto come un atto di guerra non dichiarato; la necessità di allargare le priorità e gli ambiti di competenza della NATO (North Atlantic Treaty Organization); l’esigenza di incrementare gli sforzi collettivi degli stati membri dell’Unione Europea per creare una precisa politica di sicurezza comune; la debolezza della globalizzazione.

Soprattutto, l’emergere del terrorismo di matrice religiosa come fattore di insicurezza internazionale, ha modificato il concetto di guerra: la Global War on Terror, preconizzata dall’amministrazione Bush e attuata con l’invasione dell’Afghanistan nel 2001, è asimmetrica e non convenzionale, combattuta contro avversari non statuali che utilizzano una struttura clandestina e traggono vantaggio dalla propria conflittualità asimmetrica, cioè lo sfruttamento da parte dell’avversario più debole, delle debolezze di quello più forte.

Il fenomeno del terrorismo islamico non è un elemento inquadrabile all’interno di una stessa cornice, da una parte perché esso si compone di una galassia di gruppi che perseguono obiettivi e strategie diverse, benché accomunati dalla medesima ideologia, e dall’altra perché esso stesso ha subito dei cambiamenti in questi dieci anni, arricchendosi di nuovi elementi.

Il terrorismo ǧihadista pre-11/09.

In principio fu l’Afghanistan.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979,in soccorso del vacillante regime comunista alleato,ha rappresentato una fase cruciale per l’elaborazione di una dottrina che ha permesso la transizione della teorizzazione del ǧihad come concetto coranico alla sua pratica tattico-operativa, e il passaggio di alcuni movimenti islamici ad un Islam radicale globale.

La nascita del radicalismo islamico ǧihadista è stata sospinta datre attori statali fondamentali: gli Stati Uniti, che poggiavano la propria strategia di containment del nemico sovieticosul sostegno,in termini di armie di addestramento da parte della CIA, alla resistenza afghana; l’Arabia Saudita, la qualegià a seguito del boom petrolifero del 1973 aveva investitole ingenti rendite di petrodollari nella diffusione di un proselitismo di dottrina wahhabitain tutto l’universo sunnita, ha fattodell’Afghanistan la propria causapolitico-religiosain chiave anti-iraniana, per accrescere il proprio prestigio elalegittimità religiosa. Ha operato a fianco del grande alleato statunitense, principalmenteattraversola Lega Islamica mondiale, portando la “wahhabizzazione” di un’area afghano-pakistana caratterizzata dalla dottrina deobandita; il Pakistan,base d’appoggio strategica per gli Stati Uniti, in cui sono stati creati iprimi campi di addestramento nella zona di Peshawar,è statosnodo di flussi di denaro, armi, uomini e idee. Prima ancora dell’Afghanistan, è stato il Pakistan il crogiuolo delle varie anime dell’islamismo sunnita: qui il governo del generale Zia ul-Haq godeva del sostegno del Ǧamaʿat-e Islami fondata da Mawdudi in cui transitava l’aiuto finanziario saudita.Le madrase islamiche hanno indottrinato i giovani profughi afghanisecondo una personalità islamica universale, nutrita dello spirito del ǧihad. È da notare che qui, però,convivevanodue diverse interpretazioni islamiste: da unaparte coloro che, come laǦamaʿat-e Islami, volevano islamizzare la modernità, e dall’altra i fondamentalisti deobanditi,i qualiinvece respingevano questo discorso.

Soltanto nel 1984-1985 hanno cominciatoad affluire in Afghanistan i cosiddetti “arabi afghani” ovvero i musulmani provenienti dai vari paesi arabo-musulmani, giunti per combattere in favoredella causa afghana.

È stato Abd Allāh al-Azzām, giurista e combattente palestinese, il personaggio più influente che per primo, rivolgendosi agli arabi,ha professato la necessità di attuareun ǧihad saġir, “minore”,alquale ognimusulmano era obbligato a partecipare, almenomoralmente o finanziariamente. Il ǧihad doveva essere di portata globale contro gli invasori sovietici,salvifico per tutta la Umma islamica, un appello rivolto ai musulmani giunti in Afghanistan per combattere uniti in nome dell’Islam. Egli,diffondendo il concetto di lotta armata islamica, ha rappresentato il principale divulgatore contemporaneo del ǧihadcosì come iscrittonella tradizione della scuola hanbalita, interpretata da Ibn Taīmiyya.Al-Azzām inseguiva la speranza che la guerra rivoluzionasse lsocietà musulmana, rendendola conscia del proprio fallimento, sia nei confronti dell’Occidente, sia verso gli stessi governi islamici, considerati empi.

I campi di training afghanie pakistani, quindi,possono essere definiti “l’incubatrice” sociale e religiosa dell’Islam radicale globale, poiché hanno permesso di amalgamare militanti provenienti da diversi paesi e di differente estrazione etnica e sociale.

Colui che ha raccolto l’appello di al-Azzām all’inizio degli anni Novanta, è stato Osama Bin Laden, che ha realizzatoilprogetto del suo ideologoe,grazie alle sue credenziali finanziarie,è riuscito a creare una rete di gruppi islamici radicali a livello globaleche fossero impegnati nella sconfitta del potere occidentale e nella costituzione di un Califfato universale. Già nel 1988 Bin Laden aveva riunitoi militantimusulmani “afghani”, creando l’organizzazione Qaʿidat al-Ǧihad, nella quale, nel corso degli anni ’90, sono confluiti vari gruppi militanti che condividevano l’ideologia ǧihadista. Tra essi la Ǧamaʿat Islāmiyya, guidata da Al-Zawahiri, trasformatosi da movimento antigovernativo egiziano a parte integrante della coalizione dell’Islam radicale, e il gruppo pakistano Lashkar-e Toiba, nato nel 1989, passato dall’essere un’organizzazione con un focus Indo-centrico, che basava le proprie istanze sulla liberazione del Kashmir indiano, a gruppo con ambizioni internazionali.

Osama Bin Laden assurse a leader supremo, sfruttando innanzitutto la delusione provocata dall’ “abbandono del ǧihad” da parte di Stati Uniti e Arabia Saudita (per i quali la questione afghana aveva perso di centralità strategica, a seguito delcrollo dell’URSS e dell’indebolimento dell’Iran): gli ex militanti islamistisi sono trovati senza uno stato che potesse evolesse controllarli, eranoprofessionisti addestrati alle armi enutriti da un misto di dottrinereligiose e tecniche di guerra. All’interno di questa composita cornice è nata la dottrina del “salafismo ǧihadista” che interpreta in chiave militanteda una partei principi elaborati alla fine del XIX secolo dall’egiziano ʿAbdu e il siriano Rida, i quali predicavano la necessità di ritorno alla tradizione islamica (salaf) per opporsi alla diffusione della modernità occidentale, edall’altrala tradizione fissata nel XIV secolo dal teologo Ibn Taīmiyya, base della dottrina wahhabita di ispirazione hanbalita, che tende al rigetto di tutte le innovazioni per un ritorno alle sorgenti vere dell’insegnamento islamico.

Il ritiro sovietico, inizialmente, è stato interpretato come una vittoria della strategia combattente islamica: i militanti erano convinti che, avendo sconfitto una superpotenza, fosse giunto il momento di rovesciare anche i regimi empi e rimpiazzarli con stati islamici riuniti in un Califfato.

In realtà il crollo dell’Unione Sovietica ha portato questistati ad essere soggetti all’influenzadegli Stati Uniti, unica superpotenza emersa con la fine del bipolarismo.

Bin Laden convogliò il fermento islamista all’interno di un messaggio propagandisticosemplice ed un programma politico che avesse un’unica richiesta, cioè la liberazione del mondo musulmano dalla presenza americana, che ha sancito la dimensione globale del conflitto con l’Occidente.

Durante gli anni ’90, Al-Qaeda si è resa protagonista diuna campagna anti-occidentale, compiendo attentati terroristici contro obiettivi americani, approfittando del safe haven rappresentato dal Sudan di Bashir, prima, e dall’Afghanistan dei Taliban, guidati dal mullah ʿUmar, poi.

La strategia finaleè culminatanel 1998 con la fatwa “ Dichiarazione di guerra nei confronti dei crociati e degli ebrei”, che ha segnato la svolta nelle istanze terroristiche di matrice ǧihadista. Per fare proselitismo, daʿwa, ed ottenere appoggio popolare, era necessario concentrare l’attenzione sui nemici “lontani” dei musulmani, cioè fuori dal mondo arabo, posizionando Al-Qaeda come difensore dell’Islam.La comunicazione, quindi ha sempre assunto un ruolo centrale nell’organizzazione: l’agenzia As-Sahab fu costituita per produrre e diffondere comunicati e videocassette contenenti i messaggi di propaganda del leader Bin Laden, atti a trasmettere linee guida agli affiliati e coinvolgere le simpatie di tutti i musulmani del mondo. Proprio la capacità mediatica del messaggio e del suo contesto, ha permesso che Al-Qaeda e Bin Laden diventassero simboli di un terrorismo ǧihadista cheminacciaval’egemonia statunitense sul mondo islamico. La sproporzione della risposta all’attacco terroristico dell’11/09, cioè l’impegno in due costose e lunghe guerre (Afghanistan 2001 e Iraq 2003), non ha portato ai risultati sperati, ovvero l’eliminazione della minaccia terroristica islamica, ma ad una disgregazione in periferia dei teatri tattico-operativi e della propaganda dell’agenda qaedista.

L’evoluzione del terrorismo post 11/09.

Il cambiamento strutturale all’interno di al-Qaeda, avvenuto già dopo gli attentati compiuti a Madrid (11 marzo 2004) e a Londra (7 luglio 2005), ha trasformato l’organizzazione in una struttura reticolare che fornisce un ombrello ideologico per tutti i gruppi ǧihadisti sparsi in varie parti del mondo.Le cellule qaediste, unite dalla strategia operativa e dall’ideologia, non hanno più necessità di coordinarsi per compiere i propri obiettivi, poiché sono accomunateda un’interpretazione unitaria di quali essi siano: i nemici esterni, crociati e sionisti, e quelli interni, i regimi arabi empi.

Il terrorismo di matrice islamica qaedista si è evoluto in una fase di “spontaneismo armato”, la quale ha portato a una decentralizzazione che prevede il trasferimento operativo, logistico e finanziario in “periferia”, lasciando al “centro” le funzioni propagandistiche dell’ideologia salafita.Sicuramente l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 ha contribuito a questa evoluzione nella struttura terroristica mondiale: la perdita di controllo del territorio afghano ha fatto sì che al-Qaeda subisse un duro contraccolpo organizzativo e militare, che ha reso necessaria la sua decentralizzazione.

La minaccia terroristica ǧihadista ha assunto un carattere multidimensionale, variabile e complesso, che concentra in sé, inoltre, questioni geopolitiche, storiche e antropologiche: si potrebbe definirla una forma di terrorismo ibrido, che unisce agende locali e rivendicazioni nazionaliste con obiettivi globali.

In effetti, il “marchio del terrore” di al-Qaeda si è dislocato in varie parti del mondo arabo-islamico, dando i natali a nuove sigle che operano anche contro obietti politici regionali specifici.

Lo scenario qaedista internazionale può essere articolato secondo quanto segue:

-AQI: Al-Qaeda in Iraq, evidenziato come una minaccia centrale agli sforzi internazionali per la pacificazione e la stabilità irachena, creato da Al-Zarqawi (ucciso nel 2006 in un raid), il quale nel 2001 entrò nel gruppo militante Ansar Al-Islām. Solo nel 2004 Al-Zarqawi si unì ad Al-Qaeda, avendo però progetti propri per l’Iraq, crearne ovvero un Califfato, nonostante la stessa leadership di Al-Qaeda ne fosse contraria. L’uccisione di Al-Zarqawi ha notevolmente indebolito le capacità dell’AQI, il quale però rimane attivo, votato ad un’attività terroristica in chiave anti sciita.

-AQMI: Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, formato nel 2006 dai fuoriusciti del Gruppo Salafita per la predicazione ed il cambiamento algerino. Concentra la propria attività nella zona sahelo-sahariana, in particolare Mali e Mauritania, anche se si è assistito ad un notevole interessamento per la Nigeria, dove è entrato in contatto con il gruppo islamista Boko Haram (chiamati anche i Taliban nigeriani). Può rappresentare una minaccia regionale e internazionale se riuscisse a trarre vantaggio della nuova situazione politica della Riva sud del Mediterraneo.

-ADAO: Al-Qaeda in Africa Orientale, attualmente presente nel Corno d’Africaallargato (Etiopia, Eritrea, Kenya, Somalia, Sudan, Tanzania e Uganda). È uno dei teatri principali dell’azione qaedista, concentrata soprattutto in Somalia, stato fallito governato dal TFG (Transition Federal Governement), incapace di controllo del territorio.Qui Al-Qaeda ha trovato un safe haven e un terreno fertile per il reclutamento e il traffico di armi e flussi di denaro. Pericolosa per la stabilità dell’area è soprattutto la connessione con Al-Shabab, che lotta per l’instaurazione di un governo islamico radicale econtrolla il critico fenomeno della pirateria nel bacino somalo.

-AQAP: Al-Qaeda nella Penisola Arabica, costituito nel 2009, ha rilanciato il terrorismo ǧihadista utilizzando lo Yemen come base operativa. Attualmente il più forte affiliato di Al-Qaeda, che verosimilmente apporta la maggiore minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita.

Questa proliferazione di sigle, benché esse manchino di una reale capacità tecnicae strategica che permetta loro di realizzare i propri obiettivi,ha fatto sì che si alimentasse un conflitto permanente e di difficile contrasto, che ha giustificato un’ingerenza straniera (occidentale) nei paesi interessati dal fenomeno (ultimo episodio causato in Yemen dal raid del drone statunitense che ha ucciso Anwar Al-Awlaqi).

Il fenomeno del terrorismo islamico in Europa.

L’Islam è una realtà in Europa, in cui vivono circa venti milioni di musulmani migrati in cerca di possibilità di vita migliore e di un lavoro stabile.

Allo stesso modo, seppur i fenomeni non siano direttamente collegati, il terrorismo islamico, ormai, non è piùqualcosa di estraneo, che appartiene apaesi lontani dalla nostra realtà occidentale, o più specificatamente europea.

L’Europa non è considerata solo come una terra in cui esportare l’ideologia ǧihadista o come un territorio logistico, ma un teatro operativo in cui fare propaganda per la causa islamica e compiere attentati terroristici.

Il fenomeno in Europa ha individuato tre distinti gruppi sociali su cui attecchire:

-gli immigrati di prima generazione che non riescono ad inserirsi nella cultura, nella società e nel modo di vivere occidentale.

-gli immigrati di seconda o terza generazione che, denaturalizzati dalla cultura d’origine dei genitori, interiorizzano una visione fondamentalista dell’Islam. Si radicalizzano a causa della frequentazione di moschee e luoghi di preghiera in cui operano imam radicali, oppure attraverso il web.

-gli europei convertiti. Quest’ultimo è un fenomeno difficilmente quantificabile, e proprio per l’insita caratteristica sfuggente ai controlli di polizia, rappresenta un obiettivo interessate per il messaggio qaedista. Costoro in qualche modo favoriscono la propaganda, poiché rappresentano quei “miscredenti” che rifiutano i valori occidentali e testimoniano come la fede islamica sia migliore anche per gli occidentali stessi.

Si tratta del fenomeno dei cosiddetti “homegrown”: il concetto si riferisce a forme di radicalismo ǧihadista non importate, ovvero il processo di radicalizzazione avviene interamente in Occidente, attraverso la predicazione di personalità autoproclamatesi imam, o la consultazione della rete internet.

Nei vari siti ǧihadisti (come ad esempio Ansar-ǧehad) è possibile reperire informazioni varie, tra cui, istruzioni per la fabbricazione di “bombe fai-da-te”, ordigni creati usando sostanze confezionate artigianalmente e a base di ammoniaca, classificate come “Anfo” o “Tatp”.

A riguardo è interessante notare l’attività di propaganda di Al-Qaeda rivolta specificatamente ai musulmani in Occidente.Questa è rappresentata dal 2010 dalla rivista “Inspire” sostenuta dall’ AQAP, edita da Anwar Al-Awlaqi, imam americano di origini yemenite e personalità di spicco nel panorama radicale internazionale per la sua competenza mediatica, ucciso il 29 settembre scorso in un raid.

La rivista è diventata il maggior veicolo di radicalizzazione e di propaganda fuori dal mondo islamico e l’uccisione di Al-Awqali chiarisce che l’amministrazione americana è ben cosciente del pericolo rappresentato dal fenomeno degli auto-radicalizzati, poiché ha colpito proprio l’autore del proselitismoqaedista in Occidente.

Il cyber-ǧihad, dunque, è la nuova frontiera di tattica qaedista e ugualmente, rappresenta una nuova minaccia per l’Occidente. Proprio la propaganda on

line ha condizionato sia Abdulmutallab (in seguito addestrato in Yemen), il giovane nigeriano che nel 2009 cercò di farsi esplodere sul volo Amsterdam-Detroit, che Faisal Shahzad, americano di origine pakistana che nel 2010 caricò di esplosivo un’auto a Time Square.

Ciò dimostra la capacità di persuasione del messaggio e quanto la minaccia ǧihadista sia in grado di penetrare nei paesi occidentali, radicalizzando i suoi stessi cittadini.Nonostanteciòi radicali “homegrown” non sonoorganizzati all’interno di una struttura locale, mapossono agirecome i cosiddetti “lupi solitari”utilizzandoordigni di fattura artigianale. Questo elemento porta a ipotizzare che nel futuro l’operatività terroristica poggerà maggiormente sull’asimmetria dei mezzi di contrasto a disposizione, rendendone difficile la prevenzione.

È altresì interessante notare un dato che sembra rappresentare una distorsione del messaggio e della tattica ǧihadista all’interno del mondo islamico: nel triennio compreso tra il 2007 e il 2009 si è verificata una flessione del numero degli attacchi terroristici, su scala globale, sebbene tra il 2007 e il 2008 si sia verificato il più alto numero divittime causate da un attentato di matrice islamica. Inoltre è necessario annotare una recrudescenza del fenomeno, soprattutto in Pakistan, in Iraq e in Afghanistan, dove le vittime sono state quasi esclusivamente musulmane.

La risposta si può rintracciare nell’affinamento delle tecniche operative nel compimento di un attentato, che avviene sempre più attraverso esplosivi a controllo remoto, ma ciò che colpisce è la perversione e la strumentalizzazione del ǧihad da parte dei gruppi terroristici attivi nell’area, giacché la dottrina coranica vieta l’uccisione di musulmani (sia esso un ǧihad difensivo sia di conquista).

Una perdita di consensi tra lapopolazione nel mondo islamicopotrebbe aggiungersi agli elementi che fanno prospettare una nuova fase dello scenariodel terrorismo qaedista.

Innanzitutto la morte di Bin Laden (a seguito di un raid nel compound ad Abbottabad il 2 maggio 2011), che ha rappresentato per l’Occidente la simbolica fine di un’era, all’interno di Al-Qaeda potrebbe portare ad un ulteriore indebolimento, causato anche dalla nuova leadership. Al-Zawahiri, infatti, non ha lo stesso carisma e, più importanti, le capacità finanziarie ed i contatti del fondatore. Si potrebbe verificare una frizione ed un allontanamento delle sigle affiliate, che verosimilmente sono le più attive nel portare avanti gli obiettivi.

Inoltre Al-Qaeda deve fare i conti con gli avvenimenti politici e sociali della Riva sud del Mediterraneo e in Yemen.

Il grande dilemma è rappresentato soprattutto dall’Egitto, paese natale diAl-Zawahiri, nel quale si gioca la partita geopolitica più importante sia verso gli Stati Uniti sia versogli islamisti.Qui è emersa la forte presenza politica dei movimenti islamici, in prima fila i Fratelli Musulmani, i quali rifiutano la violenza comeforma di espressione ideologico-politica e vogliono entrare a piedi uniti nel panorama di governo, dopo decenni di clandestinità politica, ma importante presenza nel tessuto sociale.L’organizzazione, creata nel 1928 da Hasan al-Banna, ha sempre cercato di promuovere un’islamizzazione della società dal basso, partendo dalla struttura famigliaree dalla creazione di unwelfareislamico, per cercare di trasformare il sistema politico e istituzionale.Questo li ha distinti dai gruppi del fondamentalismo islamico, in primisAl-Qaeda, che invece hanno sempre professato un’islamizzazione dall’alto, imposta attraverso la lotta armata.

Dato il momento di incertezza nel mondo arabo-islamico, il messaggio e la propaganda qaedista potrebbero incrementare la loro attenzione verso musulmani presenti in Europa e negli Stati Uniti.

La perdita di autorità del nucleo afghano rispetto alle sigle affiliate, che sempre più operano seguendo proprie leadership e strategie, fa ritenere che Al-Qaeda non sia più l’avanguardia dei movimenti islamici del mondo arabo, ma che possa avvalorare una vocazione propagandistica occidentale.

“Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

*Francesca Blasi laureata in Lingua e Civiltà araba presso la facoltà di Studi Orientali dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Laureandain Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Israele e Libia: Preparare l’Africa allo “scontro di civiltà”

$
0
0

Mahdi Darius Nazemroaya Global Research

 

Introduzione di Cynthia McKinney

Ancora una volta, Mahdi Darius Nazemroaya toglie via la patina di legittimità e di inganno che avvolge il genocidio USA/NATO in corso in Libia. Nel suo primo articolo, Nazemroaya ha esposto il meccanismo con cui il mondo è venuto a “conoscere” la necessità di un intervento umanitario nella Jamahirya araba libica e le ammissioni USA/NATO dei tentativi di assassinio mirato contro il leader della rivoluzione libica del 1969, Muammar Gheddafi. Nella prima parte del suo articolo dal ritorno dalla Libia, Nazemraoya chiarisce che non c’è mai stata alcuna prova fornita alle Nazioni Unite o alla Corte penale internazionale, tale da giustificare le Risoluzioni delle Nazioni Unite 1970 e 1973 o le corrente operazioni USA/NATO in Libia.

Nel suo secondo articolo dettagliando questa storia molto triste, Nazemroaya espone le relazioni tra i protagonisti principali e i collaboratori libici della NATO e del National Endowment for Democracy, finanziato dal Congresso USA. Incredibilmente, quando i membri leader del Congresso proclamarono ripetutamente e pubblicamente che non sapevano che i “ribelli” libici collaboratori della NATO erano stati selezionati come capi dei cosiddetti ribelli, e che erano politicamente intimi con i dirigenti del National Endowment for Democracy. I leader del Consiglio nazionale di transizione, presentati a un pubblico estremamente influente nelle ex capitali coloniali, hanno ben poca influenza o supporto all’interno della Libia, e possono essere paragonati a Hamid Karzai quale fallimento morale neo-coloniale, dove l’autorità che presiede è una foglia di fico della “legittimità“, sotto cui gli stranieri puntano alla distruzione totale dei cittadini recalcitranti che chiedono l’autodeterminazione della propria comunità e del proprio paese. Nazemroaya dimostra inoltre che, nonostante la sua guerra globale al terrorismo, il governo degli Stati Uniti in realtà finanzia i terroristi e i criminali libici ricercati dall’Interpol.

In questa sua terza parte, Nazemroaya rimuove la foglia di fico USA/NATO e rivela le macchinazioni ripugnanti, odiose, disumane e ciniche della lobby pro-Israele, l’unica forza politica che sembra essere in grado di comandare il più potente degli eserciti e il più forte dei leader, agendo in modi che minacciano la pace e la tranquillità dei propri partiti politici e la sicurezza nazionale dei loro governi. Infatti, per la sua politica a sostegno di Israele, non importa quanto siano belligeranti le sue politiche, gli Stati Uniti hanno eroso il proprio interesse nazionale, mentre gli avvertimenti dai leader militari statunitensi continuano ad essere sottolineati.

In realtà, le mie esperienze personali con la lobby pro-Israele negli Stati Uniti dimostrano il forte interesse di Israele in Africa. Ho scritto sulla mia esperienza con “l’impegno” a sostenere Israele, a cui è costretto ogni candidato al Congresso degli Stati Uniti; rifiutare di firmarlo, come ho fatto, significa non avere un dollaro dei milioni spesi in ogni ciclo elettorale, in contributi alle campagne elettorali, e potersi assicurare la più feroce demonizzazione nei media, quale principale descrizione di un candidato non-cooperante. La demonizzazione del primo membro nero dell’Alabama al Congresso dalla ricostruzione, Earl Hilliard, nella sua campagna per la rielezione del 2002, con particolare riferimento alle sue visite in Libia, viene subito in mente. Settimane dopo, molti dei contribuenti di New York contrari alla sua rielezione, riapparvero nelle casse della campagna del mio avversario. Mentre sono ritratta nelle lettere ai sostenitori della lobby pro-Israele come anti-israeliana, continuerò a credere che fosse la mia attività molto concreta in Africa, che la lobby pro-Israele trovava più minacciosa. Dalla riforma agraria ai diamanti insanguinati, agli avvisi vari che ho inviato ad alcuni paesi africani produttori di petrolio, a sostenere l’autodeterminazione dei paesi africani e a lottare contro i tentativi di creare divisioni artificiali in Costa d’Avorio, Zaire/Repubblica democratica del Congo, Ruanda e Sudan, ho trovato un interesse incredibile in tutte le cose africane, da parte della lobby pro-Israele.

In effetti, sono stata invitata ad affittare la mia faccia “Nera” per questi veri interessi, e ad essere arrestata di fronte all’ambasciata del Sudan, per diffondere la narrativa dei “neri contro arabi” che così tragicamente è stata creata in Libia, come Nazemroaya descrive così bene in questo testo. Noto qui che alcuni neri, dentro e fuori il Congresso degli Stati Uniti, hanno scelto di accettare questo invito particolare a farsi arrestare. Il mio rappresentante era presente alla riunione in cui sono state pianificate le attività, il finanziamento organizzato e le azioni messe in moto. Si trattava di una manipolazione intenzionale della politica statunitense e, soprattutto, di comportamenti spregevoli in Sudan che hanno portato a violazioni dei diritti umani e a crimini contro l’umanità. La mia legislazione volta a togliere dalla lista della Borsa degli Stati Uniti, le aziende che erano complici o coinvolte in qualsiasi modo nelle violazioni dei diritti umani in Sudan, è stata ritenuta dai guardiani dell’agenda pro-Israele nel Congresso, essere una risposta inaccettabile ai veri abusi che avvengono in quel paese.

Inoltre, mentre ero in carcere in Israele, la colpa dei prigionieri africani, per lo più femminili, nel mio blocco delle celle a Ramle, era che erano seguaci della “religione sbagliata“. L’epurazione dei cristiani in Israele è un fatto. Gli scarabocchi sul muro della mia stanza d’Israele, in un altro complesso carcerario, prima della mia scarcerazione, ha chiarito che i cristiani erano deportati perché non erano voluti in Israele, e pensavano che ciò fosse a causa della loro religione. La recente spinta di Israele, nonostante i suoi residenti non-ebrei, a identificarsi come “stato ebraico“, è spiegata.

Invece in Libia ho incontrato molti africani che hanno detto che hanno scelto di vivere lì per il panafricanismo delle politiche della Jamahirya libica. Infatti, mentre ero a una “Conferenza sulla diaspora africana” a gennaio/febbraio del 2011, ho personalmente assistito, insieme ad un’altra delegazione dagli Stati Uniti, a Muammar Gheddafi che impegnava 90 miliardi dollari per gli “Stati Uniti d’Africa“, che avrebbero lavorato insieme per costruire il continente e contro gli sforzi di penetrazione e ricolonizzare di esso. I neri negli Stati Uniti che hanno lottato per la dignità, l’autodeterminazione e contro l’oppressione e l’imperialismo degli Stati Uniti, nel corso degli anni ’60 e ’70, hanno un rapporto con Muammar Gheddafi e il governo Jamahirya che risale a decenni fa. Alla 29.ma tappa del mio Libya Truth Tour, ho incontrato molti cittadini statunitensi che hanno ricordato al pubblico i contributi di Muammar Gheddafi e del governo della Jamahirya contro l’imperialismo britannico in Irlanda del Nord. Gli africani continentali che frequentavano quel passaggio del Tour, ricordavano al pubblico il sostegno di Muammar Gheddafi a Nelson Mandela e agli africani che lottavano per liberare il Continente dall’apartheid, nel momento in cui Israele condivideva l’alleanza con questo governo. Hanno inoltre rilevato l’attuale sostegno del governo della Jamahirya ai molti progetti di sviluppo in tutto il continente e al bilancio dell’Unione africana stessa. Di conseguenza, molti osservatori hanno fatto notare allarmati che l’attacco USA/NATO alla Libia è, in realtà, un attacco a tutta l’Africa. Nazemroaya rende eloquente questo punto, mentre rivela i motivi alla base della “super-violenza” che vediamo in Libia e a cui si oppone la grande maggioranza degli elettori degli stati membri della NATO, se dei risultati elettorali riportati ci si può fidare. Ciò che mi viene in mente è come qualcuno, che si identifica con la comunità della pace, possa sostenere un simile attacco alla Libia, in particolare mentre il popolo della Libia coraggiosamente resiste al dominio della NATO.

Nazemroaya rende chiaro il punto essenziale: “Un tentativo di separare il punto di fusione dell’identità araba e africana è in corso.” La Voice of America ha messo in luce gli aspetti psicologici del suo intervento brutale e allude alla mentalità delle pedine libiche degli USA/NATO; diverse storie suggeriscono che la “nuova” Libia si trasformerà più verso la sua identità araba che la sua identità africana. E la riuscita imposizione USA/NATO delle catene psicologiche della negazione dell’identità, che sono le catene più durature. Mentre ero in Tunisia, in realtà mi sono trovata faccia a faccia con i frutti di questo progetto, quando un tassista tunisino mi ha detto che non era africano! Muammar Gheddafi ha portato a casa tutti i libici, poiché la Libia, come detta la geografia, è un paese africano. Sembrava ridicolo, davanti lui, dover ribadire tale aspetto tranne che per il razzismo, il lavaggio del cervello e i fondamenti psicologici della corrente politica USA/NATO e dei suoi predecessori coloniali, come Nazemroaya dimostra.

Infine, Walter H. Kansteiner si è spostato nelle varie posizioni dell’apparato della politica estera del governo degli Stati Uniti, ed è stata esattamente la voce delle politiche descritte da Nazemroaya. Tra le posizioni in cui Kansteiner si è distinto, vi è quello di Direttore per l’Africa del Dipartimento di Stato e di direttore per gli affari africani del Consiglio di Sicurezza Nazionale durante la presidenza di George Herbert Walker Bush e di assistente per gli affari africani del Segretario di Stato, durante la presidenza di George W. Bush. Durante queste cariche, il signor Kansteiner è stato in grado di avviare la balcanizzazione dell’Africa che ora vediamo imperversare sul continente. Sono stata costretta a scrivere una lettera al presidente Bush nel 2001, esprimendo la mia preoccupazione per i suoi suggerimenti alla Repubblica Democratica del Congo. A mio parere, Laurent Kabila è stato assassinato perché si rifiutava di balcanizzare il Congo. (Lui l’ha personalmente detto al suo ultimo colloquio con un rappresentante degli Stati Uniti, che lo incoraggiava a tradire il Congo. Nelle sue ultime parole dettatemi, “Non potrò mai tradire il Congo.”)

 

Cynthia McKinney, 10 ottobre 2011.

 

Cynthia McKinney è un ex membro del Congresso degli Stati Uniti, che è stata eletta in due diverso distretti federali della Georgia, per la Camera dei Rappresentanti USA, nel 1993-2003 e nel 2005-2007, come membro del Partito Democratico degli Stati Uniti. E’ stata anche la candidata alla presidenza, nel 2008, del partito dei Verdi. Mentre era al Congresso degli Stati Uniti, ha operato nella Commissione Finanze e Banche degli Stati Uniti, nel Comitato per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti (in seguito ribattezzato Comitato sulle Forze Armate degli Stati Uniti), e nel comitato per gli affari esteri negli Stati Uniti (in seguito ribattezzato comitato sulle relazioni internazionali degli Stati Uniti). Ha anche operato nella sottocommissione per le relazioni internazionali degli Stati Uniti sulle operazioni internazionali e i diritti umani. McKinney ha condotto due missioni in Libia e anche recentemente terminato un tour nazionale negli Stati Uniti, sponsorizzata dalla Coalizione ANSWER, sulla campagna di bombardamenti della NATO in Libia.

 

ISRAELE E LIBIA: PREPARARE L’AFRICA ALLO “SCONTRO DI CIVILTA’“

Mahdi Darius Nazemroaya

 

Sotto l’amministrazione Obama gli Stati Uniti hanno esteso la “lunga guerra” in Africa. Barack Hussein Obama, il cosiddetto “Figlio dell’Africa” in realtà è diventato uno dei peggiori nemici dell’Africa. A parte il suo continuo supporto ai dittatori dell’Africa, la Repubblica della Costa d’Avorio (Costa d’Avorio) è stato scardinata sotto il suo sguardo. La divisione del Sudan è stata pubblicamente appoggiata dalla Casa Bianca prima del referendum, la Somalia è stata ulteriormente destabilizzata, la Libia è stata ferocemente attaccata dalla NATO, e l’US Africa Command (AFRICOM) si sta pienamente attivando.

La guerra in Libia è solo l’inizio di un nuovo ciclo di avventurismi militari stranieri in Africa. Gli USA vogliono ora più basi militari in Africa. Anche la Francia ha annunciato di aver il diritto di intervenire militarmente ovunque in Africa vi siano cittadini francesi e suoi interessi a rischio. La NATO sta fortificando le sue posizioni anche nel Mar Rosso e al largo delle coste della Somalia.

Mentre scompiglio e disordini si stanno ancora una volta radicando in Africa con l’intervento esterno, Israele resta silenziosamente dietro le quinte. Tel Aviv è stata effettivamente profondamente coinvolta nel nuovo ciclo di agitazione, che è collegato al suo piano Yinon per riconfigurare il suo vicinato strategico. Questo processo di riconfigurazione è basato su una tecnica ben consolidata di creazione di divisioni settarie, che alla fine neutralizzeranno efficacemente gli stati o ne provocheranno la dissoluzione.

Molti dei problemi che affliggono le aree contemporanee di Europa orientale, Asia centrale, Asia sud-occidentale, Asia meridionale, Asia orientale, Africa e America Latina sono in realtà il risultato del deliberato innesco di tensioni regionali da parte di potenze esterne. Divisione settarie, tensioni etno-linguistiche, differenze religiose e violenze interne sono state tradizionalmente sfruttate da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia in varie parti del globo. Iraq, Sudan, Ruanda e Jugoslavia sono solo alcuni esempi recenti di questa strategia del “divide et impera“, usata per mettere in ginocchio le nazioni.

 

Gli sconvolgimenti dell’Europa centro-orientale e il progetto per un “Nuovo Medio Oriente“

Il Medio Oriente, in certi aspetti, è un parallelo sorprendente ai Balcani e all’Europa Centro-Orientale degli anni precedenti la prima guerra mondiale. Sulla scia della prima guerra mondiale, i confini degli stati multi-etnici nei Balcani e in Europa centro-orientale sono stati ridisegnati e riconfigurati da potenze esterne, in alleanza con le forze di opposizione locali. Dalla prima guerra mondiale fino al post-Guerra Fredda, i Balcani e l’Europa centro-orientale hanno continuato a sperimentare un periodo di sconvolgimenti, di violenze e conflitti che hanno sempre diviso la regione.

Per anni, ci sono stati sostenitori che chiedevano un “Nuovo Medio Oriente” con i confini ridisegnati in questa regione del mondo, in cui l’Europa, Asia sudoccidentale e Nord Africa si incontrano. Si tratta per lo più do sostenitori che risiedono a Washington, Londra, Parigi e Tel Aviv. Prevedono una regione dagli stati formati intorno all’omogeneità etnico-religiose. La formazione di questi stati significherebbe la distruzione dei più grandi paesi esistenti della regione. La transizione sarebbe verso la formazione di piccoli stati come il Kuwait o il Bahrain, che potrebbero facilmente essere gestiti e manipolati da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Israele, e dai loro alleati.

 

La manipolazione della prima “Primavera araba” durante la prima guerra mondiale

I piani per la riconfigurazione del Medio Oriente, iniziarono diversi anni prima della Prima Guerra Mondiale. E’ stato durante la prima guerra mondiale, tuttavia, che la manifestazione di questi disegni coloniali emersero visibilmente con la “Grande Rivolta Araba” contro l’Impero Ottomano. Nonostante il fatto che italiani, inglesi e francesi fossero le potenze coloniali che avevano impedito agli arabi di godere di ogni libertà, in paesi come Algeria, Libia, Egitto e Sudan, queste potenze coloniali riuscirono a ritrarsi come amici e alleati della liberazione araba.

Durante la “Grande Rivolta Araba“, inglesi e francesi effettivamente utilizzarono gli arabi come soldati di fanteria contro gli ottomani, promuovendo i propri schemi geo-politico. Il segreto accordo Sykes-Picot tra Londra e Parigi è un esempio calzante. Francia e Gran Bretagna riuscirono solo ad utilizzare e manipolare gli arabi vendendogli l’idea della liberazione araba dalla cosiddetta “repressione” degli ottomani. In realtà, l’Impero Ottomano era un impero multietnico. Ha dato l’autonomia locale e culturale a tutti i suoi popoli, ma è stato manipolato divenendo una entità turca. Anche il genocidio armeno che ne derivò, nell’Anatolia ottomana, deve essere analizzato nel contesto stesso della contemporanea persecuzione dei cristiani in Iraq, come parte di un sistema settario scatenata da attori esterni, per dividere l’impero Ottomano, l’Anatolia ed i cittadini dell’Impero ottomano.

Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, Londra e Parigi negarono la libertà agli arabi, mentre spargevano i semi della discordia tra i popoli arabi. I corrotti leader locali arabi furono anche i partner del progetto, e molti di loro erano troppo felici di diventare clienti di Gran Bretagna e Francia. Nello stesso senso, la “primavera araba” viene manipolata oggi. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e altri stanno lavorando con l’aiuto dei leader e personaggi arabi corrotti per ristrutturare il mondo arabo e l’Africa.

 

Il Piano Yinon

Il Piano Yinon, che è una continuazione dello stratagemma britannico in Medio Oriente, è un piano strategico di Israele per garantire la superiorità israeliana. Insiste e stabilisce che Israele deve riconfigurare il suo ambiente geo-politico attraverso la balcanizzazione del Medio Oriente e degli Stati arabi, in stati più piccoli e più deboli.

Gli strateghi israeliani vedevano l’Iraq come la loro più grande sfida strategica da uno stato arabo. È per questo che l’Iraq è stato delineato come il fulcro per la balcanizzazione del Medio Oriente e mondo arabo. In Iraq, sulla base dei concetti del Piano Yinon, gli strateghi israeliani hanno chiesto la divisione dell’Iraq in uno stato curdo e due stati arabi, uno per i musulmani sciiti e l’altro per i musulmani sunniti. Il primo passo verso la creazione di questa fu la guerra tra Iraq e Iran, che il Piano Yinon discusse.

The Atlantic, nel 2008, e l’Armed Forces Journal degli USA, nel 2006, pubblicarono delle mappe ampiamente diffuse, che seguivano da vicino lo schema del Piano Yinon. Accanto a un Iraq diviso, che anche il Piano Biden chiedeva, il Piano Yinon richiedeva la divisione di Libano, Egitto e Siria. La divisione di Iran, Turchia, Somalia, Pakistan, ricadono tutti nella linea di mira di questa visione. Il Piano Yinon chiedeva anche lo scioglimento del Nord Africa, e prevedeva di iniziare dall’Egitto per poi riversarsi su Sudan, Libia e il resto della regione.

 

L’eliminazione delle Comunità cristiane del Medio Oriente

Non è un caso che i cristiani egiziani sono stati attaccati nello stesso momento del Referendum del Sud Sudan e prima della crisi in Libia. Né è un caso che i cristiani iracheni, una delle più antiche comunità cristiane del mondo, sono stati costretti all’esilio, lasciando le loro terre ancestrali in Iraq. In coincidenza con l’esodo dei cristiani iracheni, avvenuto sotto gli occhi attenti delle forze militari britanniche e degli Stati Uniti, i quartieri di Baghdad divennero settari, mentre i musulmani sciiti e sunniti sono stati costretti dalle violenza degli squadroni della morte a formare enclave settarie. Tutto questo è legato al Piano Yinon e alla riconfigurazione della regione come parte di un obiettivo più ampio.

In Iran, gli israeliani hanno cercato invano di ottenere che la comunità ebraica iraniana se ne andasse. La popolazione ebraica iraniana è in realtà la seconda più grande del Medio Oriente e probabilmente la più antica comunità ebraica indisturbata in tutto il mondo. Gli ebrei iraniani si considerano degli iraniani legati all’Iran come loro patria, proprio come i musulmani e i cristiani iraniani, e per loro il concetto che hanno bisogno di trasferirsi in Israele perché sono ebrei, è ridicolo.

In Libano, Israele ha lavorato a esacerbare le tensioni settarie tra le varie fazioni cristiane e musulmane così come con i drusi. Il Libano è un trampolino di lancio verso la Siria e la divisione del Libano in diversi stati, ed è anche visto come un mezzo per balcanizzare la Siria in piccoli diversi stati arabi settari. Gli obiettivi del Piano Yinon sono dividere il Libano e la Siria in stati diversi sulla base di identità religiose e settarie di musulmani sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Ci potrebbe anche essere l’obiettivo dell’esodo dei cristiani in Siria.

Il nuovo capo della Chiesa siro-cattolica maronita di Antiochia, la più grande delle Chiese orientali cattoliche autonomo, ha espresso i suoi timori circa una epurazione dei cristiani arabi nel Levante e nel Medio Oriente. Il Patriarca Mar Beshara Boutros al-Rahi e molti altri leader cristiani in Libano e Siria, hanno paura dell’avvento dei Fratelli Musulmani in Siria. Come in Iraq, gruppi misteriosi stanno attaccando le comunità cristiane in Siria. I leader della Chiesa cristiana ortodossa orientale, tra cui il patriarca ortodosso di Gerusalemme Est, hanno tutti espresso pubblicamente le loro gravi preoccupazioni. A parte gli arabi cristiani, questi timori sono condivisi anche dalla comunità assira e armena, che sono per lo più cristiane.

Sheikh al-Rahi è stato recentemente a Parigi, dove ha incontrato il presidente Nicolas Sarkozy. È stato riferito che il patriarca maronita e Sarkozy avevano dei disaccordi circa la Siria, cosa che ha spinto Sarkozy a dire che il regime siriano crollerà. La posizione del patriarca al-Rahi era che la Siria deve essere lasciata sola e permetterle la riforma. Il patriarca maronita ha anche detto a Sarkozy, che Israele doveva essere trattato come una minaccia, se la Francia voleva legittimamente che Hezbollah disarmasse.

A causa della sua posizione in Francia, al-Rahi è stato immediatamente ringraziato dai leader religiosi cristiani e musulmani della Repubblica araba siriana che lo hanno visitato in Libano. Hezbollah e i suoi alleati politici in Libano, che comprende la maggior parte dei parlamentari cristiano nel parlamento libanese, hanno anche lodato il Patriarca maronita, che poi fatto un tour in Sud Libano.

Sheikh al-Rahi è ora politicamente attaccato dall’Alleanza del 14 Marzo di Hariri, a causa della sua posizione su Hezbollah e il suo rifiuto di sostenere il rovesciamento del regime siriano. Una conferenza di figure cristiana è in realtà programmato da Hariri per opporsi al patriarca al-Rahi e alla posizione della Chiesa maronita. Dal momento che al-Rahi ha annunciato la sua posizione, il Partito Tahrir, che è attivo sia in Libano che in Siria, ha iniziato a bersagliarlo con le critiche. È stato anche riferito che alti funzionari statunitensi hanno anche cancellato i loro incontri con il patriarca maronita. come segno del loro disappunto circa le sue posizioni su Hezbollah e la Siria.

L’alleanza del 14 Marzo di Hariri in Libano, che è sempre stata una minoranza popolare (anche quando si trattava di una maggioranza parlamentare), ha lavorato mano nella mano con Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita, Giordania e gruppi che utilizzano la violenza e il terrorismo in Siria. I Fratelli Musulmani e altri cosiddetti gruppi salafiti provenienti dalla Siria, hanno coordinato e tenuto colloqui segreti con Hariri e i partiti politici cristiani in seno all’Alleanza del 14 Marzo. Questo è il motivo per cui Hariri e i suoi alleati hanno attaccato il Cardinale al-Rahi. E’ stato ancora Hariri e l’Alleanza del 14 Marzo che hanno portato Fatah Al-Islam in Libano, e hanno aiutato alcuni dei suoi membri a fuggire per andare a combattere in Siria.

Un esodo cristiano è in programma in Medio Oriente per Washington, Tel Aviv e Bruxelles. Ora viene riferito che allo sceicco al-Rahi è stato detto a Parigi, dal presidente Nicolas Sarkozy, che le comunità cristiane del Levante e del Medio Oriente possono stabilirsi nell’Unione europea. Questo non è un’offerta graziosa. E’ uno schiaffo in faccia alle stesse potenze che hanno deliberatamente creato le condizioni per sradicare le antiche comunità cristiane del Medio Oriente. Lo scopo sembra essere il reinsediamento delle comunità cristiane al di fuori della regione, in modo da delineare le nazioni arabe lungo le linee di nazioni esclusivamente musulmane. Questo rientra in conformità con il Piano Yinon.

 

Ridividere l’Africa: Il Piano Yinon è molto vivo e lavora…

Nello stesso contesto delle divisioni settarie in Medio Oriente, gli israeliani hanno illustrato i programmi per riconfigurare l’Africa. Il Piano Yinon cerca di delineare l’Africa sulla base di tre aspetti:

1) etno-linguistica;

2) colore della pelle;

3) religione.

Si cerca di tracciare la linee di divisione in Africa tra una cosiddetta “Africa Nera” e un presunto Nord Africa “non nero“. Questo fa parte di uno schema per creare uno scisma in Africa, tra ciò che si presume sia “arabo” e i cosiddetti “neri“.

Un tentativo di separare la fusione di una identità araba e africana è in corso. Questo obiettivo è il motivo della ridicola identità del “Sud Sudan africano” e di un “Nord Sudan arabo” che è stata favorita e promossa. È anche per questo che i libici di pelle nera sono stati oggetto di una campagna per “ripulire il colore” della Libia. L’identità araba del Nord Africa si sta scollegando dalla sua identità africana. Contemporaneamente vi è un tentativo di sradicare le grandi popolazioni di “arabi di pelle nera“, in modo che vi sia una chiara demarcazione tra “Africa nera” e un nuovo Nord Africa “non nero“, che sarà trasformato in un terreno di lotta tra i rimanenti berberi e arabi “non neri“.

Nello stesso contesto, sono state alimentate le tensioni tra musulmani e cristiani in Africa, in posti come il Sudan e la Nigeria, per creare ulteriori linee e punti di frattura. Alimentare queste divisioni sulla base del colore della pelle, della religione, etnia, lingua, ha lo scopo di infiammare la disunione dell’Africa. Tutto questo fa parte di una più ampia strategia africana per tagliare l’Africa del Nord dal resto del continente africano.

 

Israele e il continente africano

Gli Israeliani sono stati tranquillamente coinvolti nel continente africano per anni. Nel Sahara Occidentale, che è occupato dal Marocco, gli israeliani hanno aiutato a costruire un muro di sicurezza di separazione, come quello tra Israele e la Cisgiordania occupata. In Sudan, Tel Aviv ha armato i movimenti separatisti e gli insorti. In Sud Africa, gli israeliani hanno sostenuto il regime dell’apartheid e la sua occupazione della Namibia. Nel 2009, il ministero degli esteri israeliano ha sottolineato che l’Africa sarebbe stata al centro della rinnovata attenzione di Tel Aviv.

I due obiettivi principali in Africa di Israele sono imporre il Piano Yinon, in combutta con i propri interessi, e aiutare Washington a diventare la potenza egemone sul continente africano. A questo proposito, gli israeliani hanno anche spinto per la creazione di AFRICOM. L’Institute for Advanced Strategic and Political Studies (IASPS), un think-tank israeliano, ne è un esempio.

Washington ha esternalizzato il lavoro di intelligence in Africa, a Tel Aviv. Tel Aviv, è effettivamente coinvolto come una delle parti in una guerra più ampia, non solo “dentro” l’Africa, ma “sull“‘Africa. In questa guerra, Tel Aviv sta lavorando al fianco di Washington e dell’UE contro la Cina ed i suoi alleati, incluso l’Iran. Teheran sta operando al fianco di Pechino in un modo simile a Tel Aviv con Washington. L’Iran sta aiutando i cinesi in Africa attraverso connessioni e legami iraniani. Questi legami di Teheran comprendono anche legami di interessi commerciali privati libanesi e siriani in Africa. Così, all’interno della più ampia rivalità tra Washington e Pechino, una rivalità israelo-iraniana si è anche dispiegata nell’Africa. [1] Il Sudan è il terzo più grande produttore di armi dell’Africa, come risultato del sostegno iraniano nella produzione di armi. Nel frattempo, mentre l’Iran fornisce assistenza militare a Khartoum, incluso diversi accordi di cooperazione militare, Israele è coinvolto in varie azioni dirette contro i sudanesi. [2]

 

Israele e Libia

La Libia era stata considerata come “uno spoiler” che ha minato gli interessi delle ex potenze coloniali in Africa. A questo proposito, la Libia aveva assunto alcuni pesanti piani di sviluppo pan-africani destinati ad industrializzare l’Africa e trasformare l’Africa in un’entità integrata e politicamente assertiva. Queste iniziative erano in conflitto con gli interessi delle potenze esterne in competizione l’una con l’altra in Africa, ma era soprattutto inaccettabile per Washington e i principali paesi UE. A questo proposito, la Libia doveva essere paralizzata e neutralizzata come ente di sostegno al progresso africano e all’unità pan-africana.

Il ruolo di Israele e della lobby israeliana è stata fondamentale per aprire la porta all’intervento militare della NATO in Libia. Secondo fonti israeliane, è stato l’ente UN Watch che in realtà hanno orchestrato gli eventi a Ginevra per rimuovere la Libia dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite e per chiedere al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di intervenire. [3] L’ente UN Watch è formalmente affiliato con l’American Jewish Committee (AJC), che influenza la formulazione della politica estera degli Stati Uniti e fa parte della lobby israeliana negli Stati Uniti. La Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH), che ha contribuito a lanciare le affermazioni non verificate su 6.000 persone massacrate da Gheddafi, è anch’essa legata alla lobby israeliana in Francia.

Tel Aviv era in contatto contemporaneamente sia con il Consiglio di transizione che con il governo libico a Tripoli. Agenti del Mossad erano anche a Tripoli, uno dei quali era un ex gestore della stazione. All’incirca nello stesso tempo, membri francesi della lobby israeliana erano in visita a Bengasi. Ironicamente, il Consiglio di transizione avrebbe sostenuto che il colonnello Gheddafi stava lavorando con Israele, mentre aveva preso l’impegno a riconoscere Israele coll’inviato speciale del presidente Sarkozy, Bernard-Henri Lévy, che avrebbe poi trasmesso il messaggio ai leader israeliani [4]. Un modello simile (a quello dei legami di Israele col Consiglio di transizione) era stato sviluppato in una fase precedente, anche nel Sud Sudan, che è stato armato da Israele.

Nonostante la posizione del Consiglio di transizione su Israele, i suoi seguaci ancora cercano di demonizzare Gheddafi, sostenendo che è segretamente un ebreo. Non solo questo è falso, ma è anche bigotto. Queste accuse sono destinate ad essere una forma di assassinio della personalità, equiparando un ebreo a qualcosa di negativo.

In realtà, Israele e la NATO sono nello stesso campo. Israele è un membro de facto della NATO. Gheddafi era connivente con Israele, mentre il Consiglio di transizione lavora con la NATO, ciò significherebbe che entrambe le parti hanno effettivamente giocato scioccamente l’una contro l’altra.

 

Preparare la Scacchiera allo “scontro di civiltà“

E’ a questo punto che tutti i pezzi devono essere messi insieme ed i punti devono essere collegati. La scacchiera è stata organizzata per uno “scontro di civiltà“, e tutti i pezzi degli scacchi sono stato mossi.

Il mondo arabo è in procinto di essere diviso e le linee di demarcazione netta si stanno creando. Queste linee di demarcazione stanno sostituendo le linee di transizione senza soluzione di continuità, tra i diversi gruppi etno-linguistici, di colore della pelle e religiosi.

Nell’ambito di questo regime, non può più esserci una transizione verso la fusione tra le società e i paesi. È per questo che i cristiani in Medio Oriente e in Nord Africa, come i copti, sono presi di mira. È anche per questo che arabi e berberi dalla la pelle nera, così come altri gruppi delle popolazioni del Nord Africa, che sono neri di pelle, si trovano ad affrontare il genocidio in Nord Africa.

Ciò che viene messo in scena è la creazione del “Medio Oriente musulmano” (escluso Israele) una un’area esclusiva che sarà agitata a causa dello scontro sciita-sunnita. Uno scenario simile è stato messo in scena per un “Nord Africa non-nero“, una zona che sarà caratterizzata dallo scontro tra arabi e berberi. Allo stesso tempo, secondo il modello dello “scontro di civiltà”, il Medio Oriente e il Nord Africa sono candidati ad essere contemporaneamente in conflitto con il cosiddetto “Occidente” e l’”Africa Nera“.

Questo è il motivo per cui sia Nicolas Sarzoky, in Francia, e David Cameron, in Gran Bretagna, nelle dichiarazioni reciproche, durante l’inizio del conflitto in Libia, secondo cui il multiculturalismo è morto nelle rispettive società occidentali europee. [5]

Il multiculturalismo reale minaccia la legittimità del programma di guerra della NATO. Costituisce anche un ostacolo alla realizzazione del “scontro di civiltà” che costituisce la pietra angolare della politica estera degli Stati Uniti. A questo proposito, Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, spiega perché il multiculturalismo è una minaccia per Washington e i suoi alleati: “L’America diventa una società sempre più multiculturale, può risultare più difficile costruire un consenso su questioni di politica estera [ad esempio, la guerra con il mondo arabo, la Cina, l’Iran e la Russia o l’Unione Sovietica], tranne che nelle circostanze di una minaccia esterna diretta, veramente grande e percepita. Tale consenso generale, esisteva in tutta la seconda guerra mondiale e anche durante la Guerra Fredda [e ora esiste a causa della ‘Guerra Globale al Terrore’].” [6]

La frase successiva di Brzezinski qualifica il motivo per cui le popolazioni si sarebbero opposte o avrebbero sostenuto le guerre: “[Il consenso] era radicato, però, non solo nella profondità di valori democratici condivisi, che il pubblico percepisce come minacciati, ma anche nell’affinità culturale ed etnica per le vittime prevalentemente europee dei totalitarismi ostili“. [7]

Rischiando di essere ridondante, è da ricordare ancora una volta che è proprio con l’intenzione di rompere queste affinità culturali tra il Medio Oriente-Nord Africa (MENA) e il cosiddetto “mondo occidentale” e sub-sahariano, che i cristiani e i popoli di pelle nera sono presi di mira.

 

Etnocentrismo e ideologia: Giustificare oggi le “guerre giuste“

In passato, le potenze coloniali dell’Europa occidentale avrebbero indottrinato i loro popoli. Il loro obiettivo era quello di acquisire il sostegno popolare per la conquista coloniale. Questo ha preso la forma della diffusione del cristianesimo e della promozione dei valori cristiani. con l’appoggio di mercanti ed eserciti coloniali.

Allo stesso tempo, le ideologie razziste sono state dispiegate. I popoli le cui terre furono colonizzate, sono stati descritti come “sub-umani“, inferiori o senz’anima. Infine, è stato utilizzato il “fardello dell’uomo bianco” di assumersi una missione di civilizzazione verso i cosiddetti “popoli incivili del mondo“. Questo quadro ideologico coerente è stato utilizzato per ritrarre il colonialismo come una “giusta causa“. Quest’ultimo, a sua volta, è stato utilizzato per fornire legittimità nel condurre “guerre giuste” come mezzo per conquistare e “civilizzare” terre straniere.

Oggi, i disegni imperialisti dei Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania non sono cambiati. Ciò che è cambiato è il pretesto e la giustificazione per scatenare le loro guerre di conquista neo-coloniali. Durante il periodo coloniale, le narrazioni e le giustificazioni per fare la guerra sono state accettate dall’opinione pubblica dei paesi colonizzatori, come Gran Bretagna e Francia. Oggi “guerre giuste” e “giuste cause” sono oggi perseguite sotto le insegne dei diritti delle donne, dei diritti umani, dell’umanitarismo e della democrazia.

 

Mahdi Darius Nazemroaya è un Sociologo e ricercatore associato al Centro per la Ricerca sulla Globalizzazione (CRG), di Montréal. E’ specializzato su Medio Oriente e Asia Centrale. E’ stato in Libia per oltre due mesi ed è stato anche un inviato speciale per Flashpoints, che è un programma di Berkeley, in California. Nazemroaya ha pubblicato questi articoli sulla Libia assieme ai colloqui con Cynthia McKinney trasmessi su Freedom Now, uno show trasmesso da KPFK, Los Angeles, California.

 

Julien Teil è un operatore video e documentarista investigativo francese. E’ anche stato recentemente in Libia per circa un mese.

 

NOTE

[1] The Economist, “Israel and Iran in Africa: A search for allies in a hostile world,” 4 febbraio 2011.

[2] Ibidem.

[3] Tova Lazaroff, “70 rights groups call on UN to condemn Tripoli,” Jerusalem Post, 22 febbraio 2011.

[4] Radio France Internationale, “Libyan rebels will recognise Israel, Bernard-Henri Lévy tells Netanyahu,” 2 giugno, 2011.

[5] Robert Marquand, “Why Europe is turning away from multiculturalism,” Christian Science Monitor, 4 marzo 2011.

[6] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives (New York: Basic Books October 1997), p.211

[7] Ibidem.

 

(Traduzione Alessandro Lattanzio) – SitoAurora

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Occupare Wall Street e l’”autunno americano”: si tratta di una “rivoluzione colorata”?

$
0
0

Parte I

Global Research

 

C’è un movimento di protesta popolare che si diffonde in tutta l’America, che comprende persone di ogni ceto sociale, di tutte le età, consapevoli della necessità di un cambiamento sociale e impegnate a invertire il corso. La base di questo movimento costituisce una risposta all’”agenda di Wall Street” di frodi e di manipolazioni finanziarie che sono servite a innescare la disoccupazione e la povertà in tutto il paese.

Questo movimento costituisce, nella sua forma attuale, uno strumento di riforma significativa e di cambiamento sociale in America? Qual è la struttura organizzativa del movimento? Chi sono i suoi principali artefici? Il movimento o segmenti di questo movimento sono stati cooptati?

Questa è una domanda importante, che deve essere affrontata da coloro che fanno parte del Movimento ‘Occupare Wall Street’ così come da coloro che, in tutta l’America, sostengono la democrazia reale.

 

Introduzione

Storicamente, i movimenti sociali progressisti sono stati infiltrati, i loro leader cooptati e manipolati, attraverso il finanziamento aziendale di organizzazioni non governative, sindacati e partiti politici. Lo scopo ultimo del “finanziamento del dissenso” è impedire al movimento di protesta di contestare la legittimità delle élite economiche:

Con una amara ironia, una parte dei guadagni fraudolenti finanziari di Wall Street, negli ultimi anni, sono stati riciclati nelle fondazioni esenti da tasse e nella beneficenza delle élite. Questi disonesti guadagni finanziari non sono stati utilizzati solo per acquistare i politici, ma sono anche stati convogliati a ONG, istituti di ricerca, centri sociali, gruppi religiosi, ambientalisti, media alternativi e per i diritti umani, ecc.

L’obiettivo interno è “fabbricare il dissenso” e stabilire i confini di una opposizione “politicamente corretta”. A sua volta, molte ONG sono infiltrate da informatori che spesso agiscono per conto di agenzie di intelligence occidentali. Inoltre, un segmento sempre più ampio dei media progressisti e dei notiziari alternativi su internet, è diventato dipendente dai finanziamenti di fondazioni private ed enti di beneficenza.

L’obiettivo delle élite aziendali è quello di frammentare il movimento popolare in un vasto mosaico “fai da te”.” (Vedi Michel Chossudovsky, Manufacturing Dissent: the Anti-globalization Movement is Funded by the Corporate Elites, Global Research, 20 settembre 2010)

 

Produrre il Dissenso”

Allo stesso tempo, “il dissenso fabbricato” è intento a promuovere divisioni politiche e sociali (ad esempio all’interno e tra i partiti politici e i movimenti sociali). A sua volta, s’incoraggia la creazione di fazioni all’interno di ogni organizzazione.

Per quanto riguarda il movimento anti-globalizzazione, questo processo di divisione e frammentazione risale ai primi giorni del Forum Sociale Mondiale. (Vedasi Michel Chossudovsky, Manufacturing Dissent: The Anti-globalization Movement is Funded by the Corporate Elites, Global Research, 20 settembre 2010)

La maggior parte delle organizzazioni progressiste del periodo post-II Guerra Mondiale, compreso la “sinistra” ufficiale europea , nel corso degli ultimi 30 anni, è stata trasformata e rimodulata. Il sistema del “libero mercato” (neoliberismo) è il consenso della “sinistra“. Questo vale, tra gli altri, per il Partito socialista in Francia, il partito laburista in Gran Bretagna, i socialdemocratici in Germania, per non parlare del partito dei Verdi in Francia e Germania.

Negli Stati Uniti, il sistema bipartisan non è il risultato dell’interazione della politica dei partiti al Congresso. Una manciata di potenti gruppi di lobby aziendali controlla sia i repubblicani che i democratici. Il “consenso bi-partisan” è stabilito dalle élites che operano dietro le quinte. E’ applicata dai principali gruppi di lobby aziendali, che esercitano una morsa su entrambi i maggiori partiti politici. A sua volta, i leader della AFL-CIO sono stati cooptati dall’establishment aziendale contro la base del movimento operaio degli Stati Uniti. I leader delle organizzazioni dei lavoratori partecipano alle riunioni annuali del Forum economico mondiale di Davos (WEF). Collaborano con la Business Roundtable. Ma al tempo stesso, la base del movimento operaio degli Stati Uniti ha cercato di apportare delle modifiche organizzative che contribuiscano a democratizzare le leadership individuali dei sindacati. Le élite promuoveranno un “dissenso rituale” con un alto profilo sui media, con il supporto delle reti televisive, dei notiziari aziendali così come di internet.

Le élite economiche – che controllano grandi fondazioni – supervisionano anche il finanziamento di numerose organizzazioni della società civile, che storicamente sono state coinvolte nel movimento di protesta contro l’ordine stabilito economico e sociale. I programmi di molte organizzazioni non governative (comprese quelle coinvolte nel movimento ‘Occupare Wall Street‘) si basano molto sui finanziamenti di fondazioni private tra cui le fondazioni Tides, Ford, Rockefeller, MacArthur, tra le altre.

Storicamente, il movimento anti-globalizzazione che è emerso negli anni ’90 si è opposto a Wall Street e ai giganti del petrolio del Texas, controllati da Rockefeller, e altri. Eppure, le fondazioni e le associazioni di beneficenza di Rockefeller, Ford et altri, hanno, nel corso degli anni, generosamente finanziato reti progressiste anti-capitaliste e ambientaliste (opposte a Big Oil), al fine di sorvegliare e, in ultima analisi, l’elaborarne le varie attività.

 

Rivoluzioni colorate”

Nel corso dell’ultimo decennio, “rivoluzioni colorate” sono emerse in diversi paesi. Le “rivoluzioni colorate” sono operazioni di intelligence degli Stati Uniti che consistono nel sostenere segretamente i movimenti di protesta, al fine di innescare “cambi di regime” sotto la bandiera di un movimento pro-democrazia.

Le “rivoluzioni colorate” sono supportate dal National Endowment for Democracy, dall’International Republican Institute e dalla Freedom House, tra gli altri. L’obiettivo di una “rivoluzione colorata” è quella di fomentare disordini sociali e utilizzare il movimento di protesta per rovesciare il governo esistente. L’obiettivo finale della politica estera è quella di instaurare un compiacente governo filo-USA (o “governo fantoccio“).

 

La primavera araba”

Nell’Egitto della “primavera araba“, le principali organizzazioni della società civile, comprese Kifaya (Basta) e il Movimento Giovanile 6 aprile, non erano supportati solo da fondazioni degli Stati Uniti, hanno anche avuto l’avallo del Dipartimento di Stato americano. (Per i dettagli si veda Michel Chossudovsky, Il movimento di protesta in Egitto: “I dittatori” non dettano, obbediscono agli ordini, Global Research, 29 gennaio 2011)

Con amara ironia, Washington ha sostenuto la dittatura di Mubarak, comprese le sue atrocità, ma ha anche sostenuto e finanziato i suoi detrattori, … sotto gli auspici della Freedom House, i dissidenti e gli oppositori egiziani di Hosni Mubarak (vedi sopra) sono stati ricevuti nel maggio 2008 da Condoleezza Rice … e alla Casa Bianca dal consigliere per la Sicurezza Nazionale. Stephen Hadley.” (Si veda Michel Chossudovsky, Il movimento di protesta in Egitto: “I dittatori” non dettano, obbediscono agli ordini, Global Research, 29 gennaio 2011)

 

OTPOR e il Centro per l’applicazione dell’azione non violenta e strategie (CANVAS)

I dissidenti egiziani del Movimento Giovanile 6 aprile che, per diversi anni, erano in collegamento permanente con l’ambasciata USA al Cairo, sono stati addestrati dal Centro Serbo per l’applicazione dell’azione non violenta e strategie (CANVAS), una società di consulenza e formazione specializzata in “rivoluzioni” sostenuta da FH e dalla NED. CANVAS è stata fondata nel 2003 da OTPOR, un’organizzazione serba sostenuta dalla CIA che ha svolto un ruolo centrale nella caduta di Slobodan Milosevic, in seguito ai bombardamenti NATO del 1999 sulla Jugoslavia. Appena due mesi dopo la fine dei bombardamenti della Jugoslavia 1999, OTPOR ha svolto un ruolo centrale nell’installazione di un governo “ad interim” in Serbia, promosso da USA-NATO. Questi sviluppi hanno anche aperto la strada verso la secessione del Montenegro dalla Jugoslavia, l’istituzione della base militare statunitense Bondsteel e alla fine la formazione di uno stato mafioso in Kosovo.

Nell’agosto 1999, la CIA avrebbe creato un programma di formazione per OTPOR in Bulgaria, nella capitale Sofia:

Nell’estate del 1999, il capo della CIA George Tenet, apriva un ufficio a Sofia, in Bulgaria per “educare” l’opposizione serba. Lo scorso 28 agosto [2000], la BBC ha confermato che uno corso speciale di 10 giorni era stato seguoto dai militanti di Otpor, anche a Sofia. Il programma della CIA è un programma in fasi successive. Nella fase iniziale, lusingano il patriottismo e lo spirito di indipendenza dei serbi, in agendo come se rispettassero queste qualità. Ma dopo aver seminato confusione e spezzata l’unità del Paese, la CIA e la NATO farebbero molto di più.” (Gerard Mugemangano e Michel Collon, “To be partly controlled by the CIA ? That doesn’t bother me much”, Interview with two activists of the Otpor student movement, International Action Center (IAC), 6 Ottobre 2000. Vedasi anche “CIA is tutoring Serbian group, Otpor“, The Monitor, Sofia, tradotto da Blagovesta Doncheva, Emperors Clothes, 8 settembre 2000)

 

Il business della rivoluzione”

Il Centro per l’applicazione dell’azione non violenta e strategie (CANVAS) di OTPOR, si descrive come “una rete internazionale di formatori e consulenti” coinvolti nel “Il business della rivoluzione“. Finanziato dal National Endowment for Democracy (NED), costituisce un paravento nella consulenza e formazione dei gruppi di opposizione sponsorizzati dagli Stati Uniti in oltre 40 paesi.

OTPOR ha giocato un ruolo chiave in Egitto. Egitto, Tahir Square: quello che sembrava essere un processo di democratizzazione spontaneo, era una operazione di intelligence accuratamente pianificata. Vedasi il video qui sotto.

 

 

 

Il “Movimento Giovanile 6 aprile” dell’Egitto, ha lo stesso pugno come logo; fonte Infowars. Sia il Movimento 6 aprile che Kifaya (Basta!) hanno ricevuto una formazione preventiva dal CANVAS a Belgrado, “nelle strategie per una rivoluzione non violenta“. “Secondo Stratfor, la tattica utilizzata dal Movimento 6 aprile e da Kifaya “deriva direttamente dal curriculum formativo di CANVAS.” (Citato in Tina Rosenberg, Revolution U, Foreign Policy, 16 febbraio 2011)

Vale la pena notare la somiglianza dei loghi e dei nomi coinvolti nelle “rivoluzioni colorate” sponsorizzate da CANVAS-OTPOR. Il Movimento Giovanile 6 Aprile in Egitto ha usato il pugno chiuso come suo logo, Kifaya (“Basta!“) ha lo stesso nome del movimento di protesta giovanile supportato da OTPOR in Georgia, che è stato chiamato Kmara! (“Basta!“). Entrambi i gruppi sono stati formati da CANVAS.

 

Il ruolo di CANVAS-OTPOR nel Movimento ‘Occupare Wall Street’

CANVAS-OPTOR è attualmente coinvolto nel Movimento ‘Occupare Wall Street‘ (#OWS). Diverse importanti organizzazioni attualmente coinvolte con Occupare Wall Street (# OWS) il movimento ha svolto un ruolo significativo nella “primavera araba“. Significativo, “Anonymous“, il social media del gruppo “hacktivista“, è coinvolto negli attacchi informatici aisiti web del governo egiziano, al culmine della “primavera araba“. (Anonops, vedi anche Anonnews)

Nel maggio 2011, “Anonymous” ha condotto attacchi informatici contro l’Iran e, lo scorso agosto, ha condotto simili attacchi informatici diretti contro il Ministero della Difesa siriano. Questi attacchi informatici sono stati intrapresi a sostegno dell’”opposizione” in esilio siriana, che è in gran parte integrata dagli islamisti. (Vedasi Syrian Ministry Of Defense Website Hacked By ‘Anonymous’, Huffington Post, 8 agosto 2011). Le azioni di “Anonymous” in Siria e Iran sono coerenti con il quadro delle “rivoluzioni colorate“. Cercano di demonizzare il regime politico e creare instabilità politica. (Per l’analisi sulle opposizioni siriane, si veda Michel Chossudovsky, SIRIA: Chi c’è dietro il movimento di protesta? Fabbricare un pretesto per un “intervento umanitario” USA-NATO, Global Research, 3 maggio 2011)

Sia CANVAS che Anonymous sono ora attivamente coinvolti nel Movimento ‘Occupare Wall Street’. Il ruolo preciso di CANVAS nel Movimento ‘Occupare Wall Street’ resta da valutare. Ivan Marovic, uno dei leader di CANVAS si è recentemente rivolto al movimento di protesta ‘Occupare Wall Street‘, a New York City. Ascoltate attentamente il suo discorso. (Tenete a mente che la sua organizzazione CANVAS è supportata dal NED).

 

Clicca sul link qui sotto per ascoltare Ivan Marovic che parla a ‘Occupare Wall Street’, a New York

 

Marovic riconosceva, in una precedente dichiarazione, che non c’è nulla di spontaneo nella progettazione di un “evento rivoluzionario“: “Sembra che le persone siano appena andate in strada. Ma è il risultato di mesi o anni di preparazione. E’ molto noioso fino ad un certo punto, quando potete organizzare manifestazioni di massa o scioperi. Se è attentamente pianificata fin dall’inizio, tutto finisce nel giro di settimane“. (Citato in Tina Rosenberg, Revolution U, Foreign Policy, 16 febbraio 2011)

Questa dichiarazione del portavoce di OTPOR Ivan Marovic, suggerisce che i movimenti di protesta nel mondo arabo non si sono diffuso spontaneamente da un paese all’altro, come ritratto dai media occidentali. I movimenti di protesta nazionale sono stati pianificati con largo anticipo. La cronologia e la sequenza di questi movimenti di protesta nazionali, sono stati pure previsti. Allo stesso modo, la dichiarazione di Marovic suggerisce anche che il movimento ‘Occupare Wall Street‘ sia anch’esso oggetto di una attenta avanzata pianificazione, da parte un certo numero di organizzazioni chiave, tatticamente e strategicamente.

Vale la pena notare che una delle tattiche di OTPOR è “non cercare di evitare gli arresti“, ma piuttosto a “provocarli e usarli a vantaggio del movimento” come strategia di pubbliche relazioni. (Ibid)

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“Primavera araba” o “risveglio islamico”? D. Scalea a Firenze (video)

$
0
0
La sera di giovedì 6 ottobre scorso Daniele Scalea, redattore di “Eurasia” e segretario scientifico dell’IsAG, ha presentato a Firenze presso il Circolo Vie Nuove l’opera Capire le rivolte arabe, di cui è co-autore con Pietro Longo. Intervenendo dopo Giovanni Armillotta e Vincenzo Durante, ha illustrato come la “primavera araba” possa intendersi innanzi tutto come un “risveglio islamico”, ossia una generalizzata ascesa del cosiddetto “Islam Politico”. Di seguito il video dell’intervento di D. Scalea.

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

L’11 settembre: la fabbrica del consenso

$
0
0

Gli attentati dell’11 settembre sono stati l’occasione per dare un’accelerazione fuori dal comune alla trasformazione dei codici penali e di procedura penale. Questo cambiamento era in corso già da svariati anni. Nei mesi e in qualche caso addirittura nei giorni successivi agli attentati, i governi hanno adottato provvedimenti che hanno fortemente limitato le libertà pubbliche e private. Si resta impressionati dalla rapidità con la quale sono state approvate le varie leggi e lo si capisce se si tiene conto del fatto che la maggior parte di queste modifiche era stata realizzata o prevista ben prima degli attentati stessi.

I provvedimenti presi in quella occasione portano a compimento la trasformazione del diritto penale e gli conferiscono una legittimità. Ciò che era stato approntato senza pubblicità alcuna, all’improvviso è stato reso di dominio pubblico e oltretutto in retrospettiva è risultato legittimato. Ciò non significa che i processi decisionali siano diventati trasparenti. Al contrario: tutte le leggi sono state approvate senza un dibattito concreto, né nella società né in Parlamento. L’assenza di un confronto sul contenuto delle leggi ha lasciato spazio quindi a un ragionamento paradossale: si tratta di misure legittimate dall’urgenza contingente, ma che devono essere contestualizzate in una guerra al terrorismo sul lungo periodo.

La “lotta al terrorismo” non è soltanto uno strumento di dominazione, ma anche una modalità di esercizio dell’egemonia. Essa inaugura un iter di consenso, di accettazione da parte della popolazione della rimessa in causa delle sue libertà. Questa esigenza di riconoscimento spiega per quale motivo queste misure diverse assumano la forma del diritto.

Se per tradizione la guerra è un segno di sovranità, altrettanto accade per la guerra al terrorismo; tuttavia, qui si tratta non soltanto di un gesto di sovranità esteriore, ma anche interiore, di amministrazione delle popolazioni. Essa è dunque a uno stesso tempo azione ostile e operazione di polizia, azione contro “gli stati canaglia” e possibilità di criminalizzare i movimenti sociali. I testi di legge, così come sono stati redatti, consentono in effetti di perseguire qualsiasi azione il cui obiettivo consista nell’influenzare la politica governativa o nell’esercitare pressioni su un’organizzazione internazionale.

Le leggi antiterrorismo offrono all’esecutivo la possibilità di far piazza pulita di qualsiasi forma di opposizione e di respingere ogni differenziazione, persino quella che distingue l’azione dalla sua semplice probabilità. La legge non è più codificazione, tacca d’arresto a fronte di ciò che è arbitrario. Al contrario: essa introduce nel diritto il fatto che non esistono più limiti all’esercizio del potere.

In tutti i paesi europei, i diritti della difesa sono fiaccati. Negli Stati Uniti sono stati del tutto soppressi per gli stranieri che l’esecutivo designa “terroristi”. Sulle due sponde dell’Atlantico, i cittadini sono sottoposti a misure di vigilanza e controllo che, in altri tempi, erano riservati al controspionaggio. I civili possono essere sottoposti a provvedimenti di privazione della loro libertà più rigidi di quelli applicati ai prigionieri di guerra.

La lotta al terrorismo di fatto abolisce la distinzione tra nemico e criminale. Fonde diritto di guerra e diritto penale. Le popolazioni possono apparire nemiche agli occhi dei loro stessi governanti. Questa situazione è stata già registrata e legittimata dal diritto penale statunitense. Il Military Commissions Act del 2006 introduce nella legge il concetto di “nemico combattente irregolare”, diventato nel 2009 “nemico belligerante non protetto”. Il potere esecutivo statunitense può designare come “nemico” qualsiasi cittadino originario di un paese con il quale non è in guerra, e perfino i suoi stessi cittadini. L’Amministrazione non è tenuta a motivare le proprie decisioni, né a portare la benché minima documentazione tangibile.

La metamorfosi giuridica e politica è profonda, in quanto essa ribalta le relazioni instaurate tra le popolazioni e il loro governo, il rapporto tra l’istituzione e chi ne è governato. In pratica, non sono più le popolazioni a istituire il potere, ma è quest’ultimo che determina, tra i suoi cittadini originari di altri paesi, chi è un cittadino e chi è un nemico, chi deve essere escluso dalla società. La trasformazione è tale che ne è colpito l’ordine simbolico stesso della società.

Una persona è terrorista in quanto è definita tale. Questi testi di legge instaurano quindi un’identità precisa tra la definizione e la cosa. Ci collocano al di fuori della lingua, fuori dal suo potere discriminante, e consacrano il regno dell’immagine. Ci chiudono nella psicosi. Sostituire l’immagine alla parola ci riporta a uno stadio arcaico di unione con la figura della madre, in quello caso quella dello Stato che protegge e tutela. Al momento la madre simbolica, in opposizione alle forme paterne di potere, non ci invita più alla sottomissione, ma al consenso. Si tratta di una struttura sociale nella quale gli individui sono immersi nella paura e si affidano allo stato. Accettano che le loro libertà siano cancellate e rinunciano al diritto di disporre di sé stessi in cambio di una protezione che di fatto li annienta. In quanto fusione materna con il potere, la lotta al terrorismo si svuota di ogni conflittualità. L’immagine maternizzante del potere determina un rifiuto della politica. Respinge i conflitti e la differenza. Si rivolge con amore a monadi omogeneizzate, con le quali instaura una relazione intima virtuale.

La posta in gioco della lotta al terrorismo è prendere il posto del sacro, fondare una nuova realtà che occupi il luogo del simbolico. Come nella fenomenologia di Husserl, l’immagine dell’11 settembre ci chiede di interrompere ogni conoscenza collegata alla percezione dei fatti. Le leggi della fisica devono essere messe in disparte, tra parentesi. Ogni domanda, ogni riferimento agli oggetti, origina dalla teoria del grande complotto, in quanto la loro materialità si contrappone a ciò che è dato vedere. Fa da schermo al potere, alla sua capacità di dare un senso senza aver bisogno di analizzare le cose. L’icona dell’11 settembre fa vedere direttamente l’invisibile. Al pari dello sguardo della Gorgone, ci possiede, ci acceca, perché noi guardiamo senza vedere. La realtà ci è imposta senza la mediazione della ragione, senza l’interposizione dello scudo di Perseo, di questo schermo che permette di vedere pur restando protetti dalla vampata dello sguardo.

Qui, ogni cosa è produzione di immagine. I diversi concetti, che specificano l’azione e l’organizzazione terroristica, si presentano come costruzioni astratte. Non hanno come obiettivo quello di affrontare una forma di criminalità particolare. I codici penali contenevano già tutto quello che è necessario per far fronte alla oggettività concreta dei delitti. Queste immagini svolgono un’altra funzione: ci guardano. Ci intimano di tacere. Di non pronunciare parola. Di non creare alcun distacco rispetto al potere materno. Come lo sguardo di Medusa, ci trasformano in statue di pietra.

(Traduzione di Anna Bissanti)

 

 

Jean-Claude Paye, è sociologo. Nell’ottobre 2011 esce il suo ultimo libro, “De Guantanamo à Tarnac: L’emprise de l’image”, (Editions Yves Michel).

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

Il fenomeno “indignados” come tappa della destabilizzazione globale

$
0
0

Assistiamo negli ultimi giorni all’ascesa mediatica di un movimento di protesta occidentale che sta ottenendo un riscontro di partecipazione non indifferente. Si parla in questo caso degli indignados, fenomeno sociale che ha trovato la sua espressione nei movimenti di dissenso popolare statunitensi, spagnoli, londinesi, italiani … L’apice della protesta è stato toccato lo scorso 15 ottobre nella manifestazione nazionale tenutasi a Roma, sfociata prevedibilmente in guerriglia urbana, con il ferimento di molti manifestanti e gli inevitabili scontri con le forze dell’ordine. Bersagli della protesta degli indignados sono il sistema finanziario e la casta politica, da rovesciare (a loro avviso in una rivoluzione globale, come scritto sui loro siti di riferimento). Ma ad esser sinceri, poca chiarezza c’è su questo fenomeno, e le interpretazioni dello stesso al solito risultano deficitarie: il semplicismo mediatico, in coppia con la credulità popolare, ha nuovamente operato la creazione di un mito sostanzialmente vuoto di obbiettivi autonomi, ma carico di interessi più che sospetti.
Le origini del movimento si possono rintracciare nel libro Indignez-vous! Pour une insurrection pacifique, del politico ed ambasciatore francese Stéphane Hessel che, entrato nelle fila del socialismo dopo aver partecipato alla Resistenza, ora detiene stretti rapporti professionali e politici con le elites della finanza internazionale (ricordiamo in particolar modo la sua conclamata connivenza con l’ex-presidente del Fondo Monetario Internazionale, Strauss-Kahn). Il libro in questione (edito in Italia come Indignatevi!, Add editore, Torino 2011), quale manifesto politico del movimento, risulta essere un invito a rovesciare i “cattivi” impadronitisi delle redini dell’economia: grandi aziende, Chiesa e banche sono al centro delle denunce di Hessel. In nome dei “valori della Resitenza” questi dovrebbero essere destituiti, per poter proporre un mondo aperto alle rivendicazioni dei laicisti e delle minoranze, delle femministe e degli omosessuali. Assieme a questi obiettivi, si sono aggiunti nel pantheon comune dei diritti da rivendicare, la libertà di espressione online, il diritto all’insolvenza dei debiti, l’annullamento dei privilegi di casta. Ad affiancare le rimostranze di questi gruppi abbiamo potuto vedere il Partito Pirata, radicali e laicisti, addirittura un redivivo Julien Assange … e l’approvazione dichiarata degli ambienti dell’alta finanza, partendo da George Soros per arrivare fino a Mario Draghi. Quantomeno sospetto, se non che ad un’attenta analisi degli ambienti che si celano dietro questo movimento internazionale il quadro della situazione risulta limpido e più che rodato.
Gli indignados contano sul supporto tecnico e logistico di due sigle quanto mai sospette, quali Anonymous e CANVAS. La prima ha avuto un ruolo preminente nelle giornate delle rivolte in Egitto, compiendo attacchi informatici sui siti del governo egiziano, ed ha violato ultimamente gli archivi del Ministero della Difesa siriano, assumendo un ruolo chiave per la destabilizzazione occidentale del Medio Oriente. CANVAS (Center for Applied Non Violent Action and Strategies) invece, fondato nel 2003 dall’OTPOR, il movimento serbo di protesta “colorato” che coadiuvato dalla CIA ha favorito la caduta di Slobodan Milosevic, ha la funzione di creare e dare una forma ai movimenti di dissenso, operando come un vero e proprio “business della rivoluzione”. È noto che il Movimento Giovanile del 6 aprile, uno dei principali gruppi di dissidenti egiziani operanti durante le rivolte, sia stato “addestrato” direttamente da CANVAS. Non è difficile dimostrare i collegamenti tra OTPOR e CANVAS e la Open Society Foundation di George Soros, dietro la quale si cela la migliore macchina di destabilizzazione politica nelle mani della finanza internazionale.
Ivan Marovic, uno dei leader di CANVAS, che ha partecipato attivamente alle proteste degli indignados di New York, non ha mai fatto mistero nelle sue dichiarazioni che ogni rivoluzione di piazza alla quale CANVAS partecipa è “il risultato di mesi o anni di preparazione”.
Assolutamente indicativo è infine il patrocinio che è dato al movimento indignados dal magnate Martin Varsavsky che, non pago della diffusione mediatica che sta offrendo ai medesimi, pubblicando articoli estremamente elogiativi in lingua inglese per i più importanti media del mondo, fornisce anche supporto tecnico alle manifestazioni, come nel caso della dotazione di router per la connessione wi-fi all’accampamento spagnolo dell’M-15. Varsavsky d’altronde gioca il suo ruolo notoriamente al fianco della famiglia Rockefeller, costituita dai più importanti speculatori mondiali, detentori delle redini dell’economia globale, della quale serve gli interessi, operando con essa sulle piattaforme delle fondazioni e delle ONG. In particolar modo egli è presidente della Safe Democracy Foundation, che collabora attivamente con la Rockefeller Foundation: una realtà che già da tempo auspicava ad una “rivoluzione europea” (1), quale necessario seguito delle rivolte arabe. Considerando poi l’impegno comune che vede legati Varsavsky, i Rockfeller e George Soros in una stretta collaborazione (anche attraverso organi politici gestiti cooperativamente, come la fondazione One Voice), sorge quindi l’ipotesi della possibilità di un nuovo caso di destabilizzazione politica, ben più vicino a noi degli ultimi ai quali abbiamo potuto assistere: una “rivoluzione” che, facendo leva sui nuovi sentimenti libertari della popolazione occidentale più che sulle vere rivendicazioni sociali, avrebbe lo scopo strategico di interrompere i rapporti economico-politici che, nella prospettiva del declino inevitabile del multipolarismo, si stavano instaurando tra paesi europei, mediorientali ed asiatici (2).
A discapito di chi non ne comprende la portata politica, le rivolte degli indignados possono essere il segnale d’allarme di una imminente destabilizzazione europea, volta ad assicurare nuovamente sicurezza di collaborazione dell’Unione stessa agli obbiettivi geopolitici statunitensi, ed ad annientare sul nascere una sempre più realistica coesione su basi economiche e strategiche delle nazioni dell’Eurasia.

*Orazio Maria Gnerre

 

 

 

NOTE:

 

1.) Articolo in spagnolo su un sito della Safe Democracy Foundation dove si auspica la suddetta “rivoluzione europea” sul modello arabo: http://spanish.safe-democracy.org/2011/03/07/la-ue-tambien-tiene-que-hacer-su-revolucion/

 

2.) L’articolo riportato nella nota 1 della Safe Democracy Foundation evidenzia la necessita di una “rivoluzione europea” per il rovesciamento della classe politica dell’Unione Europea che “ha sostenuto regimi che hanno apertamente violato i diritti umani”.

 

facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

“Il risveglio del Drago” di D.A. Bertozzi e A. Fais: nuova pubblicazione IsAG

$
0
0
Dopo Capire le rivolte arabe di P. Longo e D. Scalea e Progetti di egemonia di F. Brunello Zanitti, l’IsAG propone un terzo volume scientifico, concernente questa volta la Cina. Il risveglio del Drago. Politica e strategie della rinascita cinese – questo il titolo dell’opera – è pubblicato assieme alle Edizioni all’Insegna del Veltro di Parma. Gli autori sono Diego Angelo Bertozzi, già artefice del recente La Cina da impero a nazione e Andrea Fais, studioso di geopolitica già contributore di “Eurasia”.

L’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) di Roma, presieduto da Tiberio Graziani, patrocina oltre alla rivista Eurasia anche una serie di pubblicazioni scelte, giudicate d’alto valore scientifico ed utili ad informare la comunità degli studiosi e la cittadinanza sulle dinamiche internazionali contemporanee e non solo.

Il risveglio del Drago, terzo volume patrocinato dall’IsAG, consta di 205 pagine ed è in vendita al prezzo di euro 20,00. Maggiori  informazioni sul libro e su come acquistarlo sono reperibili in un apposito blog (cliccare qui per raggiungerlo).

Di seguito una sintetica presentazione editoriale dell’opera:

Il risveglio del Drago, nuova pubblicazione dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, è un’opera suddivisa in due saggi, rispettivamente elaborati da Diego Angelo Bertozzi e Andrea Fais, come insieme di analisi e riflessione storica, politica e strategica sull’emergente potenza cinese, a margine del discorso tenuto dal presidente della Repubblica Popolare Hu Jintao lo scorso primo luglio in occasione delle cerimonie celebrative per il 90° anniversario della nascita del Partito Comunista Cinese. Il saggio di Bertozzi – “Ci siamo levati in piedi! Il Partito comunista cinese tra nazione e rivoluzione” – è dedicato allo sviluppo storico e ideologico del movimento rivoluzionario e di liberazione nazionale cinese dalle guerre d’oppio fino alla nascita della Repubblica popolare e si conclude con una analisi delle recenti strategie del Partito comunista cinese nella politica di riforma e apertura. Il saggio di Fais – “Gli artigli del Drago, traiettorie geopolitiche e geostrategiche della Cina comunista” di Fais – presenta una ricostruzione e una analisi delle continuità e discontinuità della strategia della Repubblica popolare cinese alla luce dei presupposti e dei contesti storici e geografici della Cina come stato socialista e forma di civiltà. I due saggi si configurano, inoltre, come necessaria introduzione per la comprensione del discorso inegrale del presidente cinese Hu Jintao che chiude il libro.
facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmailfacebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail
Viewing all 153 articles
Browse latest View live