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Channel: Cristina Kirchner – Pagina 148 – eurasia-rivista.org
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La geopolitica “verde” in Russia

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Introduzione

L’energia globale ha vissuto un 2011 abbastanza travagliato. L’incidente di Marzo nei pressi di Fukushima ha causato lo spegnimento di molti reattori nucleari e l’abbandono di alcuni progetti che rientravano nel piano di “rinascimento nucleare” pubblicizzato dagli Stati Uniti – e adottato anche in Europa e Asia – quale strumento necessario per l’ottenimento dell’autosufficienza energetica. Quest’ultimo principio di emancipazione dalle importazioni sembra essere diventato il canovaccio di cui si servono politici e politologi a Washington e Bruxelles; non è escluso che tra qualche tempo lo stesso vocabolario venga impiegato a Pechino e Nuova Delhi.

Il duro colpo inferto al “rinascimento nucleare” ha convertito l’atomo in tabù, tanto che anche l’inizio della produzione della centrale iraniana di Bushehr non ha riscontrato una vasta copertura mediatica[i].

Escluso il nucleare, si è tornati a parlare di efficienza energetica e fonti rinnovabili, finché dagli Stati Uniti non è arrivata la chiamata al fracking: secondo le prime stime, il sottosuolo est-europeo sarebbe ricco in gas naturale, estraibile grazie alla frattura degli scisti che lo trattengono nel sottosuolo. Tuttavia, i progetti di shale gas hanno ancora bisogno di seri studi di fattibilità e di impatto ambientale.

La domanda allora persiste: come ottenere l’autosufficienza energetica, soprattutto in aree come l’Europa dove la dipendenza da un solo Paese produttore rischia di creare problemi geopolitici? La risposta è sempre la stessa: fonti alternative, energie rinnovabili ed aumento dell’efficienza energetica. L’Europa sembra averlo capito, ma sembra anche poco propensa  ad adottare misure che incentivino la messa in moto dell’industria delle rinnovabili, ancora economicamente poco profittevole. La novità, da un paio di anni, è la presenza della Russia, il gigante delle energie tradizionali, nella corsa alla ricerca di energie alternative a petrolio e gas. Nelle prossime righe cercheremo di capire i motivi di questa nuova mossa energetica di Mosca.

Fino all’ultima goccia

A partire da Agosto, è stato visibile sul sito web del Ministero dell’Energia[ii] russo lo striscione pubblicitario che ricorda che il 4 settembre è il giorno del petrolio e del gas (“S dnyom neftyanika!” recita gaudioso l’annuncio). La Russia è senza dubbio un Paese fortemente tradizionale, anche in ambito energetico. Mantiene il podio nella produzione di petrolio e gas da decenni e rappresenta la principale fonte di approvvigionamento per molti mercati. Tuttavia, in linea con quanto previsto dalla “curva di Hubbert” negli anni Cinquanta per gli Stati Uniti, anche in Russia il “picco” della produzione di petrolio è stato superato[iii]. Le croniche difficoltà tecnologiche nel catturare tutto il gas che viene estratto (e di conseguenza lo spreco attraverso la combustione post-estrattiva, o flaring) non permettono un uso efficiente delle riserve siberiane, che continuano il loro esponenziale declino.

Il commercio di energia tradizionale all’interno dell’area ex-sovietica permette lauti profitti a Gazprom e ad altri giganti dell’energia, che utilizzano il sistema di condotti già esistente per rivendere gli idrocarburi acquistati alle pendici del Caucaso o sulle steppe centroasiatiche a clienti disposti a pagare cifre molto alte (principalmente i Paesi membri dell’UE e altri Paesi ex-sovietici, quali Ucraina e Bielorussia). Comunque, la de-capitalizzazione di Gazprom e il bilancio sempre più negativo dei suoi core assets relativi all’estrazione e alla vendita di gas naturale sono segnali molto forti che riflettono le prime difficoltà per l’energia tradizionale russa.

Inoltre, come abbiamo già visto su queste colonne[iv], la corsa ai giacimenti nell’Artico rappresenta un’ulteriore indizio della fragilità dell’industria estrattiva. Se le maggiori compagnie, siano esse russe, europee o statunitensi, sono disponibili a intraprendere progetti ad alto rischio, investendo ingenti somme di denaro, invece di provare a partecipare alla riconversione del paniere energetico, assisteremo sicuramente a una lotta febbrile, gomito a gomito, all’inseguimento dell’ultima goccia di petrolio.

La nuova politica energetica

Le disposizioni del Cremlino per rimediare al declino, anche geopolitico, che una flessione nella produzione (e quindi anche nell’offerta) di idrocarburi potrebbe causare, si diramano in tutte le direzioni.

L’energia nucleare continua ad avere una rilevanza nella produzione di energia per il consumo domestico[v].

Alcuni studi geologici hanno evidenziato il grande potenziale, anche in Russia, per lo shale gas, di cui le zone poco popolate della Siberia sarebbero ricchissime. Ciononostante, senza le tecnologie americane e le certezze del sottosuolo, è difficile prevedere il decollo di tale pratica.

La Federazione Russa ha collaborato con l’Agenzia Internazionale per l’Energia alle politiche di sviluppo per l’industria delle energie rinnovabili fin dall’inizio del secolo. Nel 2001, solo il 3,5% della produzione di energia primaria russa proveniva da fonti rinnovabili, principalmente da centrali idroelettriche, e contribuiva solo per lo 0,5% alla domanda di elettricità, evidenziando gli annosi problemi dell’ottimizzazione della rete[vi]. Il gas naturale è stato investito del ruolo principale nella generazione di corrente elettrica anche grazie all’azione statale che ne mantiene il prezzo domestico artificialmente basso. In queste circostanze, gli investimenti nelle energie rinnovabili (e nella loro “immissione in rete”) non sono economicamente sostenibili. Dal Dicembre 2010, la International Finance Corporation della Banca Mondiale ha creato un programma di consulenza e supporto chiamato Russia Renewable Energy Program.

Le nuove strategie energetiche, succedutesi nel corso del passato decennio, hanno dimostrato un piglio originale rispetto alla “tradizione idroelettrica” sovietica, ma non ne hanno ancora portato alla luce i frutti. Il grande sviluppo a partire dagli anni Trenta della produzione di energia idroelettrica, portò alla creazione del Sistema Energetico Unificato (UES) nel 1950. La Russia di Putin (e di Medvedev) è ancora lontana dai successi sovietici nel collegamento dell’immensa unione alle reti elettriche e ai condotti di petrolio e gas. Nonostante ciò, più di cento centrali rendono Mosca tra i primi produttori mondiali di energia idroelettrica (21% del totale).

Il decreto sul risparmio energetico del Novembre 2009 arrivò solo qualche giorno in anticipo rispetto alla “Strategia Energetica verso il 2030” (Strategia)[vii]. L’obiettivo è riclassificare le strumentazioni elettriche, dalle più complesse agli elettrodomestici, in vista della sostituzione delle meno efficienti. Inoltre, l’incontro sinergico dei due atti del Cremlino sembra indicare che la coordinazione tra l’anima tradizionale e quella “verde” del settore energetico russo sia necessaria per lo sviluppo nel medio termine.

Gli strumenti, gli obiettivi e le ambizioni

Tra i progetti più ambiziosi nella categoria delle rinnovabili figurano:

  • La centrale idroelettrica Boguchansky (3.000 MW), che rientra nel progetto BEMO, co-finanziato da RusHydro e RusAl, nella regione di Krasnoyarsk (l’inizio della produzione è fissato al 2013).
  • La trasformazione del Caucaso settentrionale in un importante centro per le energie alternative, sia da un punto di vista tecnologico-produttivo, sia per quanto riguarda la ricerca in campo accademico, quest’ultima considerata in chiave strategica anche per la politica di pacificazione dell’area[viii].
  • Il rafforzamento e la protezione del parco eolico di Kaliningrad, con una capacità installata di 5 MW sulla sponda baltica del territorio russo. La centrale eolica più promettente è in costruzione presso la costa del Mare d’Azov e si prevede che possa portare sulla rete una capacità di 100 MW[ix]; a questo progetto partecipa con ingenti investimenti e trasferimento di tecnologia la tedesca Siemens.

 

Nel settore eolico, la Russia sta attraversando un periodo di spinta iniziale: nei prossimi dieci anni intende aumentare esponenzialmente la capacità installata, superando l’arretratezza che la vide figurare al 51° posto nel 2008, nonostante sia la nazione più vasta al mondo[x]. Partendo da zero, il settore del solare ha compiuto grandi progressi nel 2010 e 2011[xi]. Ma resta infinitesimo lo sfruttamento dell’energia solare (nelle sue varie sfaccettature, dal fotovoltaico al termico). RusNano e Renova di Viktor Vekselberg stanno programmando la messa in opera di molti progetti. Le nanotecnologie sono un punto forte nel settore di ricerca e sviluppo anche per quanto riguarda le rinnovabili. Per questo, con l’impegno di Vladimir Putin, dal 2007 una parte del budget federale è destinato alla compagnia RusNano[xii], riconvertita in società per azioni lo scorso Marzo. A presiederla è il politico Anatolij Chubais, ex-giovane rifomatore dell’era Yeltsin ed ex-amministratore delegato della UES, parzialmente privatizzata e lottizzata nel 2008.

Il potenziale “tecnicamente sfruttabile” da energie rinnovabili è circa quattro volte superiore alla domanda interna. Questo dato supporta l’argomentazione governativa che ritiene decisivo il ruolo delle energie rinnovabili non solo per quanto riguarda il consumo interno, ma anche per la riduzione del carico di emissioni-serra. Il decimo capitolo della Strategia sembra prendere coscienza delle problematiche ambientali legate ad un’economia troppo dipendente dai combustibili fossili. Tuttavia, rimane politicamente timida la proiezione della produzione « almeno proporzionalmente costante » di energia elettrica da fonti rinnovabili; solo nella terza fase di implementazione della Strategia, il volume di produzione “rinnovabile” triplicherà.

Un possibile campo di applicazione per la generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili è l’off-grid. Il vasto territorio russo non è mai stato coperto integralmente dalla rete elettrica e tuttora si stima che circa il 10% della popolazione non sia connessa a sistemi nazionali o regionali. L’utilizzo in scala ridotta di energia solare, eolica o geotermica potrebbe rispondere alla domanda locale in tali aree remote. Ma questo ha poco a che fare con i piani strategici di Mosca che coinvolgono progetti a larga scala e hanno ripercussioni geopolitiche in tutta l’area eurasiatica.

La green economy russa – come la vorrebbe l’Occidente

La crescente domanda di energia elettrica nel mercato interno russo rende più difficile la giustificazione politica dell’innalzamento dei prezzi (ovvero l’abolizione dei sussidi governativi) del gas naturale verso i prezzi di mercato. Quest’ultima è la proposta occidentale, impregnata delle teorie classiche dell’economia capitalista. Una seconda ricetta, sempre proveniente dalle scuole angloamericane, spinge per la liberalizzazione del settore del gas: il monopolio di Transneft sulle pipelines e il diritto esclusivo all’esportazione ottenuto da Gazprom rendono questo segmento importante del mercato energetico poco flessibile e molto “verticale”[xiii]. In terzo luogo, alla Russia si chiede di migliorare l’intensità energetica (unità di PIL per ogni unità di energia consumata).

In generale, la Russia presenta difficoltà sostanziali nell’individuazione e nell’elaborazione di dati statistici vicini alla realtà. La mancanza di trasparenza, sempre più evidente, si accompagna alla poco rigorosa tradizione statistica russa, che durante gli anni sovietici era abituata a far combaciare i numeri con le volontà precipue del Politburo.

Un più sistematico e lungimirante utilizzo delle energie rinnovabili, ancor più che un aumento dell’efficienza energetica, risponderebbe alle richieste di Washington e Bruxelles, garantendo a Mosca una migliore integrazione internazionale con i mercati più forti. Pur sembrando contraddittorio, l’accento che Europa e Stati Uniti pongono sullo sfruttamento delle rinnovabili è giustificato dagli investimenti sia nel campo tecnologico, sia nel mercato russo, delle imprese multinazionali più importanti (Exxon, Siemens, Vestas). Secondo alcuni analisti[xiv], lo sfruttamento più efficiente dell’energia comporterebbe una disponibilità maggiore di energia per l’esportazione, che a sua volta si tradurrebbe in un aumento della sicurezza energetica per i Paesi importatori, principalmente per l’Unione Europea.

Conclusione

Il superamento del peak oil, il declino nella produzione di petrolio e le ardite spedizioni ai margini della Terra per la sua estrazione potrebbero avere effetti positivi sull’implementazione di politiche energetiche più sostenibili, sia per le economie domestiche, sia per l’ambiente.

La decisione della Royal Navy di convertire il combustibile dei motori della flotta britannica da carbone a petrolio segnò l’inizio di una nuova era. Grazie a tale iniziativa, il petrolio diventò un idrocarburo sempre più comune e sempre più usato. Oggi che il “secolo breve” dell’oro nero volge al termine, servirà uno sforzo titanico a una grande nazione per la riconversione della propria economia verso fonti rinnovabili di energia. L’Unione Europea, in quanto a politiche di efficienza e riduzione della dipendenza da combustibili fossili si prodiga in dichiarazioni e scadenze che vengono rispettate troppo raramente. Gli Stati Uniti rimangono indietro anche nel confronto con la Cina, che sente sempre più il costo dell’importazione di energia. La Russia potrebbe sfruttare la propria posizione di forza sui mercati degli idrocarburi per programmare con responsabilità e lungimiranza un percorso strategico verso le rinnovabili. E chissà che, superando le diffidenze interne[xv], non riesca ad avere più successo rispetto a Bruxelles.

Infine, è notevole osservare come alcuni aspetti “immobili” dell’energia, le fonti rinnovabili e l’efficienza, diventino rilevanti geopoliticamente. Le ripercussioni di una possibile riconversione dell’economia russa – o, più realisticamente, del suo “rinverdimento” – sono difficili da prevedere, ma avranno un sicuro impatto sulle relazioni tra Mosca e le ex-repubbliche sovietiche, l’Unione Europea, il Medio Oriente (soprattutto l’Iran) e i vicini asiatici (Cina, Giappone). Il groviglio di conseguenze nel medio e lungo periodo si dipanerà grazie alle dinamiche di politica energetica (ed estera) dei più importanti attori eurasiatici.

* Paolo Sorbello ha ottenuto la Laurea Specialistica in Scienze Internazionali e Diplomatiche dall’Università di Bologna (sede di Forlì). La sua tesi di ricerca è stata successivamente pubblicata da Lambert Academic Publishing con il titolo “The Role of Energy in Russian Foreign Policy towards Kazakhstan” (Giugno 2011). L’autore ha condotto i suoi studi presso istituzioni accademiche in Spagna, Russia e negli Stati Uniti. Ha lavorato presso importanti istituti di ricerca negli Stati Uniti e attualmente collabora con il centro di ricerca IECOB pubblicando articoli e approfondimenti su tematiche inerenti alla geopolitica dell’energia.


[i] “Il significato geopolitico di Bushehr” D. Scalea al “Secolo d’Italia”, ripubblicato da Eurasia il 13 settembre 2011, http://www.eurasia-rivista.org/il-significato-geopolitico-di-bushehr-d-scalea-al-secolo-ditalia/11176/

[iii] Interessante e recente è il dibattito sul peak oil che vede Daniel Yergin, eminente esperto e autore di The Prize, scettico sulla scientificità di tale teoria. Il suo articolo apparso sul Wall Street Journal il 16 settembre scorso (“There Will Be Oil” disponibile presso http://online.wsj.com/article/SB10001424053111904060604576572552998674340.html) è stato criticato da molti analisti, tra cui John Daly di Oilprice.com, (“Daniel Yergin and Peak Oil: Prophet or Mere Historian?” http://oilprice.com/Energy/Crude-Oil/Daniel-Yergin-and-Peak-Oil-Prophet-or-Mere-Historian.html).

[iv] Paolo Sorbello, “L’energia nell’Artico: geopolitica tra i ghiacci”, Eurasia, 24 agosto 2011. http://www.eurasia-rivista.org/l%E2%80%99energia-nell%E2%80%99artico-geopolitica-tra-i-ghiacci/10801/

[v] È importante, ma in quest’analisi trascurabile l’interscambio di energia elettrica, principalmente proveniente da centrali nucleari, che avviene tra Russia e Kazakhstan proprio a cavallo del confine che li divide; il Kazakhstan è anche il primo produttore mondiale di uranio.

[vi] International Energy Agency, “Renewables in Russia: From Opportunity to Reality”, OECD, Parigi, 2003. D’altra parte, le fonti ONU riportano cifre diverse per il periodo 1990-2005, cfr. UNDP, Human Development Report, 2007/08 http://hdr.undp.org/en/statistics/data/

[vii] Si fa riferimento a due documenti separati. Il primo: Legge federale No. 261-FZ, 23 Novembre, 2009 “Sul risparmio energetico e sull’aumento dell’efficienza energetica”. Il secondo: President of the Russian Federation, “Energeticheskaya strategiya Rossii na period do 2030 goda”, approvata con il decreto num. 1715 (13 novembre 2009), disponibile in inglese: http://www.energystrategy.ru/index.htm (ultimo accesso: 15 gennaio 2011).

[viii] “Con 32 miliardi di rubli, il Caucaso sarà un centro per le energie alternative”, Kommersant’, 25 agosto 2011, http://www.kommersant.ru/doc/1757856?isSearch=True

[ix] Andrew Lee, “Country Profile: Russia – A thaw in official attitude could rouse renewable energy’s ‘sleeping giant’”, Renewable Energy World, 21 Marzo 2011. http://www.renewableenergyworld.com/rea/news/article/2011/03/country-profile-russia

[x] Si veda “Istoriya vetroenergetiki” (Storia dell’energia eolica), pubblicata in russo sul sito dell’Associazione Russa degli Industriali dell’Eolico (RAWI) http://rawi.ru/media/Text_files/history.pdf

[xi] Recentemente, è da notare l’accordo tra LUKoil Ecoenergo ed ERG Italia per investimenti congiunti nel settore dell’energia solare in Romania, Bulgaria, Ucraina e nella stessa Russia. “Energy JV Authorised”, Europolitics, 5 Luglio 2011, http://www.europolitics.info/sectorial-policies/energy-jv-authorised-art309114-14.html

[xii] Adam N. Stulberg, “Russia and the Nanotechnology Revolution: Looking Beyond the Hype “

PONARS Eurasia Policy Memo, n. 26, Agosto 2008.

[xiii] Per un approfondimento sul concetto del “verticale” in Russia, cfr. Vladislav Inozemtsev, “Russia Today: Up the Down Staircase”, Russia in Global Affairs, vol. 5, n. 3, Luglio-Settembre 2007.

[xiv] Andreas Goldthau, “Improving Russian Energy Efficiency: Next Steps”, Russian Analytical Digest, n. 46, 2008.

[xv] È acceso il dibattito sulla necessità di investire sulle rinnovabili. Alcuni commentatori sull’autorevole Nezavisimaya Gazeta ne contestano la redditività nel breve periodo e la reliability nel lungo periodo. Cfr. Aleksandr Frolov, “Nessuna alternativa: in tema di energia, ‘verde’ non significa ‘razionale”, NG, 12 Ottobre 2010. http://www.ng.ru/energy/2010-10-12/9_alternative.html

Si veda inoltre la dichiarazione dell’amministratore delegato di Gazprom, Aleksej Miller, al Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo tenutosi nel Giugno 2010. Considerato uno degli uomini più potenti in Russia, sostenne che « quella che viene chiamata ‘energia verde’ non rappresenta una vera alternativa ai combustibili fossili, soprattutto al gas naturale ». Cfr. Ria Novosti, 18 Giugno 2010, http://eco.ria.ru/shortage/20100618/247749223.html

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Cambio di stile per la campagna presidenziale

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Mancano ancora 14 mesi al voto che deciderà il nome del nuovo presidente degli Stati Uniti, ma Obama e i suoi esperti stanno delineando una nuova rotta per la campagna elettorale. Il target cui rivolgersi, ora, sembra essere quello delle minoranze etniche e, in particolare, l’attenzione è stata spostata sugli afroamericani e sulla comunità ebraica.

 

Il presidente uscente Barack Obama sta conoscendo una nuova e potente fase di impopolarità fra gli elettori democratici: un recente sondaggio pubblicato da Gallop mostra un capo di Stato con appoggi sempre più deboli, soprattutto fra i giovani e soprattutto fra la minoranza di colore. Dalla metà di aprile, infatti, il consenso in questa fascia di elettorato si è spostato da un buon 83% a un più modesto 58%; la situazione fra i giovani (fra i 18 e i 29 anni) si attesta ben al di sotto del 50%.

Anche l’elettorato ebraico di centro-sinistra, secondo il sondaggio Gullop, sosterrebbe sempre più flebilmente l’operato dell’attuale uomo che è alla guida del Paese. La recente vicenda che ha visto la Palestina reclamare i propri diritti in seno all’ONU è, dunque, di estrema attualità: i Repubblicani non hanno perso tempo, accusando Obama di aver respinto troppo flebilmente questa richiesta e di non dare il giusto supporto all’alleato israeliano. C’è da scommettere che la ‘questione Israele’ influenzerà molto la campagna presidenziale, in virtù della potenza della lobby che guida e devia, spesso a proprio piacimento, le sorti economico-politiche degli USA. Mearsheimer e Walt docent.

La propaganda ‘obamiana’ si sta quindi dirigendo su due fronti distinti: quello delle minoranze etniche (afroamericani e ispanici per lo più) e quello della superpotenza economica di derivazione ebraica, che è ben radicata in seno alla nazione. Una prima opera di persuasione è stata fatta con Ira Forman, CEO del National Jewish Democratic Council, poiché punto di riferimento per la comunità ebraica nonché strumento utile per il programma ribattezzato Operation Vote.

Sul fronte delle minoranze, invece, Obama può contare sulla dialettica convincente ed enfatica di un personaggio come lo speaker radiofonico Tom Joyner, che vanta un pubblico di circa 8 milioni di ascoltatori. Al grido di ‘Stick together, black people’, Joyner dà il proprio sostegno all’uscente presidente nordamericano, inneggiando alla solidarietà razziale vera e propria. Come è risaputo, gli Stati Uniti sono un Paese dove il fattore religioso è sempre stato influente, anche per ciò che concerne le scelte politiche: fin dalla sua nascita come nazione di nuova colonizzazione, infatti, la religione è stata la colla posta alle basi della società che stava sbocciando. Ecco perché l’operato del reverendo Al Sharpton è sicuramente rilevante al fine di sollevare la ‘coscienza nera’ degli elettori. L’appello a nuovo destino del popolo nero, alla nuova voce che sarà data a questa minoranza è sicuramente ‘impressive’, come direbbero gli anglofoni.

Ciò che emerge sempre più chiaramente, però, è un sostegno al presidente uscente più perché appartenente a una certa etnia che per la sua capacità di governare il Paese: molti afroamericani, infatti, sono chiamati a identificare Obama come il Martin Luther King del nuovo millennio, colui il quale finalmente ha dato voce alla minoranza di colore. La realtà dei fatti, però, è che l’attuale capo di Stato nordamericano è stato un flop vero e proprio: esaltato da una fitta campagna mediatica pre-elezioni nel 2008, non ha saputo affrontare la complessità delle problematiche di un Paese, gli Stati Uniti, che è ancora oggi l’unica vera superpotenza mondiale. L’immagine che gli è stata cucita addosso, l’enfasi data al fatto che fosse il primo presidente di colore, nonché la sua relativamente scarsa esperienza in politica hanno contribuito a far crollare a picco, mese dopo mese, il sostegno dei suoi stessi elettori.

In una nazione dove la crisi economica non accenna ad andarsene, dove l’economia ristagna e la disoccupazione dilaga, non c’è spazio per far risalire i consensi grazie alle operazioni di politica internazionale. Non è, infatti, stato sufficiente prima annunciare il ritiro definitivo delle truppe dall’Afghanistan (cercando di accontentare l’elettorato democratico), poi annunciare la fine della lotta al terrorismo con l’uccisione di Osama bin Laden (notizia condivisa da tutti, ma soprattutto dai ferventi nazionalisti repubblicani) e infine appoggiare l’attacco (illegittimo) della NATO nei confronti della Libia. Quando ormai il piano di discussione è posto sui problemi della vita di tutti i giorni, un presidente deve adeguarsi e provare a spostare la propria campagna mediatica su ciò che agli statunitensi risulta più caro: lo spirito. Solo la speranza che gli ideali, politici e religiosi, riescono a dare è la carta che Obama può giocare.

Ma non di solo spirito e speranza si vive. Ecco perché se il presidente uscente non riuscirà a trovare alla svelta una soluzione che rialzi le sorti economiche della nazione di cui è a capo, a poco varranno gli appelli dello speaker e del reverendo di turno. Ça va sans dire.

 

*Eleonora Peruccacci è laureata in relazioni internazionali (Università di Perugia) ed è ricercatrice dell’ISAG

 

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Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism

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INTERNATIONAL CONFERENCE

«Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism»

Russian Foreign Affairs Ministry and Federal Communications Agency are organizing a conference, «Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism».

Globalization is one of the most important tendencies in the development of our communities. Integration and unification of multitudes of social processes, from politics and economics to culture and even religion, are happening on vast scales and cannot be ignored. For this reason, the topic of global processes is increasingly becoming a subject of discussion and scientific research.

Rapid developments in the telecommunications sector in the past decade have significantly contributed to this process. We are now facing a new information-aware society formed by a number of both legacy and new delivery instruments that include mobile communications, Web and social networks. These developments inevitably affected Mass Media, continuously introducing major disruptions into established processes.

Journalism, and particularly international journalism, continues to perform a significant part in the practices of mass communications. It is continuously forced to adapt to changing conditions imposed by the factors described. Information delivery methods, international standards, legal and ethical best practices that regulate work of professionals in this field are all coming to the forefront.
Main topics of the conference will be discussed in the format of round tables. Topics will include:
· National interests and international journalism
· Access to information issues experienced by media representatives in Russia and in Europe
· Part Mass media plays in international relations and the effect it has on them
· International journalism: international law and common ethical best standards

Effective approaches to examine these questions require consolidated effort of scientists, practiotioners, journalists and various other affected parties. This is what the conference « Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism » is designed to address.
The conference will be opened by João Soares, President Emeritus of the OSCE Parliamentary Assembly, Member of Parliament in Portugal and Armen Oganessian, editor-in-chief of the magazine “Mezhdunarodnaya zhizn” (“International life”).

Among conference participants are: Marek Halter, French novelist, director of the French College in Moscow and St.Petersburg; professor Dr. Heitor Romana, Associate Professor, School of Political and Social Sciences, Technical University of Lisbon; Henrikas Iouchkiavitchious, Assistant Director General of UNESCO; Prof. (FH) Dr. Anis H. Bajrektarevic, Acting Deputy Director of Studies EXPORT EU–ASEAN–NAFTA, Professor and Chairperson, International Law and Global Political Studies, University of Applied Sciences IMC–Krems; George Protopapas, Research Associate – Media Analyst, Research Institute for European and American Studies (RIEAS); Tiberio Graziani, Editor-in-Chief, Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici; Piotr Fedorov, Head of Foreign Relations at VGTRK, Michael Peters, managing director of EuroNews etc, .

Conference will take place November 24-25 in Radisson Blu Ambassador Hotel, Paris Opera, Paris, France.

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Malvinas o Falkland: una sovranità che è destinata a contrapporre il nuovo sistema emergente Indiolatino al vecchio sistema occidentale.

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Nell’aprile 1982 l’esercito argentino invase le Falkland rivendicandone la sovranità a discapito dell’Inghilterra. Senza dimenticarne il valore oggettivo, che vedremo in seguito, l’azione militare aveva in quel momento delle finalità propagandistiche: l’obiettivo finale era quello di distogliere l’attenzione della popolazione dall’operato di una dittatura sanguinaria e repressiva e di spostarla su un “nemico” esterno e soprattutto distante 12.000 Km.

In Argentina era forte la sofferenza popolare nei confronti del regime di Galtieri che rispondeva di contro accrescendo la popolazione dei desaparecidos. Col tempo però il regime di terrore non fu più sufficiente a mantenere nel torpore la coscienza popolare che riscoprì l’attivismo politico e la forza di contestare apertamente le ingiustizie dittatoriali. Galtieri aveva bisogno di un diversivo in grado di riportarlo in una posizione di stabilità interna e quale miglior occasione del risveglio del nazionalismo argentino?

 

Ecco perché la mattina del 2 Aprile 1982 la popolazione argentina si risvegliò con la notizia dello sbarco delle truppe nazionali sulle coste delle Falkland. L’idea di riportare le isole sotto la bandiera sudamericana e traslare il nome anglofono Falkland nel più argentino Malvines* fece riunire la popolazione argentina nel nome dell’orgoglio nazionale e paradossalmente il regime di Galtieri, tanto odiato e prossimo a capitolare, si ritrovò osannato dall’intera Nazione. La strategia sin qui esposta mi è stata confermata da un’intervista informale fatta a Juan Carlos Iampietro (nato a Buenos Aires nel 1958) – un ex dipendente pubblico argentino che oggi risiede in Italia. Il Signor Iampietro nel ripercorrere la situazione socio-politica durante la dittatura ha avuto modo di approfondire l’episodio della guerra delle Malvines del 1982:

 

“… il 2 Aprile 1982 il dittatore di turno chiamato Galtieri decise di occupare queste isole. I militari argentini dovevano spostare l’attenzione del popolo visto che il clima sociale di quei giorni era molto delicato. Basti pensare che il giorno prima dell’occupazione il popolo argentino ha manifestato davanti alla casa del governo e stava per entrarci. Il clima era teso. Il giorno dopo ci siamo svegliati con la notizia dell’occupazione. La gente aveva cambiato il nemico: adesso erano gli inglesi… è stato tutto molto stupido e il risultato furono tanti soldati morti: ragazzi di 18 anni che facevano il servizio militare si sono ritrovati sopra una nave per partire. Sull’isola i ragazzi hanno lottato con patriottismo, senza mai tradire il popolo argentino. Le isole, si diceva a quei tempi, appartenevano alla signora Tatcher che era prima ministro (inglese). La gente che abita sull’ isola é tutta inglese: lavorano e commerciano lana e carne di pecora ma la vera ricchezza è sotto il mare ( petrolio e pesce)… la gente dell’ Isola non si è comportata male con i nostri soldati…”

 

Dallo stralcio di intervista riportato si individuano diverse tematiche interessanti e meritevoli di approfondimento. Innanzi tutto viene confermata la funzionalità del conflitto del 1982: distogliere l’attenzione della popolazione da problematiche endogene ad una situazione esogena alla Nazione. Il tutto, se pur per un breve periodo, ha rinvigorito la legittimità del potere – portando in secondo piano il costo di vite umana della stessa operazione militare. Galtieri sottovalutò però l’orgoglio inglese che reagì immediatamente e in maniera decisa all’offesa subita ripristinando la propria sovranità il 14 giugno 1982. Si può dedurre che è proprio questo il sentimento scatenante del Conflitto delle Falkland: l’orgoglio. Anche perché nel 1982 non si era in possesso della tecnologia necessaria per individuare il potenziale energetico presente nei fondali marini dell’arcipelago; per di più la popolazione presente sull’isola ammontava a 1500 individui, numero “irrilevante” per giustificare una così dura e rapida risposta inglese.

 

Oggi, invece, l’arcipelago britannico torna ad essere oggetto di attriti internazionali non più per strategie politiche, ma per motivazioni economiche e più indirettamente, per un riaffiorare della “consapevolezza latinoamericana”.

 

Per quanto concerne “l’oro nero”, già in passato (1998) vi furono iniziative volte a quantificare il potenziale petrolifero dei fondali marini dell’arcipelago. Ma le principali multinazionali interessate – tra cui la Shell – arrivarono all’unanime conclusione che le riserve presenti non garantivano un quantitativo di greggio sufficiente a giustificare l’investimento economico necessario per la trivellazione. Il tempo trascorso dal ’98 ad oggi ha notevolmente cambiato gli scenari: l’innovazione tecnologica consente una più accurata analisi del sottosuolo e delle risorse celate al suo interno; le risorse energetiche sono sempre più il fulcro delle strategie relazionali internazionali, specialmente se non rinnovabili; scendendo ad un livello più materiale e monetario, dal ’98 ad oggi il prezzo del petrolio è passato da 10 $ al barile a circa 100 $. Questo mix di fattori ha spinto il gruppo inglese Rockhopper a manifestare l’intenzione di investire 2 miliardi di dollari per l’estrazione di petrolio al largo delle Falkland. Il progetto è di certo ambizioso ed ha lo scopo di raggiungere i 120.000 barili di estrazione giornaliera entro il 2018.

Il reale intento inglese di approfondire l’analisi della vasta area marina dell’arcipelago ha risvegliato “l’orgoglio” argentino che negli ultimi giorni per voce del suo massimo esponente – il presidente Fernándezha rivendicato la sovranità sulle isole e sull’annesso mare. Tale rivendicazione si è concretizzata con la limitazione della navigazione delle acque argentine a discapito delle imbarcazioni inglesi e il sorvolo dei cieli previa autorizzazione argentina.

 

Il contrasto però tende a non ridimensionarsi per due motivi:

 

La recente conferma alla presidenza della Fernández . Ciò presuppone la continuità della politica estera sin qui tenuta e, quindi, un più incisivo ritorno sulla questione della sovranità delle Malvines/Falkland.

 

La “consapevolezza latinoamericana”. Si tratta di una presa di coscienza che man mano coinvolge le popolazioni del Sud America. Più volte tale valore ha tentato di prendere il sopravvento sul fluire della storia del continente. Nell’ottocento era cavalcato da Simon Bolivar che si fece promotore dell’unione del Sud America sotto un’unica bandiera. Negli anni ’60 del XX secolo era l’utopia dei movimenti rivoluzionari delle numerose “guerre di guerriglia”. Oggi lo scenario è di gran lunga cambiato: vi è un allineamento tra politica e società. Pian piano ogni Stato sembra acquisire consapevolezza dei propri mezzi e delle proprie capacità, ricercando un’autonomia esogena – distacco della propria economia dalla dipendenza dal sistema occidentale; diversificazione produttiva; maggiore attenzione al benessere sociale; autonomia nel dialogo internazionale. Tutto ciò porta ad un’ulteriore evoluzione: la nascita di una solidarietà tra Stati sempre più forte. Le rivendicazioni argentine sono accolte positivamente dal Brasile – interessato a sua volta al controllo delle risorse presenti nei fondali al largo delle coste brasiliane – dal Venezuela – Chavez proprio in questi giorni si è reso protagonista dell’esproprio di 300mila ettari ad una multinazionale britannica – e l’Uruguay che ha condiviso con l’Argentina le restrizioni sulla navigazione delle acque. In sintesi, si sta delineando un’idea comune volta a preservare le risorse sud americane dal saccheggio neo-coloniale da parte dei vicini U.S.A. e dei non meno agguerriti capitali europei in cerca di ossigeno per le proprie casse.

Non poco oserei dire. Ovviamente bisogna considerare non solo che tale processo di allineamento è ancora in fieri , ma soprattutto che continuano a sussistere forti legami di alcuni Stati con il blocco statunitense – ad esempio la Colombia.

In tutto ciò resta da chiedersi: ma gli abitanti delle Falkland cosa ne pensano?

Si tratta di circa 4000 persone che vivono di pastorizia, di pesca o operando all’interno delle basi militari. Sono ufficialmente cittadini britannici e lo sono di fatto essendo i figli dei figli di quegli inglesi che popolarono per la prima volta l’arcipelago nel 1833. Non risultano atti di protesta contro la Corona Inglese da parte di questa piccola popolazione, anzi durante l’occupazione argentina del 1982, per protestare – in maniera pacifica – continuarono a tenere la guida dei mezzi a sinistra. Ciò fa pensare che, magari, tali cittadini siano solo parte di un oggetto in balia di una contesa internazionale e che fondamentalmente per loro vada benissimo essere britannici pur se a 12.000 Km dalla corona…

Per concludere e tornando alla “consapevolezza latinoamericana” possiamo dire che se il mondo è in forte evoluzione, il Sud America non staoma di certo a guardare.**

 

*In realtà il termine Malvines ha origini francesi. La colonia ha subito numerose variazioni di sovranità dal 1763 al 1982. Inizialmente fu colonizzata dai francesi che le diedero il nome di Malouines per sottolineare la provenienza dei coloni dal porto di Saint-Malo. Nel 1766 le isole passarono sotto la bandiera spagnola per poi diventare argentine (1810) in seguito alla proclamazione d’indipendenza dell’Argentina. Nel 1833 l’arcipelago fu occupato dagli inglesi finché nel 1982 l’Argentina ne riacquisii la nazionalità per pochi giorni, tornando subito dopo territorio inglese. Oggi gli abitanti dell’arcipelago detengono lo status di cittadini britannici a pieno titolo.

 

** Un ringraziamento a Juan Carlos Iampietro che condividendo con me un buon Mate, ha affrontato un discorso a 360° sull’Argentina, dal passato alle speranze future. Ascoltare l’esperienza altrui e poter avere uno scambio di idee e opinioni costruttive non ha prezzo.

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 

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Il Fronte di Liberazione della Libia si organizza nel Sahel

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Fonte: Information Clearing House

 

Sahel” in arabo significa “costa” o “litorale“. Sebbene fosse presente 5000 anni fa quando, secondo gli antropologi, le prime colture del nostro pianeta iniziarono allora a lussureggiare in questa regione, oggi semi-arida, dove le temperature raggiungono i 50 gradi, e solo i cammelli e un assortimento di creature possono fiutare sorgenti d’acqua; sembra uno strano nome, per questo luogo geografico largo 450 miglia di sabbia cotta, che si distende dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso.

Eppure, stando in piedi lungo il bordo, il Sahel ha l’aspetto di una sorta di linea costiera che demarca le sabbie infinite del Sahara dall’erba della savana, a sud. Parti di Mali, Algeria, Niger, Ciad e Sudan, lungo tutto il confine con la Libia, rientrano in questa supposta terra di nessuno. Oggi il Sahel sta fornendo protezione, raccolta e depositi di armi, campi di addestramento, nascondigli, così come una formidabile base generale per coloro che lavorano per organizzare il crescente Fronte di Liberazione Libico (LLF). Lo scopo del LLF è liberare la Libia da quelli che sono considerati dei burattini coloniali insediati dalla NATO.

La regione del Sahel è solo una delle diverse posizioni che stanno diventando attive, mentre la controrivoluzione libica, guidata dalle tribù Wafalla e Gadahfi, si prepara per la prossima fase della resistenza.

Quando sono entrato in una sala conferenze in Niger, recentemente, per incontrarmi con alcuni sfollati dalla Libia, fui avvertito che stavano preparandosi a lanciare una “lotta popolare, impiegando la tattica maoista dei 1000 tagli“, contro il gruppo attuale che sostiene di rappresentare la Libia, due fatti mi hanno colpito.

Uno era quanti fossero i presenti, che non sembravano trasandati, troppo zelanti o disperati, ma che erano normalmente riposati, calmi, organizzati e metodici nel loro comportamento. Il mio collega, un membro della tribù di Sirte dei Gheddafi, ha spiegato: “Più di 800 organizzatori sono arrivati dalla Libia solo in Niger, e molti altri ancora giungono ogni giorno“. Un ufficiale in uniforme ha aggiunto: “Non è come i vostri media occidentali presentano la situazione, di disperati fedelissimi di Gheddafi che freneticamente distribuiscono fasci di banconote e lingotti d’oro per comprare la propria sicurezza dalle squadre della morte della NATO, che ora brulicano nelle aree settentrionali della nostra patria. I nostri fratelli controllano le strade sconfinate di questa regione da migliaia di anni, e sanno di non essere rilevati neanche dai satelliti e dai droni della NATO.“

L’altro argomento a cui ho pensato, mentre mi sono seduto per un primo incontro, era la differenza che tre decenni possono fare. Mentre me ne stavo lì, ho ricordato la mia visita con l’ex leader della gioventù di Fatah, Salah Tamari, che aveva fatto un buon lavoro nel campo di prigionia israeliano ad Ansar, nel sud del Libano, durante l’aggressione del 1982, come negoziatore eletto dai suoi compagni. Tamari insisteva per fare entrare alcuni di loro nella nuova base dell’OLP, a Tabessa, in Algeria. Questo fu poco dopo che la leadership dell’OLP, erroneamente a mio giudizio, accettasse di evacuare il Libano nell’agosto del 1982, piuttosto che ingaggiare una difesa alla Stalingrado (certamente meno attesa di una inesistente Armata Rossa) e la leadership dell’OLP apparentemente accreditò le promesse dell’amministrazione Reagan di “uno Stato palestinese, garantito dagli americani entro un anno. Potete prenderlo alla banca“, secondo le parole dell’inviato statunitense Philip Habib. Apparentemente fiducioso verso Ronald Reagan per una qualche ragione, il leader dell’OLP Arafat mantenne la promessa scritta da Habib nel taschino della camicia, per mostrarlo ai dubbiosi, tra cui il suo vice, Khalil al-Wazir (Abu Jihad), e le donne, tra gli altri, dello Campo di Shatila, che avevano qualche perplessità verso i loro protettori, che li lasciavano partendo.

A Tabessa, da qualche parte nel deserto algerino, i già orgogliosi difensori dell’OLP erano essenzialmente inattivi e ingabbiati nel campo e, a parte alcune sessioni di allenamento fisico, si ritrovarono a trascorrere le loro giornate a bere caffè e a fumare, e a preoccuparsi per i loro cari in Libano, quando la notizia del massacro di Sabra e Chatila, organizzato da Israele nel settembre 1982, cadde sul campo di Tabessa come una enorme bomba, e molti combattenti respinsero gli ordini di Tamari e partirono per Shatila. Questo non è il caso degli sfollati libici in Niger. Hanno telefoni satellitari di ultimo modello, computer portatili e attrezzature migliori della maggior parte delle ricche agenzie di stampa che si presentavano negli alberghi dei media di Tripoli, negli ultimi nove mesi. Domanda di questo osservatore, “come avete fatto tutti ad arrivare e dove ti sei procurato tutte queste nuove attrezzature elettroniche, così in fretta?” mi è stato risposto con un sorriso muto e una strizzatina d’occhio da una ragazza con l’hijab, che avevo visto l’ultima volta ad agosto, mentre distribuiva comunicati stampa a Tripoli, all’Hotel Rixos, del portavoce libico, dottor Ibrahim Musa, a fine agosto scorso.

In quel giorno particolare, Musa stava dicendo ai media mentre era accanto al viceministro degli esteri Khalid Kaim, un amico di molti statunitensi e attivisti dei diritti umani, che Tripoli non sarebbe caduta in mano ai ribelli della NATO e che “abbiamo 6500 soldati ben addestrati, che sono in attesa di loro“. Come si è scoperto, il comandante dei 6500 era dalla parte della NATO ed istruì i suoi uomini a non opporsi alle forze ribelli che entravano. Tripoli cadde il giorno dopo, e il giorno dopo Khalid venne arrestato ed è ancora all’interno di una delle decine di carceri dei ribelli, mentre ci si appella ai suoi rapitori che non rispondono alle visite dei familiari, e mentre una team di legali internazionali, organizzato dagli statunitensi, sta negoziando una visita.

La LLF ha progetti militari e politici in corso. Una di questi è competere per ogni voto alle elezioni promesse per la prossima estate. Un membro dello staff che ho incontrato, ha il compito di studiare le elezioni in Tunisia, Egitto e altrove nella regione, per possibili applicazioni in Libia. Un altro comitato del LLF sta mettendo insieme una campagna di messaggi nazionalisti, più altre azioni specifiche per la campagna elettorale dei propri candidati, e per creare liste di raccomandazioni per i singoli candidati. Nulla è ancora deciso con certezza, ma un professore libico mi ha detto “di sicuro i diritti delle donne saranno un importante pilastro. Le donne sono inorridite dal presidente del CNT Jalil, che ha detto, cercando il sostegno di al-Qaida, che minaccia di controllare la Libia, che la poligamia è il futuro della Libia e che le donne resteranno a casa, se divorziate. La Libia è stata molto progressista nei diritti delle donne, come nei diritti dei palestinesi.” Aisha Gheddafi, l’unica figlia di Muammar, che ora vive nella vicina Algeria con i membri della famiglia, tra cui il suo bambino di due mesi, fu una forza importante nella promulgazione del 2010, al Congresso del Popolo, di maggiori diritti per le donne. Le è stato chiesto di scrivere un opuscolo sulla necessità di conservare i diritti delle donne, che sarà distribuito se le elezioni del 2012 effettivamente si concretizzeranno.

Mentre il loro paese è in sostanziale rovina, per i bombardamenti della NATO, il LLF pro-Gheddafi ha alcuni importanti vantaggi dalla sua parte. Uno sono le tribù che, durante la scorsa estate, hanno iniziato a opporsi alla NATO, mentre Tripoli cadeva prima che avviassero i loro sforzi che includevano una nuova Costituzione. Il LLF crede che le tribù possano essere fondamentali per ottenere il voto. Forse, una freccia anche più potente, nella faretra del LLF, mentre lancia la sua controrivoluzione, sono i 35 anni di esperienza politica dalle centinaia di Comitati del Popolo libici, da tempo stabilitisi in ogni villaggio in Libia, insieme ai Segretariati delle Conferenze del Popolo. Mentre attualmente sono inattive (messe al bando dalla NATO, a dire il vero) si stanno rapidamente raggruppando.

A volte, soggetti al ridicolo da parte di alcuni sedicenti “esperti” della Libia, i Congressi del Popolo, basati sulla serie di libri verdi scritta da Gheddafi, sono in realtà molto democratici e uno studio del loro lavoro rende chiaro che essi hanno sempre più funzionato non come semplici timbratori delle idee che uscivano dalle mura della caserma Bab al-Azizyah. Un segretario generale di uno dei Congressi, ora lavora in Niger, ha ripetuto ciò che a una delegazione occidentale è stato detto, alla fine di giugno, nel corso di una conferenza di tre ore presso la sede di Tripoli della Segreteria nazionale dei Comitati Popolari. Ai partecipanti furono mostrati le presenze e le votazioni, nonché ogni articolo votato, nel decennio passato, ed i verbali dei dibattiti del Congresso del popolo più recenti. Illustravano le somiglianze tra un Congresso del Popolo e il New England Town Meeting, in termini di popolazione locale che prende decisioni che riguardano la comunità, e un ordine del giorno aperto, in cui i ricorsi e le nuove proposte potessero essere fatte e discusse.

Questo osservatore, ha particolarmente apprezzato nei suoi 4 anni di rappresentante del Ward 2A di Brooklin, al Massachusetts Town Meeting, mentre al college di Boston, a volte sedeva accanto ai suoi vicini Kitty e Michael Dukakis. Sebbene entrambi abbiamo vinto un seggio alle elezioni, ho ricevuto 42 voti in più di Mike, ma lui è risorto politicamente, mentre si può dire che io sono affondato, seguendo i miei incontri con la Students for a Democratic Society (SDS), l’ACLU e le Pantere Nere, tutti in un semestre, quale studente dell’Università di Boston, a seguito di uno stimolante incontro con i professori Noam Chomsky e Howard Zinn, nell’ufficio di Chomsky al MIT.

I dibattiti del Town Meeting erano interessanti e produttivi e “Mustafa“, il Segretario Nazionale dei Congressi del popolo libico, che ha studiato alla George Washington University di WDC, e ha scritto una tesi di laurea sul New England Town Meeting, sosteneva che il suo paese ha modellato i suoi Congressi popolari su di essi. Purtroppo, “Mustafa” è anche lui, oggi, in carcerato dal CNT, secondo amici comuni.

Quali saranno i candidati del LLF alle elezioni, in realtà non è noto, ma alcuni suggeriscono che il Dr. Abu Zeid Dorda, che ora si sta riprendendo dal suo “tentativo di suicidio” (l’ex ambasciatore libico alle Nazioni Unite è stato gettato da una finestra al secondo piano, durante gli interrogatori del mese scorso, dagli agenti della NATO, ma lui è sopravvissuto di fronte a dei testimoni, così è ora ricoverato in reparto medico del carcere). Contrariamente alle storie dei media, Saif al-Islam non è sul punto di consegnarsi alla Corte penale internazionale e, come Musa Ibrahim, sta bene. Entrambi sono stati sollecitati a tenere un profilo basso, per ora, a riposare e a cercare di curare i familiari e i molti amici stretti delle vittime della NATO. Molti analisti giuridici e politici, pensano che la ICC non procederà in relazione alla Libia, per motivo delle contorte regole e struttura dell’ICC, e per l’incertezza nell’assicurare l’arresto dei sospetti ‘giusti’.

Qualunque cosa accada su questo argomento, se il caso va avanti, i ricercatori si prepareranno a riempire il tribunale dell’ICC con la documentazione sui 9 mesi di crimini della NATO, per le sue 23.000 sortite e i suoi 10.000 bombardamenti sui 5.000.000 di abitanti del paese. Alcuni osservatori della Corte penale internazionale sono incoraggiati dall’impegno di questa settimana del Procuratore del CPI, come riportato dalla BBC: “a indagare e perseguire eventuali reati commessi sia dai ribelli che dalle forze pro-Gheddafi, comprese quelli eventualmente commessi dalla NATO.”

Come vittima dei crimini della NATO, che il 20 giugno 2011 ha perso quattro dei suoi familiari, tra cui tre bambini piccoli, mentre cinque bombe MK-83 della NATO venivano sganciate bombe e due missili statunitensi sparati, sul compound di famiglia, in un fallito attentato contro il padre, un ex assistente del colonnello Gheddafi ha scritto a questo osservatore, ieri, dal suo rifugio segreto, “Questa è una buona notizia, se è vera“.

Mentre la NATO sposta la sua attenzione e i suoi droni sul Sahel, è possibile che i suoi nove mesi di carneficina contro questo paese e questo popolo, alla fine, non raggiungeranno i loro obiettivi.

 

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora)

 

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Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai – metà dell’umanità fa da contrappeso a USA e NATO

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Fonte: Global Research

Il 10° incontro dei leader dei governi della Shanghai Cooperation Organization (SCO), avrà luogo il 7 novembre a San Pietroburgo, in Russia. Il primo ministro del Pakistan parteciperà alla riunione su invito del primo ministro russo Vladimir Putin. L’Organizzazione, fondata nel 2001, si è evoluta in un meccanismo efficace, nel corso degli anni, permettendo ai suoi Stati membri di poter agire su questioni regionali strategiche e sullo sviluppo economico. I problemi della regione sono troppo strategici per essere risolti da un solo paese, senza la collaborazione di altri, da qui la necessità della creazione della SCO (originariamente conosciuto come Shanghai cinque) da parte di Cina e Russia.

L’ultima conferenza tenutasi in occasione del 10° anniversario della formazione della SCO, è stata ad Astana, in Kazakistan, il 15 luglio di quest’anno. La dichiarazione rilasciata al termine della conferenza, riguardava la strategia anti-droga e un piano d’azione per gli anni 2011-2016, le procedure e le condizioni per diventare membri della SCO e le relazioni sulle attività della organizzazione regionale dell’anti-terrorismo della SCO durante l’ultimo anno.

Fin dalla sua nascita l’organizzazione ha fatto molta strada in cui, prima di avere la giusta importanza da tutte le organizzazioni regionali e internazionali. Come succede con ogni organizzazione in formazione, ha affrontato molte sfide esterne e interne. Esternamente, i suoi concetti di sicurezza erano in contrasto con quelli della NATO e degli Stati Uniti. La SCO crede nel ‘non-allineamento, non-confronto e non ingerenza negli affari di altri paesi’, preferendo convincere i paesi a risolvere le loro differenze con mezzi pacifici. Gli Stati Uniti si basano ancora sul loro valore militare per realizzare la propria sicurezza, e così come quella dei loro alleati attraverso i mezzi militari. La SCO lavora per porre fine ai concetti da ‘guerra fredda’ e trascenderne le ideologie, a differenza degli statunitensi, che ancora li seguono. Internamente, mentre la Cina preferisce che la cooperazione economica sia la carta principale della SCO, la Russia preferisce che la SCO agisca come un blocco di sicurezza, al fine di soddisfare le esigenze di sicurezza dei suoi membri, derivante da un Afghanistan instabile e dalle ambizioni militari globali degli Stati Uniti.

Nel corso degli anni la SCO si è trasformata in una potenza regionale, mentre il mondo sta rapidamente trasformandosi da un unipolare a multipolare. Nel confronto con le altre organizzazioni regionali come la SAARC, la SCO ha guadagnato più peso nella regione. Si è aperta ad altri paesi della regione, con il Pakistan in prima linea nel diventare suo aderente. Con i progressi limitati della SAARC nello sviluppo della regione e dei suoi paesi membri, soprattutto a causa dell’intransigenza indiana, le speranze dalla SCO hanno costretto i responsabili politici pachistani a spostare l’attenzione verso l’alleanza della SCO, per una cooperazione più stretta con gli Stati dell’Asia centrale.

Il Pakistan aveva presentato domanda di piena adesione alla SCO nel 2006, l’Iran e l’India hanno seguito l’esempio nel 2007 e 2010 rispettivamente. Con il numero allargato dei componenti, la SCO si permetterà di svolgere un ruolo efficace nella regione dopo la partenza degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Il pantano dell’Afghanistan può essere risolto solo attraverso un accordo regionale, e la SCO può essere la piattaforma ideale per fare affrontare all’Afghanistan il diffuso terrore e gli scontri tra fazioni etniche per crearsi le loro aree di influenza, mentre gli Stati Uniti finiranno il loro mandato in Afghanistan. La situazione in Afghanistan ha già iniziato a peggiorare, e la richiesta degli Stati Uniti di cinque basi permanenti in Afghanistan dopo il 2014, aggraverà ulteriormente non solo la situazione della sicurezza afgana, ma anche l’ambiente regionale.

La percezione degli Stati dell’Asia centrale sul ruolo del Pakistan, riguardo la guerra al terrorismo e all’estremismo, è estremamente favorevole. La maggior parte di questi stati apprezzano il ruolo del Pakistan ed i sacrifici che ha speso per controllare il terrorismo e l’estremismo, e hanno assicurato al Pakistan il loro pieno sostegno nella sua ricerca di stato membro a pieno titolo della SCO. Pakistan, da parte sua, inoltre, non può permettersi di ignorare la dimensione della popolazione e dei mercati degli Stati dell’Asia centrale per il proprio sviluppo. Il Pakistan affamato di energia può guadagnarvi molto diventando un vero e proprio membro del raggruppamento. Gli investimenti bilaterali nel raggruppamento, soprattutto nel settore energetico, hanno superato un totale enorme di 15 miliardi di dollari USA. Le riserve di gas della Russia, degli Stati dell’Asia centrale e dell’Iran costituiscono il 50% delle riserve mondiali, con l’attenzione immediata del governo sulla questione energetica, che ha praticamente bloccato l’economia del Pakistan.

Il Pakistan, divenendo membro della SCO può realizzare pienamente le potenzialità dell’organizzazione collegando cinesi e gli Stati asiatici centrali con i paesi del Golfo e dell’Asia meridionale. A tal fine, il Pakistan ha già offerto il suo Porto di Gwadar e altre vie di terra. Il Pakistan oggi sta attraversando un momento difficile della sua storia, mentre si sforza di eliminare l’intolleranza, il terrorismo e l’estremismo dal suo stesso tessuto. I paesi della SCO sono anche vittime del fenomeno terroristico, in una forma o nell’altra, e come tale, attraverso sforzi collettivi, il Pakistan può contribuire enormemente negli sforzi dell’organizzazione per sradicare queste tendenze che minacciano la loro sicurezza.

Con l’incorporazione di India e Pakistan, questa organizzazione unica avrà quattro potenze nucleari (due riconosciute e due ancora da riconoscere), un paesaggio pieno di risorse energetiche e di risorse minerarie, accogliendo metà della comunità globale, ha tutti gli ingredienti per svolgere un ruolo importante negli affari del mondo, mantenendovi l’equilibrio. L’ascesa della SCO, sia come gruppo di sicurezza che come entità economica, rispecchia la necessità dei paesi membri della SCO a mantenere gli USA e la Nato lontano dall’interferire nei loro rispettivi domini, senza sfidarli direttamente. Questo può essere fatto solo con l’ampliamento del gruppo, comprendendo altri importanti paesi regionali come il Pakistan.

 

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora)

 

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Census delle Nanotecnologie a Milano e NanotechItaly2011 a Venezia

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III Census delle Nanotecnologie a Milano e NanotechItaly2011 a Venezia

L’AIRI – Associazione Italiana per la Ricerca Industriale presenta due importanti iniziative dedicate alle nanotecnologie che si terranno in novembre a Milano e a Venezia.

14 novembre 2011, Milano

Realtà e potenzialità del nanotech in Lombardia
Analisi della situazione a partire dal
Terzo Censimento delle Nanotecnologie in Italia curato da AIRI / Nanotec IT

Sala conferenze della Camera di Commercio di Milano, Palazzo Turati, Via Meravigli 9/b, Milano.
Ingresso gratuito previa iscrizione.

I partecipanti al convegno hanno diritto ad uno sconto del 40% sul prezzo di acquisto del Censimento.

Programma e modalità di iscrizione

23 – 25 novembre, Venezia

NanotechItaly 2011 è il convegno internazionale organizzato congiuntamente da AIRI/Nanotec IT, Veneto Nanotech, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e l’Istituto Italiano di Tecnologia, in collaborazione con Federchimica, il Politecnico di Torino (Latemar Research) e Assobiotec-Federchimica, e costituisce l’appuntamento annuale dedicato alle nanotecnologie al quale partecipano rappresentanti delle più importanti realtà italiane impegnate nel settore ed esperti di fama riconosciuta provenienti da vari Paesi.

Per maggiori informazioni visiti il sito dell’evento: www.nanotechitaly.it

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La Grande Guerra nel mare Adriatico

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Quando parliamo di Grande Guerra, la prima cosa che viene alla mente sono le carneficine consumatesi sul fronte dolomitico e sull’altipiano carsico.
Se poi pensiamo alle vicende marittime, la memoria va alle incursioni dei MAS, ma in realtà, specialmente nel mare Adriatico, hanno avuto luogo vicende ben più articolate. Una serie di recenti pubblicazioni ha cominciato ad informare il pubblico italiano in merito a tali vicende. La più recente di tali pubblicazioni si deve a Orio di Brazzano che ha dato alle stampe un’opera cospicua e di piacevole consultazione.

Venerdì 11 novembre alle ore 18:00, presso la sede della Lega Nazionale di Trieste (via Donota, 2 – terzo piano) verrà presentato il volume La Grande Guerra nel mare Adriatico, Luglio Editore.

Interverranno Lorenzo Salimbeni, dottorando di ricerca in Storia contemporanea e dirigente della Lega Nazionale, ed Orio di Brazzano, autore del libro ed appassionato di storia della Prima Guerra Mondiale.

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Il linciaggio di Gheddafi: il ritorno del sacrificio umano

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Il trattamento del cadavere di Muhammar Gheddafi è stato indicativo della tragedia vissuta dal popolo libico. La sua salma è stata oggetto di un trattamento doppiamente d’eccezione, di una doppia violazione dell’ordine simbolico in cui si inserisce questa società. Invece di essere inumato il giorno stesso, come prevede il rito musulmano, il suo cadavere, al fine di essere lasciato sotto gli occhi dei visitatori, è stato esposto per quattro giorni in una camera fredda. A tale esibizione è poi seguita la sepoltura in un luogo segreto, malgrado la richiesta di avere indietro il cadavere fatta all’ONU dalla moglie. Questa doppia decisione del nuovo potere libico inserisce la popolazione in una situazione già trattata dalla tragedia greca. Impedendo alla famiglia di inumare il corpo, il nuovo potere politico si sustituisce all’ordine simbolico. Sopprimendo ogni articolazione della “legge degli uomini” e della “legge degli dei” il CNT le fonde e si arroga il monopolio del sacro. Inoltre, si pone al di sopra della politica. La decisione del CNT di non permettere alla famiglia di svolgere i funerali e quella di esibire il cadavere hanno come risultato la soppressione del significato del corpo, così da non mostrare altro che la sola immagine della morte.

Ciò significa che la pulsione, e l’ordine di gioire dell’immagine della morte di Gheddafi, non possono incontrare alcun limite. L’esposizione del corpo non è che un elemento della sua feticizzazione. L’essenziale si trova nelle immagini del linciaggio di Gheddafi. Riprese dai GSM, monopolizzano lo spazio mediatico e ritornano di continuo. Intrusive, appaiono in tempo reale nella nostra vita quotidiana. Ci catturano. Ci dicono molto, non sul conflitto di per sé, ma sullo stato delle nostre società, oltre che sul futuro programma della Libia: una guerra permanente. Queste immagini hanno la funzione di un sacrificio, quello di un capro espiatorio. Ci introducono nella violenza mimetica, vale a dire in un ciclo di pulsioni, la ripetizione della messa a morte del male in persona. Si torna quindi indietro nella storia umana, recuperando uno stadio dove il sacrificio umano occupava un ruolo centrale, definito dalla legge. Qui, l’esigenza di gioire soppianta la politica, la pulsione rimpiazza la ragione. L’esempio più significativo ci è dato dall’ intervista di Hilary Clinton, che accoglie queste immagini come un’offerta. Ilare, esalta tutta la propria potenza e dà mostra di tutto il suo giubilo in seguito al linciaggio: “Siamo venuti, abbiamo visto, e lui [Gheddafi] è morto!”, ha dichiarato al microfono del canale televisivo CBS.

La violenza inflitta al capo di Stato libico è inoltre, per gli altri dirigenti occidentali, un momento propizio per esprimere la propria soddisfazione e gioire della riuscita della propria iniziativa. “Non dovremo più versare lacrime per Gheddafi”, ha dichiarato Alain Juppé. I media ci confermano che “i dittatori finiscono sempre come lui”. Il linciaggio diviene la prova stessa che il suppliziato fosse un dittatore. La violenza dell’omicidio, perpetrato dai “liberatori”, ci mostra che si tratta di una meritata vendetta. Ciò attesta che i suoi autori non sono altro che delle vittime. Le prese di posizione dei nostri dirigenti politici, in seguito alla diffusione di queste immagini, ci confermano che l’obiettivo di questa guerra fosse senz’altro l’eliminazione di Gheddafi, e non la protezione della popolazione. La violenza di quest’ultimo è consistita sostanzialmente nel fatto che non ha abbandonato il potere, quand’era inconcepibile che restasse. La sua immagine ha incarnato la tirannia, giacché egli non ha attirato l’amore dei dirigenti occidentali verso le popolazioni libiche. “Egli [Gheddafi] si è comportato in maniera troppo aggressiva. Aveva ottenuto delle buone condizioni per arrendersi, ma le ha rifiutate”, ha aggiunto Juppé. Il corpo straziato è diventato un’icona. I segni della violenza fanno apparire l’invisibile. Queste stigmati ci mostrano ciò che non avevamo potuto vedere: la prova che il massacro sia stato perpetrato da Gheddafi. Essi sono una rivelazione delle sue intenzioni, in nome delle quali la NATO ha giustificato il proprio intervento. Così è stata creata un’identità nei massacri attribuiti al colonnello e al suo cadavere sanguinolento. Le ferite sul corpo vivente, in seguito sulla salma, non rappresentano la violenza dei “liberatori”, ma portano i segni del sangue versato per Gheddafi. Le immagini dell’atto sacrificale permettono ai nostri dirigenti di esibire un potere illimitato. Il ministro della Difesa francese, Gérard Longuet, ha rivelato che l’aviazione francese, su richiesta dello stato maggiore NATO, ha “fermato”, vale a dire bombardato, il convoglio in fuga al bordo del quale si trovava Gheddafi. Egli rivendica inoltre una violazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. In questa occasione, Alain Juppé ha riconosciuto, inoltre, che l’obiettivo dell’invasione era di mettere il CNT al potere: “l’operazione, ora, deve avere termine, poiché l’obiettivo che ci eravamo prefissi, e cioè accompagnare le forze del CNT nella liberazione del loro territorio, è ormai raggiunto”.

La morte di Gheddafi, questo atto di “vendetta delle vittime”, ha portato conseguenze che non saranno giudicate. Questo assassinio va incontro agli interessi delle compagnie petrolifere e dei governi occidentali. I loro rapporti intimi con il regime del colonnello non verranno mai resi pubblici. La sostituzione delle immagini del linciaggio all’organizzazione di un processo davanti alla Corte penale internazionale ha soprattutto come conseguenza che, invece di essere fermata dalla parola, la violenza diventa infinita.

La Libia, come l’Iraq e l’Afghanistan, diventerà lo scenario di una guerra perenne.

Quanto ai nostri regimi politici, essi si rafforzano in uno stato di instabilità permanente. Ciò accompagna l’emergenza di un potere assoluto, in cui l’atto politico si posiziona al di là dell’ordine di diritto. Un intervento militare, ingaggiato in nome dell’amore dei dirigenti occidentali per le popolazioni vittime di un “tiranno” e magnificato dall’ esibizione del sacrificio di quest’ultimo, rivela una regressione delle nostre società verso la barbarie.

I lavori etnologici, come la psicanalisi, ci hanno mostrato che il sacrificio umano attua un ritorno a una struttura materna.

L’amore e il sacrificio sono gli attributi di una organizzazione sociale che non distingue più l’ordine politico da quello simbolico.

Questi sono i paradigmi di una società matriarcale che realizza il fantasma primordiale dell’unificazione alla madre, in questo caso la fusione dell’individuo con il potere.

Jean-Claude Paye – sociologo, autore di De Guantanamo à Tarnac: L’emprise de l’image, Editions Yves Michel, ottobre 2011.

Traduzione a cura di Alessandro Parodi

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La stabilità del Golfo dipende dal Bahrain

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Le proteste scoppiate in Bahrain dal febbraio 2011 si collocano nella specificità endemica della storia politica e socio-religiosa del regno, legate da un fil rouge alle manifestazioni che dall’indipendenza, avvenuta nel 1971, sono condotte dall’opposizione sciita, in dissenso con la politica settaria del governo, gestita dalla famiglia regnante degli Al-Khalifa.

Il 14 febbraio in alcuni villaggi sciiti poco lontani alla capitale Al-Manamah è esplosa la protesta di carattere spontaneo e non coordinato, mentre la grande manifestazione nazionale organizzata, ha avuto luogo il 17 febbraio, quando migliaia di cittadini si sono radunati nella piazza centrale della capitale, la Piazza della Perla (Midan al-Lulu), avanzando al governo la annosa rivendicazione di riforme socio-politiche, per poi essere repressi brutalmente dalle forze di polizia.

Nello specifico le richieste di apertura politica avanzate dalla popolazione hanno riguardato la formazione di un parlamento maggiormente rappresentativo, una nuova costituzione, il rilascio dei prigionieri politici e maggiori opportunità economiche.

È utile sottolineare, fin da subito, che benché i manifestanti fossero per la maggioranza sciiti, essendo essi il gruppo religioso più numeroso in Bahrain, e anche il più discriminato (sin dal 1971 la comunità sciita viene ripetutamente accusata dal governo di essere la quinta colonna del potere iraniano), le rivendicazioni hanno avuto il carattere nazionalista dell’unità tra sunniti e sciiti, i quali rivendicano i propri diritti in quanto cittadini bahreiniti1.

Le manifestazioni e gli scontri tra popolazione e le forze di polizia bahreinite hanno radici profonde nella storia del piccolo regno, e per comprendere appieno l’importante risvolto che le rivolte popolari del 2011 potrebbero apportare a livello geopolitico regionale e internazionale, è necessario indagare brevemente nella storia politica e socio-economica del Bahrain.

Contesto socio-economico e politico.

Il regno del Bahrain (lett. in arabo “Regno dei Due mari”) è un piccolo arcipelago governato dal 1783 dalla famiglia musulmano sunnita degli Al-Ḫalifa, la quale riuscì a riscattare il potere sul territorio allontanandosi dall’ingerenza persiana e riparandosi sotto l’ala britannica, a seguito di accordi commerciali che hanno trasformato il regno in un protettorato britannico.

Dal 1971, anno del ritiro inglese, il Bahrain è formalmente uno stato indipendente, protetto dall’ombrello militare statunitense.

La popolazione è di un milione e 200mila cittadini, per l’81,2% musulmani (di cui il 65-70% sciiti).

Il Bahrain, data la sua posizione geografica, ha sempre avuto un’importanza strategica primaria per il commercio internazionale, la cui fortuna economica è derivata, prima della scoperta del petrolio, dalla pesca delle perle.

La produzione petrolifera, iniziata nel 1932, è nettamente inferiore rispetto agli altri paesi produttori di petrolio del Golfo, e per questo il Bahrain ha avuto la necessità di diversificare la propria economia più degli altri.

La diversificazione e le riforme economiche si sono rese necessarie per diversi fattori: tra i più importanti si inquadrano l’esaurimento delle risorse petrolifere e la pressione demografica interna ( la popolazione tra i 15 e i 64 anni è il 70%, di cui il 15% disoccupato).

La diversificazione economica ha riguardato l’industria pesante, soprattutto la produzione di alluminio (attraverso la Aluminium Bahrain), il ferro e l’acciaio; l’industria manifatturiera e soprattutto i servizi finanziari (che corrisponde al 27,6% del PIL) e il turismo. Il Bahrain attualmente è il paese del Golfo che possiede l’economia più diversificata, in competizione con la Malesia per assurgere a centro finanziario islamico mondiale. La costruzione di un “porto” finanziario per le maggiori economie, mostra la chiara ambizione di costituirsi come “business friendly” e di essere esso stesso un modello di offshore commerciale.

Le riforme strutturali, invece, hanno interessato la privatizzazione dei settori delle comunicazioni e del trasporto pubblico, nonché l’apertura agli IDE (Investimenti Diretti Esteri) e la costituzione di dieci Free Trade Zones. Imponenti sono stati gli accordi commerciali con altri paesi, come il Qatar, con il quale il Bahrain ha iniziato nel 2009 la costruzione del “Ponte dell’amicizia”, in conclusione entro il 2015. Ancora più importante dal punto di vista degli investimenti strategici è stato, però, l’accordo bilaterale di libero scambio (Free Trade Agreement) con gli Stati Uniti, firmato nel 2006, che ha rassicurato gli statunitensi circa l’alleanza e la lealtà del Bahrain.

A conferma dell’attenzione posta dal Consiglio per lo Sviluppo Economico (Maǧlis al-Tanamiya al-Iqtisadiya), l’istituzione governativa che organizza le strategie di diversificazione economica, nel 2009 il settore petrolifero ha contribuito al PIL per il 10%, mentre quello finanziario del 30%2.

Questo nuovo clima economico è stato inaugurato nel 2001 dall’attuale re Hamad bin Isa Al-Khalifa (salito al trono nel 1999), insieme al programma di riforme istituzionali di apertura politica, in risposta alle rivolte e agli scontri condotti dalla popolazione durante gli anni ’90. Infatti, tra il 1994 e il 1999, si sono verificati scontri la cui causa sottesa principale era il rifiuto della famiglia regnante, rappresentata dalla figura del re Isa bin Salman Al-Khalifa e del Primo Ministro Šaikh Khalifa bin Salman Al-Khalifa in carica dal 1971, di promuovere una effettiva partecipazione politica della popolazione nonché la privazione economica e la discriminazione della popolazione sciita.

La leadership degli oppositori era composta da religiosi sciiti e laici: bahreiniti esiliati a Londra, che avevano formato il Bahrain Freedom Movement e gli esiliati in Iran, raggruppati nel Fronte Islamico di Liberazione del Bahrain.

In realtà, i primi scontri tra l’opposizione sciita e le forze di polizia avevano avuto luogo già nel 1975, quando il governo decise di sopprimere l’Assemblea Nazionale, creata nel 1973, e di bandire i partiti politici, per accentrare il potere nelle mani della famiglia regnante, e condurre la politica nazionale in modo informale. Soprattutto a seguito della rivoluzione iraniana del 1979, il governo della famiglia Al-Khalifa ha tacciato gli oppositori sciiti di essere sostenuti e radicalizzati dall’Iran, accuse ripetute fino ad oggi. Allora, come nel 1994 e nel 2011, infatti, le proteste sono sorte nei villaggi sciiti vicini la capitale, e l’epilogo è stato una repressione violenta da parte delle forze di polizia.

Nel 1995 sono cominciate le espulsioni di alcuni religiosi sciiti, tra cui Šaikh Ali Salman attuale leader di Al-Wefaq, il principale partito di opposizione sciita, nonostante abbiano avuto luogo prove di dialogo con il governo, al quale gli sciiti chiedevano il rilascio dei prigionieri, il ritorno degli esiliati e una trattativa circa le richieste politiche, in cambio dell’interruzione delle violenze.

Nel 1999 è succeduto al trono l’erede Hamad bin Isa Al-Khalifa, il quale ha mostrato la volontà di intavolare un dialogo nazionale con la popolazione, affinché la violenza fosse placata. Come era accaduto con il passaggio di potere tra Hafez e Bashar Al-Assad in Siria, anche in Bahrain i cittadini riponevano grandi speranze di progresso caratterizzato da un’apertura politica in direzione della democrazia, guidata da un giovane regnante attento alle richieste e ai bisogni della popolazione.

D’altra parte, il supporto concesso alla popolazione era necessario per il nuovo re affinché si mostrasse forte e autonomo rispetto al Primo Ministro che controllava effettivamente il potere politico e economico. Egli, infatti, con la morte del re Isa Al-Khalifa, aveva aumentato il proprio peso politico all’interno del circolo di potere familiare, e la competizione per il potere all’interno della famiglia regnante non si è mai sopita. Ciò è stato dimostrato nel 2008, quando per cercare di contenere il potere di Šaikh Khalifa è stato rimosso il ministro della Difesa sostituito dal principe ereditario Salman bin Hamad bin Isa Al-Khalifa, ed è stata introdotta una nuova legge che incrementava i ministri da 6 a 16, senza il parere del Primo Ministro.

La via intrapresa dal nuovo re è stata quella dell’apparente sostegno alle richieste mosse dai suoi sudditi: la riforma democratica del re Hamad è iniziata nel 2001, attraverso l’approvazione referendaria della Carta Nazionale (Al-Dustur), accettata dalla stragrande maggioranza della popolazione con l’89% dei voti favorevoli, che doveva trasformare il Bahrain in una monarchia costituzionale. Al suo interno sono stati stabiliti i ruoli delle due camere del Parlamento: il Consiglio dei Rappresentanti, il Maǧlis Al-Nuwab, con potere legislativo, composto da 40 membri eletti attraverso il suffragio universale, e il Consiglio Consultivo, il Maǧlis al-Šura, composto anch’esso da 40 membri ma nominati dal re. Il supporto per una monarchia costituzionale a legislatura eletta proveniva anche dai leader religiosi sciiti, che guardavano alla riforma come uno sforzo di riconciliazione tra il governo e la comunità sciita.

L’adozione della Carta è stata una vittoria politica strategica per il re Hamad, ma non prevedeva alcun ruolo di potere decisionale delle opposizioni, rappresentate principalmente dal partito sciita Al-Wefaq, tuttora il maggior partito di opposizione, e dal Al-Waʿad di ispirazione socialista. Inoltre nella Costituzione era previsto il potere esercitabile dal re di sciogliere il Parlamento e di porre il veto alle leggi dell’Assemblea Nazionale, il Maǧlis Al-Watani: il disegno della costituzione si presentava come un atto unilaterale senza trasparenza, che salvaguardava il potere tribale tradizionale degli Al-Khalifa e che preveniva, de jure, ogni futuro cambiamento da parte del Parlamento.

Nel 2002, sulla scia delle riforme democratiche, si sono tenute le elezioni municipali, le prime a suffragio universale attivo e passivo, vinte dal partito di opposizione sciita Al-Wefaq, il quale però ha boicottato le successive elezioni parlamentari, a causa delle predisposizioni costituzionali sul ruolo legislativo del Maǧlis Al-Šura e della suddivisione dei distretti elettorali, ripartiti in 12 municipalità nei 5 governatorati.

Queste elezioni, che dovevano essere il test di legittimità politica e sociale del re, hanno in realtà mostrato il fallimento della riforma democratica

Le seconde elezioni parlamentari hanno avuto luogo nel 2006 e, questa volta, Al- Wefaq si è presentato vincendo 18 seggi, nonostante al suo interno si fosse verificata una scissione tra coloro che rifiutavano la legittimità costituzionale, che costituirono il gruppo Al-Haqq, e i moderati, guidati dallo Šaikh Ali Salman.

Il nodo problematico principale è sempre stato il settarismo, in Bahrain: esso infatti è l’unico paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo in cui gli sciiti sono la maggioranza della popolazione, ma sono esclusi dalle più importanti cariche pubbliche, come l’impiego nelle forze armate e di polizia e nel lucroso settore bancario. Il governo, per riequilibrare le percentuali socio-religiose, ha invitato e naturalizzato molti musulmani sunniti provenienti da altri paesi islamici (tra cui il Pakistan), affinché lavorassero nelle forze di sicurezza, assicurandosi così la lealtà e l’efficienza dei militari.

Il carattere settario e economico del Bahrain ha influenzato negativamente le condizioni per lo sviluppo di una classe media borghese: non si è verificato lo sviluppo del settore commerciale privato e la classe media stenta ad avere potere per combattere per un cambiamento politico.

Risvolti geopolitici regionali e internazionali della stabilità del Bahrain

Gli scontri tra la popolazione e le forze di polizia bahreinite, iniziate il 17 febbraio sulla scia delle rivolte popolari in Nord Africa, hanno fatto sobbalzare più di un capo di Stato, non solo arabo.

La centralità strategica e la stabilità del “Regno dei due mari” nel Golfo è motivo di interesse per diversi attori internazionali, primi fra tutti Stati Uniti e Arabia Saudita, e le conseguenze geopolitiche dell’instabilità del Bahrain potrebbero riflettersi a livello regionale e internazionale.

Il Bahrain è baluardo della strategia militare statunitense nella regione, avendo gli Stati Uniti posizionato la V flotta della US NAVY, nel 1995, in funzione di copertura e di controllo del Mar Rosso e del Golfo persico-arabico. Attualmente la base navale statunitense, oltre che necessaria per le missioni in Iraq e Afghanistan, si presenta come strumento di deterrenza e di contenimento verso un Iran con ambizioni nucleari. La preoccupazione destata da un aggressivo Iran non riguarda solamente le mire nucleari, ma anche la minaccia del blocco dello Stretto di Hormuz, nel quale transita il 20% del petrolio mondiale. L’imbarazzo americano si è palesato nella cautela delle posizioni adottate nei confronti gli eventi iniziati a metà febbraio: anche in questo caso, come per l’Egitto, hanno rinunciato ad agire da registi delle crisi politiche, districandosi come equilibristi nelle trame della diplomazia.

La retorica della missione di esportazione della democrazia del mondo ha portato gli Stati Uniti a chiedere agli Al-Khalifa di intavolare un dialogo con i manifestanti e di iniziare un processo di riforme politiche ed economiche, avvertendo che l’ingerenza iraniana negli affari interni sarebbe dipesa dalla capacità, o meno, della famiglia regnante di soddisfare le richieste della maggioranza sciita. Infatti, sebbene le manifestazioni non siano state fomentate dagli iraniani (nonostante le accuse dell’Arabia saudita e degli stessi Al-Khalifa), questi potrebbero intervenire in Bahrain attraverso il sostegno agli sciiti, permettendo la realizzazione della più grande paura degli USA e dell’Arabia Saudita stessa.

Il paese che più di tutti si è esposto per la difesa della casa regnante degli Al-Khalifa, è stato l’Arabia Saudita. Il governo saudita è fortemente preoccupato di un dilagare della protesta sciita nel suo territorio, data anche la vicinanza geografica del Bahrain con la costa orientale saudita, regione in cui vive la popolazione sciita che rappresenta una consistente minoranza saudita e in vi cui si trovano le più grandi riserve petrolifere del paese, resa ancor più vicina a seguito della costruzione del Ǧisr al-Malik Fahd.

L’obiettivo primario in politica estera della casa Al-Saud è sempre stato quello di osteggiare e contenere la spinta sciita proveniente dall’Iran, che porterebbe instabilità interna, ma ciò si configura nel progetto più ampio di legittimazione politico-religiosa in tutto il mondo islamico sunnita, di custode dei due luoghi sacri di Mecca e Medina e di difensore del vero Islam.

Alla luce del timore di un contagio micidiale per la stabilità interna, l’Arabia Saudita ha fomentato la repressione dell’opposizione da parte degli Al-Khalifa, fino a prendere in mano la situazione inviando nel piccolo arcipelago (considerato “cortile di casa”) mille soldati, affiancati da altri 500 provenienti dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar. Il contingente militare, inviato il 14 marzo, opera sotto la bandiera della Peninsula Shield Force, le forze militari del Consiglio di Cooperazione del Golfo (di cui sono membri Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman).

L’intervento, da una parte, ha consentito all’Iran di ergersi a difensore degli sciiti, attraverso la richiesta di immediato ritiro delle forze militari. Dall’altra ha mostrato la volontà e la capacità del Consiglio di Cooperazione del Golfo di agire non più come docile alleato degli Stati Uniti ma di essere riconosciuto come attore autonomo nelle decisioni.

L’organizzazione militare del CCG nasce già nel 1984, quando venne costituita la Peninsula Shield Force come inter-force di difesa collettiva, a seguito dello scoppio del conflitto Iraq-Iran.

L’intervento in Bahrain si pone come dettato dagli interessi geostrategici sauditi, in funzione anti-iraniana, ma è anche uno smacco all’inazione della Lega Araba, grande assente negli eventi. Le prossime misure devono essere gestite meticolosamente, poiché una rapida “exit strategy” potrebbe far pensare ad una vittoria delle forze di opposizione sciite, ma una lunga permanenza potrebbe inasprire le reazioni dell’Iran.

La crisi del Bahrain ha segnato una svolta negativa nelle relazione tra i due grandi alleati, Stati Uniti e Arabia Saudita: già il precedente appoggio americano all’opposizione egiziana e il conseguente abbandono del fedele alleato Mubarak, aveva provocato disappunto agli Al-Saud. Ora, la richiesta agli Al-Khalifa di negoziare e trovare un accordo nazionale con l’opposizione sciita ha portato i sauditi ad agire autonomamente, seppur con il beneplacito assenso degli americani, in Bahrain. D’altra parte gli americani non hanno accolto benevolmente l’intervento armato saudita e lo scarso rispetto dei diritti umani nel paese.

La stabilità interna è il tema preponderante nell’agenda politica saudita, anche alla luce della recente morte dell’erede al trono, Sultan bin Abdullah ʿAzizi Al-Saud. Infatti il prossimo erede al trono, per la prima volta nella storia del regno, sarà scelto dal Consiglio di fedeltà creato nel 2006, benché non ci si possa che aspettare l’elezione dell’attuale Ministro degli Interni e secondo vice premier, il principe Nayef.

Per quanto riguarda il CCG, si potrebbe parlare di una nuova fase dell’organizzazione, che si è evoluta da istituzione con compiti volti esclusivamente al coordinamento economico tra gli stati membri, a organismo che possiede anche un’agenda politico-militare di difesa comune.

Un altro attore si affaccia interessato sulla scena bahreinita, il Pakistan, per il quale si prospetta una nuova stagione politica, essendo stato nominato membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per gli anni 2012-2013, insieme al Marocco.

La visita del Ministro degli Esteri del Bahrain, Šaikh Khalid Al-Khalifa, ha segnato dei risvolti interessanti. Il colloquio, che ha coinvolto il presidente pakistano, Asif ali Zardari, il Primo Ministro Gilani e il Ministro degli Esteri, era incentrato sulla richiesta di cooperazione nel settore della difesa, che il Pakistan ha favorevolmente accolto. Appoggiando l’intervento saudita nel regno, il Pakistan ha mostrato tutto l’interesse per mantenere salda la stabilità del Bahrain: a livello di politica interna, vede favorevole la possibilità di allargare l’intesa con il Bahrain per permettere l’impiego di propri cittadini espatriati, forniture di petrolio agevolate e aiuti finanziari per l’economia in crisi. In realtà il paese sta camminando su un terreno scivoloso, in quanto al suo interno vive una forte minoranza sciita, e la presa di posizione in favore di un governo sunnita, filo-occidentale e discriminatorio nei confronti degli sciiti, potrebbe fomentare delle tensioni intra-religiose.

Tutto fa prospettare una nuova congiuntura politica-religiosa, che si ricollega all’invito formale da parte del CCG a Giordania e Marocco, quasi a voler formare uno scudo musulmano sunnita, una linea di faglia intra-religiosa volta a protezione dalla minaccia esterna iraniana, e un filo conduttore di aiuti e cooperazione contro quella interna.

Intanto in Bahrain il 24 settembre e il 1 ottobre si sono svolte le elezioni a doppio turno per l’attribuzione dei 18 seggi vacanti dell’opposizione di Al-Wefaq al Maǧlis al-Nuwab. I posti furono abbandonanti dai rappresentanti a fine febbraio, per protesta contro gli esigui compiti attribuiti alla Camera dei Rappresentanti e la violenza esercitata sui manifestanti.

Tra il primo e il secondo turno, il governo aveva approvato una raccomandazione per rivedere il sistema delle circoscrizioni elettorali e per trasferire alcuni poteri dal Consiglio Consultivo, il Maǧlis Al-Šura, al Consiglio dei Rappresentanti. Queste riforme, da sempre richieste dall’opposizione, si inquadrano nelle raccomandazioni elaborate in seno al Dialogo Nazionale, intavolato dell’erede al Trono, Salman bin Hamed, sospinto per volontà della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Al-Wefaq ha però abbandonato il tavolo negoziale, dal momento che il governo non ha accettato come base del dialogo le sue richieste: il rilascio dei prigionieri, un parlamento democraticamente eletto con pieni poteri esecutivi e una legge elettorale equa. Le rivendicazioni sono assolutamente legittime da un punto di vista democratico, e se fossero accolte potrebbero evitare un inasprimento della situazione interna e internazionale. Per uscire dalla situazione di impasse, il governo dovrebbe prendere coscienza del fatto che non è possibile adottare la strategia della carota e del bastone (prima regalando denaro, 2650$ a famiglia, per poi reprimere nel sangue le proteste). È necessario un compromesso con le opposizioni, benché la famiglia regnante sia diventata lo spauracchio di sé stessa: la popolazione ha perso fiducia in un governo che ha utilizzato le forze armate, provenienti addirittura da altri paesi, contro il suo stesso popolo, e questo è motivo di preclusione di ogni possibile negoziazione politica.

*Francesca Blasi laureata in Lingua e Civiltà araba presso la facoltà di Studi Orientali dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”.

1 Osservatorio di politica internazionale – Mediterraneo e Medio Oriente – n°6 gennaio/marzo 2011 www.parlamento.it

2 U.S. Department of State www.state.gov

 

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Il significato della morte di Gheddafi per la Russia e la sfida della Siria

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Valerij Rashkin è segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa e deputato alla Duma di Stato. Antonio Grego lo ha intervistato per noi in esclusiva l’8 novembre scorso, a margine di una tavola rotonda sul tema “La personalità e l’eredità politica di Muammar Gheddafi” svoltasi a Mosca. Rashkin ha parlato di come la guerra in Libia, la morte di Gheddafi e le minacce alla Siria pesino sulla strategia internazionale della Russia.

Antonio Grego – Quanto è importante la morte di Gheddafi per il vostro partito e per la Russia in generale?

Valerij Rashkin – In primo luogo penso che questa sia una tragedia. Una tragedia non solo per il popolo libico, ma una tragedia di carattere globale. Leader come Gheddafi, credo che è necessario proteggere ovunque, nell’intero globo. Bisogna studiare la sua storia, leggere i suoi scritti e maledire tutti quelli che hanno commesso questa sconsiderata aggressione e avventura. In secondo luogo si deve imparare la lezione che viene da questa esperienza ovvero che la NATO e gli Stati Uniti non amano i Paesi con una forte politica sociale e una forte rete di sicurezza sociale per i deboli e la popolazione. E in terzo luogo che tutti coloro che hanno stima di sé, un sentimento di indipendenza politica per la loro Nazione, non hanno alcun diritto di rimanere in silenzio, hanno come esempio la lotta di Gheddafi e del suo popolo per trarre le dovute conclusioni e per prevenire tali avvenimenti nei loro Paesi, in ogni caso.

A.G. – Perché, secondo lei, l’Occidente ha deciso di invadere la Libia ed eliminare Gheddafi? Quale esempio rappresentava la Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare per il mondo?

V.R. – Credo che il golpe militare, che è stato organizzato in Libia, abbia portato il Paese ad una situazione di schiavitù. Gli Stati Uniti ed il loro blocco NATO oggi sono i poliziotti internazionali. Di ciò ne parla tutto il mondo. Questo gendarme usa il suo potere di intervento ovunque a piacimento. Ecco alcuni esempi: Afghanistan. Fanno entrare le loro truppe, e rimpiazzano la Russia e altri Paesi. L’esercito americano ha preso in custodia i campi dove cresce l’oppio. Adesso l’80% della droga coltivata su questi campi finisce nel nostro Paese, in Russia. E avvelena i nostri giovani. E stiamo perdendo ogni anno 226 mila giovani di età inferiore ai 25 anni, solo a causa del consumo di droghe. L’Iraq. Gli Stati Uniti avevano bisogno per se stessi delle risorse petrolifere di questo Paese e sono andati in guerra. Con la Yugoslavia hanno usato lo stesso schema. Lo stesso metodo da gendarmi. Gli stessi bombardamenti, la stessa guerra, persino gli stessi aerei.

L’assassinio di Gheddafi lo considero certamente un atto blasfemo e un crimine assoluto contro la comunità internazionale. Il leone ferito può essere preso a calci da uno sciacallo qualsiasi. E così è successo con Gheddafi. Quando è iniziato l’intervento armato, i bombardamenti, è rimasto ferito. Poi hanno iniziato a prendersi gioco di lui. Questo non è degno di esseri umani, è inumano. Questo gesto non rientra nella tradizione di questo Paese. Ma lo hanno fatto. In tutti i regolamenti internazionali, i leader di questo livello devono essere protetti e difesi, e poi essere condotti in vita davanti ad un tribunale. Questo era un uomo di tale grandezza ed è stato ucciso in modo vile e disgustoso. Quel sistema, che era stato costruito e tenuto in vita per più di 40 anni in quel Paese, era giudicato legittimo dalle popolazioni tribali che lì vivono. Perché? Vediamo in che consiste questo sistema e perché hanno ucciso Gheddafi e distrutto il sistema di governo che aveva creato.

Facciamo un parallelo con la Russia. In Libia, l’indennità di disoccupazione era di 730 dollari a persona. Se trasferiamo nella nostra valuta, si ottiene 22 mila rubli. A chi poteva piacere questo fra coloro che odiavano Gheddafi? Andiamo al salario medio, e questo per noi è esemplare. Lo stipendio di una infermiera in Libia era di almeno 1000 dollari. In Russia, un’infermiera riceve 7.000 rubli (circa 170 euro, n.d.r.). Potete immaginare? Gheddafi ha inoltre dato le seguenti disposizioni: per i nuovi sposi che vogliono comprare un appartamento lo Stato dava 64.000 dollari, che è pari a 1,9 milioni di rubli. Se si vuole intraprendere un’attività in proprio lo Stato regalava subito 20.000 dollari per lo sviluppo del proprio business. L’istruzione e la sanità in Libia erano gratuite. Oggi, se in Russia andate in qualsiasi ospedale vi chiedono soldi.

Le famiglie con molti figli in Libia potevano comprare i generi alimentari in apposite reti di negozi. Per loro si applicava un prezzo simbolico per l’abbigliamento dei bambini e per il cibo. Qui in Russia, in un qualsiasi negozio per bambini a volte le scarpe per bambini costano più di un intero vestito di un adulto. In Libia, si forniva supporto per la crescita della popolazione e ci si preoccupava per il futuro della nazione e il futuro del Paese. Gheddafi odiava i ladri e i truffatori. Per la contraffazione di medicinali c’era la pena di morte. È una cosa rude, crudele? Se ci fosse in Russia, chi dovrebbe per primo essere fucilato per contraffazione? Ne abbiamo un sacco di gente così. In Libia, non esisteva l’affitto. A chi in Occidente piace questo ordine di cose? Qui abbiamo fino al 50% del reddito familiare che viene usato per pagare le utenze e gli alloggi. In Libia l’energia elettrica era gratuita. E bisogna considerare che in Libia non c’è l’abbondanza di fiumi e impianti idroelettrici come in Russia, ma c’era l’elettricità gratuita. I prestiti per l’acquisto di auto e casa, in Libia, erano senza interessi. In qualsiasi banca in Russia, in USA e in Occidente, non troverete prestiti senza interessi per comprare un appartamento o una macchina. Da noi il mutuo ha un tasso che va dal 13 al 24 per cento, per non parlare delle percentuali per l’acquisto dell’auto. Gheddafi riteneva che in Libia dovessero essere vietati gli agenti immobiliari, e li proibiva. Odiava gli speculatori, e questa è proprio la teoria degli speculatori, la teoria dell’Occidente, la teoria degli imbroglioni e ladri che vivono su questo.

Naturalmente, credo che chiamare Gheddafi un tiranno è una questione inutile, l’Occidente e l’America, e tutta la NATO lo hanno chiamato tiranno. Credo che i tiranni siano coloro che siedono sul gas, sul petrolio e sulle risorse naturali che vengono sottratte al popolo e date in mani private. Io credo che Gheddafi debba essere considerato un eroe per come ha gestito il suo Paese. Il Paese era tranquillo, stabile, senza guerre, e questo non piaceva agli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’America, essa si inserisce ovunque. Ovunque ci sono divisioni, vi si trova necessariamente l’America. Siano esse in Europa, in Africa o in Asia. E la causa principale di questo sono le risorse naturali, il petrolio, il gas e i metalli. Il fatto è che gli statunitensi pensano che le risorse naturali del mondo siano di loro proprietà. E se vi ricordate di Cesare, anche lui era chiamato tiranno. Ma per una sola ragione: non permetteva che i senatori rubassero.

Molti Stati hanno debiti enormi con la Libia. Gheddafi ha introdotto una tale politica cioè quella di dare in prestito denaro e petrolio. Sia la Gran Bretagna che la Francia hanno accumulato enormi debiti con la Libia. Capisco perché sono stati eliminati quelli con i quali sono stati contratti i debiti e non quelli che sono in debito. Perché? Se Gheddafi e la Libia hanno prestato soldi all’Inghilterra e all’Occidente eliminando Gheddafi e il suo Paese non c’è più bisogno di onorare il debito. Quindi il blocco NATO ha preso di mira e distrutto questo Paese e tutti i loro debiti sono stati dimenticati. Questo è uno dei motivi per cui hanno distrutto la struttura della società che era sotto Gheddafi.

A.G. – Come dovrebbe comportarsi la Russia con la Siria e l’Iran, a suo parere, affinché non si ripeta lo stesso scenario visto in Libia?

V.R. – A mio parere, in Russia (e sotto il regime attuale, del capitale oligarchico, che oggi è uno dei fondamenti del tessuto della nostra società) questo scenario non è possibile che si ripeta.
Per questo motivo la Russia deve essere il successore della grande potenza – l’Unione Sovietica – non a parole ma nei fatti. Deve essere assolutamente non sensibile alla politica, ma questo può avvenire solo con una Russia forte, con un forte esercito, in un sistema dove la gente sostiene il suo governo, vero e da lei scelto. Dopo di che, la Russia si rimetterà molto rapidamente in piedi, se il popolo ha fiducia nel governo che ha eletto, lei si alzerà immediatamente in piedi, sarà una grande potenza, e la sua parola sarà ascoltata. E quello che è successo con la Libia, non succederà con nessun altro Paese.

Per quanto riguarda l’Unione Sovietica. Se l’Unione Sovietica fosse ancora in vita, quello che è successo in Libia non sarebbe accaduto. In generale, era una grande potenza e una potenza alternativa al sistema di vita degli altri Paesi, ed era un’alternativa alla classe e al capitale. Se l’Unione Sovietica non si fosse sciolta e non ci fosse stato il golpe del 1991, la Libia avrebbe vissuto in amicizia con il popolo sovietico, e il popolo avrebbe ricevuto questi benefici. Purtroppo, la Russia non ha adempiuto alla sua missione come Stato successore dell’Unione Sovietica.

La Russia in questo caso ha svolto un ruolo negativo. Avevamo stipulato un contratto per un’enorme fornitura di armamenti. Abbiamo perso un partner di fiducia come non ce n’erano altri al mondo. Siamo ora esclusi dalle decisioni che riguardano il futuro della Libia. Avevamo il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza e non lo abbiamo sfruttato. Ed è stato un errore madornale. La Russia si mostra debole al cospetto della classe dominante colpevole della situazione che ora c’è in Libia. Credo che la Russia sia la prossima nella lista. La Libia e la NATO non sono cose a sé stanti, tutto è interconnesso. La politica internazionale sul globo, che è rotondo e piccolo, non è fatta di fenomeni che possono essere isolati. Tutti noi abbiamo risorse enormi, e questo è un bocconcino succulento per la NATO e gli Stati Uniti. Abbiamo enormi riserve di petrolio, gas, metalli, minerali, abbiamo le risorse naturali rinnovabili come legname e pesce. Il 60% dell’acqua dolce è sui nostri territori.

Oggi in Russia quello che trattiene il blocco NATO dall’aggressione è solo lo scudo nucleare che si trova sul nostro territorio, compreso dentro e intorno a Mosca. Senza di questo, quelle risorse e quelle riserve, che sono bramate dalla classe capitalistica mondiale, sarebbero prelevate dalla Russia a prezzi stracciati. Lenin aveva assolutamente ragione quando diceva che finché sulla Terra ci sarà il capitalismo, la guerra non si fermerà. E noi sappiamo dalla storia della statistica, che mentre era in vita l’Unione Sovietica, la guerra nel mondo era molto più ridotta. Perché era preso in considerazione il punto di vista del Cremlino. Avevamo il più forte esercito del mondo, con il quale doveva fare i conti il mondo intero. Per non parlare del fatto che abbiamo vinto la seconda guerra mondiale. E un contributo significativo e importante a questa vittoria lo ha portato l’Armata Rossa e il popolo sovietico. E dopo la Grande Guerra Patriottica nessun accordo, nessuna provocazione non deve essere avviato senza l’approvazione dell’Unione Sovietica. Oggi, l’opinione – che è questa Russia? È corretto dire che se vuoi la pace devi prepararti alla guerra.

Un’altra conferma che noi siamo un bocconcino succulento e che ci spetta il compito di decidere come evitare il saccheggio delle nostre risorse. Madeleine Albright ha parlato in modo chiaro, ripetendo le parole di Churchill: «Non è affatto vero che le ricchezze della Siberia debbano appartenere ad un solo Paese (cioè la Russia). Esse devono essere di proprietà di tutto il mondo». Saranno loro a decidere dove andranno le ricchezze del Kuzbass e di Novosibirsk. A chi andranno tutte le ricchezze della Siberia e dell’Estremo Oriente. Io non sono assolutamente d’accordo con loro.

Pertanto, ecco le conclusioni che si possono trarre da quanto accaduto in Libia, dove hanno scatenato una guerra, uccidendo il suo leader Gheddafi, che tra l’altro aveva più volte visitato l’Unione Sovetica e ha costantemente perseguito una politica di sicurezza sociale per il suo Paese: Gheddafi è stato un combattente indomito per la giustizia sociale e per il bene del suo popolo. Io lo rispetto profondamente, e credo che la sua morte abbia fatto risvegliare schiere di politici in questo Paese e in tutto il mondo. La sua morte ha sollevato la questione del patriottismo e il mondo oggi guarda con occhi diversi la NATO, questi gendarmi, e quello che stanno facendo in tutto il mondo.

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Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali. Video e resoconto dell’evento

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Nel pomeriggio di sabato  5 novembre  scorso si è tenuto a Modena, presso la Sala Conferenze della Circoscrizione Centro Storico ed alla presenza di alcuni rappresentanti della Provincia, l’incontro “Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali”, parte del Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.
Dopo i saluti istituzionali, sono intervenuti S.E. Jakhongir Ganiev, ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia; Gairat Juldashev, secondo segretario dell’Ambasciata uzbeka in Italia; Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”; Gian Paolo Caselli, docente all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia; un rappresentante di ITER Viaggi Modena, della Franco Rosso Tour Operator.
L’organizzazione è stata a cura dell’IsAG e dell’associazione “Pensieri in Azione”. L’incontro ha suscitato molto interesse: la sala era gremita in ogni ordine di posti, numerosi gl’imprenditori presenti.
Proponiamo di seguito la registrazione video dell’evento:
Prima parte:
 

Seconda parte:

Numerosi altri video sono reperibili nella pagina YouTube di “Eurasia” (cliccare qui per raggiungerla).

 

Ecco di seguito il resoconto dell’evento, redatto da Stefano Vernole:

L’iniziativa curata dall’associazione culturale ‘Pensieri in Azione, dell’Istituto di Alti studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) con la collaborazione di “Viaggiatori fuori tema”, ha avuto il patrocinio del Comune di Modena e dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, riscuotendo una grande partecipazione di pubblico.

 

Si volevano infatti analizzare le nuove opportunità di crescita economica offerte ancora una volta dal mondo asiatico e in particolare da questo paese, facente parte dell’ex costellazione sovietica – membro della CSI e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che risulta essere il secondo al mondo per la produzione di cotone grezzo, in cui cresce la produzione agricola, gli investimenti infrastrutturali, i rapporti economici con l’estero, oltre che ricco di materie prime: l’Uzbekistan.

Un’attenzione che trova anche conferma nella visita ufficiale, avvenuta il 6 -7 ottobre 2011 a Taskent, da parte del sottosegretario al Commercio Estero Catia Polidori unitamente ad un nutrito gruppo di imprenditori italiani. L’Uzbekistan in altri termini rappresenta un’importante scommessa del Made in Italy sulla Via della Seta, in quelli che più d’uno ha definito ‘l’antico ponte economico tra oriente e occidente nel cuore dell’Asia’.

 

Molteplici i settori dello Stato asiatico in cui le nostre imprese hanno manifestato interesse: dall’agroindustria, alla meccanica, dal tessile alle costruzioni.

Attualmente infatti in Uzbekistan, sono attive 38 joint venture con investimenti italiani, operative principalmente nell’industria leggera e alimentare, nella trasformazione di prodotti agricoli e produzione di materiali da costruzione, nonché nell’ambito terziario e commerciale.

A Navoi, inoltre uno dei centri principali del paese è stata creata una zona industriale di libero scambio, utile per quelle società italiane che intendono istaurare rapporti commerciali.

Senza contare che al fine quindi di intensificare e consolidare la cooperazione economica bilaterale vengono periodicamente svolte le riunioni del Gruppo di lavoro italo-uzbeko riguardo la cooperazione economica ed industriale ed i crediti all’esportazione.

Dal canto turistico e culturale invece sono numerosi i punti di interesse in Uzbekistan: basti pensare alla sua storia (Tamerlano), alla sua posizione geografica strategica (Asia centrale), alla magnificenza delle sue città (Samarcanda su tutte).

 

Questi stimolanti temi sono così stati approfonditi nel corso dell’incontro, dai 5 relatori presenti: S.E. Jakhongir Ganiev, Ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia;

Gairat Juldashev, Secondo segretario dell’Ambasciata della Repubblica di Uzbekistan in Italia; Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore della rivista di Studi Geopolitici ‘Eurasia’; Gian Paolo Caselli, economista e docente presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e da un rappresentante di ITER Viaggi Modena (Francorosso Tour Operator).

 

Il Dr.Graziani, precedendo i saluti istituzionali, ha aperto l’incontro sottolineando l’impegno a rinsaldare i rapporti tra i paesi della massa eurasiatica, messi a rischio dalla strategia di destabilizzazione atlantista basata sull’ingerenza in nome dei “diritti umani”.

Queste manovre, portate avanti principalmente da USA e GB, individuano in un primo momento le aree geografiche da demonizzare e dopo averle assoggettate tentano di controllarle attraverso quella che si può definire la “colonizzazione anglosassone”.

L’operatore di Francorosso ha invece illustrato con l’ausilio di un bellissimo video le grandi opportunità turistiche offerte dall’Uzbekistan, dando forte rilevanza alla peculiarità culturale di quell’area geografica.

L’intervento di S.E. Ambasciatore Ganiev ha ricordato come ormai democrazia e libero mercato siano scelte irreversibili per l’Uzbekistan e che, nonostante la crisi economica globale l’interscambio commerciale con l’Italia sia in crescita costante.

Non soltanto grazie all’esportazione di materie prime ma anche attraverso la modernizzazione di alcuni settori produttivi interni, chimico, automobilistico, cuoio … le esportazioni dall’Uzbekistan verso il resto del mondo hanno conosciuto un certo incremento.

Il Dr. Juldashev ha sottolineato le numerose intese con l’Europa: l’Accordo sulla cooperazione del 1 luglio 1999 e la Convenzione bilaterale con l’Italia, dalla quale c’è un forte interesse ad importare prodotti di qualità.

Infine il Prof. Caselli ha elogiato il controllo operato dal Governo di Tashkent durante il periodo della transizione dal comunismo ad un’economia di mercato, che ha permesso alla struttura di tipo sovietico dell’Uzbekistan di gestire il processo di apertura molto meglio rispetto ad altre nazioni dell’ex URSS.

I dati più incoraggianti sono infatti ravvisabili sia nell’aspettativa di vita che nel reddito, che sono calati in maniera molto meno brusca se paragonati a quelli dei paesi vicini dopo il 1989 e che hanno retto bene anche dopo la crisi del 2008.

Lo Stato in Uzbekistan opera ancora uno stretto controllo sia sul sistema bancario che su quello industriale, mentre grazie al dinamismo dei propri istituti di ricerca i “cervelli” migliori rimangono in patria.

Gli unici problemi, peraltro comuni a tutta l’area, riguardano quelli della diversificazione produttiva e della necessità di modernizzazione, specie in vista della penetrazione economica cinese.

Dal punto di vista geopolitico, invece, dopo una breve fase di partnership con gli Stati Uniti l’Uzbekistan si è man mano riavvicinato alla Russia e rimane molto interessante capire quali saranno le prossime mosse di questo paese dopo le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin sulla costituzione dell’ “Unione Euroasiatica”.

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L’ascesa del BRICS

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Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2011/11/07/brics-rising-profile.html

Il vertice del G20 a Cannes, il 3-4 novembre 2011, alle prese con vari problemi che affliggono il governo dell’economia mondiale, in particolare la crisi della zona euro, e hanno portato al centro il crescente profilo del BRICS quale giocatore importante per la risoluzione dei problemi mondiali, come la crisi finanziaria. Come giustamente sottolineato dall’alto consigliere economico russo Arkadij Dvorkovich, prima del summit, i paesi BRICS hanno migliorato la loro posizione nella politica internazionale, svolgendo un ruolo decisivo nell’affrontare la crisi globale, e anche verso un ruolo maggiore nelle decisioni politiche degli enti finanziari mondiali, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Il comunicato emesso dopo la riunione del raggruppamento, ha anche sottolineato che il gruppo collaborerà con i paesi della zona euro e dell’Unione europea, che rappresentano la più grande economia del mondo, e che ciò potrebbe essere raggiunto attraverso il coordinamento multilaterale a livello globale, degli enti finanziari.
Alcuni degli sviluppi poterono essere notati durante la riunione del raggruppamento, che ha avuto luogo presso l’Hotel Carlton, il 3 novembre 2011, che non era stato, forse, nettamente visibile nelle precedenti riunioni del BRICS. Il raggruppamento ha preso una posizione coordinata, secondo cui il centro di potere emergente avrà un ruolo positivo nell’aiutare i paesi come la Grecia, dal salvarsi dalla crisi, e che la zona euro deve guidare la soluzione alla crisi. In questo senso, i paesi hanno evitato di sottolineare le misure o le politiche che possono apparire imposte o che approfittino della fragile situazione in Europa. Il presidente cinese, Hu Jintao, ha espresso la speranza che l’Unione europea sia in grado di risolvere la crisi, e ha chiesto che “la comunità internazionale fornisca aiuto e sostegno” alla regione, per uscire dalla crisi. I paesi BRICS hanno riconosciuto che la crisi della zona euro è una crisi di proporzioni globali, e finché non recupererà rapidamente, potrebbe ulteriormente peggiorare lo scenario economico globale. Il raggruppamento ha inoltre sottolineato che, al fine di risolvere la crisi, è assai necessario che il processo debba essere democratico, con le potenze emergenti partecipanti al processo decisionale. La dichiarazione, al termine, della riunione diceva: “I leader hanno convenuto che la crisi del debito sovrano della zona euro, è una questione di seria preoccupazione per l’economia mondiale, e ha causato la nuova instabilità e volatilità dei mercati, dopo la crisi economica del 2008”, e sottolineava che i membri hanno convenuto che “l’unico modo per uscire da questa crisi, sia garantire una rapida crescita economica, in modo sostenibile ed equilibrato, globale.”
Oltre a queste manovre collettive, i membri del raggruppamento si sono fatti avanti anche individualmente, nel contribuire alla risoluzione della crisi. Le potenzialità di queste economie in rapida crescita, nella soluzione della crisi, non è minima, e questo è chiaramente riflesso dalle dichiarazioni dei leader del BRICS. Il ministro delle finanze indiano, Pranab Mukherjee, ha osservato che, “La nostra valutazione della situazione è lasciare che (la zona euro) effettui una valutazione credibile del problema della solvibilità, cercando di risolvere quei problemi e, poi, il finanziamento supplementare che potrebbe essere preso in considerazione.” Il Vice Presidente della Commissione della Pianificazione dell’India, Montek Singh Ahluwalia, ha osservato: “Finora non c’è una richiesta bilaterale. Ma siamo pronti ad aiutare. Non possiamo permetterci che la crisi si diffonda nel mondo.” Il Presidente russo, Dmitrij Medvedev, ha dichiarato a Cannes che la Russia è interessata ad aiutare i paesi in crisi. Come altri leader del BRICS, ha sottolineato “la necessità per il BRICS di elaborare una posizione comune”. Ha sottolineato, “dobbiamo contribuire a preservare una delle valute principali del mondo.” Aveva inoltre dichiarato, “Siamo tutti interessati a preservare l’euro, non solo gli europei, ma Federazione Russa, Cina e altri paesi.” La Russia ha anche riferito la decisione di offrire 10 miliardi dollari attraverso il Fondo monetario internazionale, che può essere aumentata ulteriormente, nei prossimi giorni. Allo stesso modo, la presidentessa brasiliana Rousseff, ha rivelato che il suo paese avrà un ruolo significativo nel mitigare la crisi della zona euro. Uno dei meccanismi per salvare i paesi della zona euro dalla crisi, è acquistare le obbligazioni del European Financial Stability Fund (EFSF). Ci sono prospettive che le potenze emergenti, tra cui il raggruppamento BRICS, compreranno questi bond, in modo che il capitale possa essere infuso nei mercati finanziari della regione. Come concordato dai leader della zona euro, la capacità EFSF può essere aumentata a 1.000 miliardi di euro. Già i paesi asiatici detengono il 40 per cento del debito EFSF, che si manifesta nella prodezza crescente dei paesi BRICS, in particolare della Cina, che è il più grande esportatore verso l’Unione europea.
Anche se ci sono apprensioni rispetto al futuro modus operandi nel processo di salvataggio, non vi è unanimità su quale organismo finanziario internazionale debba giocare il ruolo più importante, e che vi possa essere possibile un maggiore coinvolgimento del raggruppamento. Vi sono anche preoccupazioni per quanto riguarda cosa, esattamente, questi paesi otterranno in cambio dell’aiuto alla zona euro, per farla uscire dalla crisi. Il prossimo vertice del BRICS, che si terrà a Nuova Delhi nel marzo 2012, probabilmente rafforzerà ulteriormente il legame del gruppo, e aiuterà questi paesi a far evolvere le politiche comuni su varie questioni di importanza globale.
L’ascesa del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – l’ultimo si è unito al gruppo lo scorso anno) in un arco di tre anni dalla sua inaugurazione ufficiale, nella città russa di Ekaterinburg, nel 2008, è davvero fenomenale … Questi paesi non solo rappresentano i motori della crescita e del cambiamento dal ritmo rapido, ma rappresentano anche le aspirazioni crescenti delle potenze emergenti, e della loro importanza nel panorama globale. Il raggruppamento, la cui genesi era stata prevista in un rapporto nel 2003, ha influenzato la politica e l’economia globale in una miriade di modi. Ha rappresentato il cambiamento nell’equilibrio del potere. I membri, sia nelle deliberazioni al Consiglio di sicurezza dell’ONU, o nel G-20, o nei vertici importanti, come quello sul cambiamento climatico, hanno coordinato i loro sforzi per far emergere una sola voce. Sia nella crisi araba che nella crisi della finanza globale, il gruppo ha ampiamente coordinato le sue politiche. Il leader cinese Xie Xuren, aveva fatto eco al sentimento del raggruppamento al vertice dei G-20 a Horsham, nel 2009, quando aveva giustamente osservato che questi paesi domandavano un ‘equo e chiaro, compatibile e ordinato’ ordine mondiale. In questo summit era stato raggiunto un accordo per concedere ulteriori diritti di voto alle economie emergenti negli organismi globali, come il Fondo monetario internazionale, ma che non poteva prendere piede subito, a causa della susseguente crisi finanziaria globale. Il vertice del G20 a Seoul, lo scorso anno, aveva concordato lo spostamento del 6 per cento di quota nel Fondo Monetario Internazionale, alle economie emergenti. Con il passare dei mesi, il profilo del raggruppamento probabilmente crescerà ulteriormente. Con la crescente influenza di questi paesi nella scena mondiale, e con la loro voce crescente nei vari organismi mondiali, sarà una questione di tempo che l’ordine mondiale sia più rappresentativo.

La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation: www.strategic-culture.org.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Il significato della decisione sulla NPF del Pakistan

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Fonte: http://www.strategic-culture.org/pview/2011/11/08/the-meaning-of-pakistan-mfn-decision.html

La Russia dovrebbe sapere meglio di qualsiasi paese che superare la logica dei ‘muri contrapposti’ non è mai facile. Non solo richiede tempo, ma richiede un atto di fede. L’emendamento Jackson-Vanik del 1974, vive in eterno, nonostante la ‘non esistenza’ dell’URSS e delle sue restrizioni emigrazione ebraica, ora la sua abrogazione è solamente in funzione della politica negli Stati Uniti – e non della politica russa.

Naturalmente, l’emendamento Jackson-Vanik è un caso estremo di come il tempo si ferma, quando è palesemente evidente che una mentalità è diventata irrimediabilmente arcaica. Ma l’analogia aiuta a comprendere il significato della difficile decisione che il Pakistan ha preso quando ha accordato lo status di ‘nazione più favorita’ [NPF] all’India nelle relazioni commerciali. Ci sono voluti dieci anni e mezzo al Pakistan per ricambiare la decisione di NPF dell’India, nel 1996.
Sicuramente, la decisione del Pakistan è più complessa di ciò che gli USA ebbero bisogno per ripristinare i legami con la Russia post-sovietica. Gli Stati Uniti e l’URSS combatterono solo delle ‘guerre per procura’, mentre India e Pakistan hanno combattuto si guerre per procura che guerre vere, e le due parti si sono continuamente inflitte morte e distruzione a vicenda. Mentre gli Stati Uniti non hanno motivo di preservare paure manichee che le esportazioni russe possano sciamare sul suo mercato e, probabilmente indebolirne l’industria, le preoccupazioni del Pakistan sono reali. L’industria indiana sembra essere di gran lunga più grande di quella del Pakistan, e sta sempre più assumendo l’istinto assassino del mercato globale. Infine, mentre i ‘guerrieri freddi’ sono oggi una infima dozzina negli Stati Uniti, non hanno il colpo letale dei ‘jihadisti’ in Pakistan, che minacciano contro una qualsiasi decisione di NPF da Islamabad, fino a quando il Kashmir sarà ‘liberato’.
Così, in qualunque modo lo si guardi, il governo pakistano ha dimostrato una sua statualità nell’accordare lo status di NPF all’India. Come è potuto succedere? Il significato di ciò ha molto importanza per la sicurezza e la stabilità regionali.
In primo luogo, i fiori non appaiono dal nulla. In un certo senso, è una precoce fioritura, fuori stagione, di un alberello semplice – l’alberello del ‘dialogo’ tra i due paesi, che è ancora tenero e vulnerabile alle malattie.
Il processo del dialogo è iniziato originariamente sotto una persistente sollecitazione degli Stati Uniti, ma da allora ha lottato per affermarsi e apparentemente è sopravvissuto al freddo nel rapporto USA-Pakistan. Nel calcolo degli Stati Uniti, in origine, la normalizzazione India-Pakistan sarebbe andata di pari passo con la strategia globale dell’AfPak, creando così una sinergia. Ma alla fine, però, lo squilibrio è riapparso con il crollo virtuale della strategia AfPak degli Stati Uniti. Nonostante il sottile suggerimento degli Stati Uniti, negli ultimi mesi, a collaborare a una ‘mossa a tenaglia’ contro il Pakistan (al fine di salvare la moribonda strategia statunitense dell’AfPak), Delhi sembra aver deciso di proseguire il suo percorso, nel proprio interesse.
Forse, è solo la congenita indecisione e procrastinazione di Delhi, ma Islamabad ha scelto di apprezzare la ‘neutralità’ o l”autonomia strategica’ dell’India nei confronti dello stallo tra Stati Uniti e Pakistan. Un segno di ciò, si è avuto due settimane fa, quando un elicottero militare indiano con 3 alti ufficiali dell’esercito, allontanatosi dal confine per il maltempo, era entrato in profondità nel territorio pakistano nel super-sensibile settore Siachen, nel Kashmir; il GHQ a Rawalpindi aveva preso la decisione di consentire all’elicottero di ritornare nel giro di poche ore – un gesto raro (per entrambe le parti), nelle cronache del loro travagliato rapporto.
L’ultima decisione sullo status di NPF dà ulteriore conferma della volontà del Pakistan di continuare sulla traccia del dialogo con l’India, a prescindere dal freddo che si approfondisce nei legami tra Pakistan e Stati Uniti. Per amore della discussione, l’approccio pragmatico del Pakistan deriva da motivi complicati. Infatti, il Pakistan ha bisogno di concentrarsi risolutamente sulla risoluzione del confronto con gli Stati Uniti, e anche sulle questioni esistenziali poste dal finale di partita afghana: la Linea Durand, la questione del Pashtunistan, la ‘talebanizzazione’ della regione AfPak, piuttosto che distrarsi nelle scaramucce con l’India sull’Hindu Kush. Così, probabilmente, il Pakistan dovrebbe calibrare il suo atteggiamento generale verso l’India, e la decisione della NPF potrebbe essere una mossa intelligente per creare un ‘aria di intesa’ tra le élite indiane, in particolare le élite economiche più influenti.

Se lo desideri avrai le ali …
Ma in termini politici, si spinge l’India a fare altrettanto. La profonda ironia è che, nonostante il ‘deficit di democrazia’ in Pakistan, il processo del dialogo gode di ampio sostegno nell’opinione pubblica del Pakistan, mentre è visto con scetticismo diffuso da quella indiana. La leadership pakistana ha lanciato il guanto di sfida all’India, spingendola a fare qualcosa di ‘fattibile’, come la sua decisione di NPF, per portare avanti il processo di normalizzazione.
L’unica cosa sensata sarà quella di mettere in cantiere uno o due accordi eminentemente ‘fattibili’, ad esempio, Sir Creek o Siachen, su cui un accordo è possibile. Idealmente, l’accordo su uno o due questioni ‘fattibili’, potrebbe essere l’occasione per il primo ministro indiano, Manmohan Singh, di intraprendere un viaggio, a lungo atteso, in Pakistan. Cioè, se lo desideri avrai le ali.
Più precisamente, la decisione di NPF del Pakistan, solleva una questione profonda per quanto riguarda il tipo di rapporto a lungo termine, a cui i due paesi dovrebbero mirare. La decisione di NPF è in qualche modo un CdF [clima di fiducia]. La crescita delle relazioni commerciali e degli investimento, può creare un clima di fiducia in cui i due paesi avranno la presenza di spirito per affrontare i loro contrasti più difficili. Il Pakistan ha fatto un passo coraggioso, anche se un piccolo passo, verso l’integrazione con l’economia indiana. In un certo senso, il Pakistan non è contrario ad essere una ‘parte interessata’ nelle relazioni con l’India.
Nel frattempo, l’India preferisce concentrarsi sempre più sulla Cina quale principale sfida alla sicurezza nazionale e vorrebbe ‘alleggerire’ il suo problema col Pakistan, quale evento secondario. Ma, in realtà, le due sfide nella politica estera si intrecciano, e rimarranno tali nel futuro immaginabile, anche se, qualunque cosa faccia la Cina in Pakistan, sta diventando sempre meno ‘India-centrico’.
La parte più difficile sarà il ‘programma di modernizzazione’ massiccia per le forze armate dell’India, con la spesa di oltre 100 miliardi di dollari, nel breve termine. L’India prevede di aumentare le dimensioni del suo esercito di 1,1 milioni di effettivi, del 10 per cento. È in gran parte una risposta alle percezioni dell’India della minaccia dalla Cina. Ma non c’è dibattito pubblico in India nel clima intellettuale presente del paese, per quanto riguarda l’impatto della militarizzazione dell’economia politica dell’India, ma anche su come questa militarizzazione giocherebbe nella politica regionale.
Il cuore della questione è che oltre il problema del Kashmir è l”equilibrio strategico’ con l’India, che sta creando delle angosce nelle menti pakistane. Paradossalmente, questa angoscia impatta sul rapporto del Pakistan con gli Stati Uniti, anche, e indirettamente, sulla sua partecipazione nella ‘guerra al terrore’ in Afghanistan. Gli Stati Uniti, da parte loro, umiliano il Pakistan incessantemente per la sua ‘ambiguità’ sulla guerra in Afghanistan, mentre allo stesso tempo, non perdono una sola opportunità di far cassa nel bazar della armi dell’India.
Anche in mezzo all’attuale situazione di stallo nei rapporti con il Pakistan, mentre chiedono insistentemente al Pakistan di ‘spremere’ i suoi ‘asset strategici’, la rete Haqqani, gli USA assicurano l’ordine aziendale dall’India per altri sei C -17 Globemaster III, aereo da trasporto militare dal valore di miliardi di dollari, e il Pentagono ha mostrato disponibilità a lavorare con l’India sul suo futuristico aereo da combattimento stealth di ‘quinta generazione’. E tutto questo mentre lo Zio Sam è pronto e impaziente di poter mediare le dispute tra India e Pakistan.
In sintesi, la geopolitica della regione getta la sua ombra sul rapporto tra India e Pakistan, tanto quanto le loro dispute bilaterali e le loro differenze. Come spezzare questo circolo vizioso? Qui è dove una struttura per la sicurezza regionale, in cui l’India e il Pakistan convivono, avrebbe un grande scopo.
La Shanghai Cooperation Organization [SCO] è in una posizione unica per giocare un ruolo nella sicurezza regionale … Guardando avanti, la decisione di NPF del Pakistan, sarebbe in linea con i piani futuri della SCO per una zona di libero scambio, per il prossimo decennio. E coincide anche con l’adesione della Russia all’Organizzazione mondiale del commercio [OMC]. A sua volta, con l’adesione della Russia all’OMC, Mosca e Delhi possono insieme concludere un accordo globale di cooperazione economica, che è in attesa della firma. A dire il vero, la decisione della SCO, in questa circostanza, di ammettere l’India e il Pakistan come membri a pieno sarebbe la più tempestiva.

La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation. www.strategic-culture.org.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Netanyahu visto da Obama e Sarkozy

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A seguito di un errore tecnico dei servizi della Eliseo, alcuni minuti di conversazione tra i presidenti Barack Obama e Nicolas Sarkozy sono stati sentiti dai giornalisti che seguivano il G20. Secondo Dan Israel, che ha riferito l’incidente sul sito Arrêt sur Images, Obama ha dapprima criticato Sarkozy per non averlo avvertito che avrebbe votato a favore dell’adesione della Palestina presso l’UNESCO, mentre gli Stati Uniti erano fortemente contrari. La conversazione poi è scivolata su Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano. Sicuri di non essere ascoltati, i due presidenti si sono abbandonati. “Non riesco più a sopportarlo, è un bugiardo”, ha detto Sarkozy. “Sei stanco di lui, ma io devo farci conti ogni giorno!” ha risposto Obama, che ha poi chiesto a Sarkozy di cercare di convincere i palestinesi a rallentare sulla loro domanda di adesione alle Nazioni Unite. Traduzione di Alessandro Lattanzio http://sitoaurora.altervista.org/home.htm http://aurorasito.wordpress.com

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Nel 1978 l’imam Moussa Sadr è stato vittima di Muammar Gheddafi

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L’ex confidente di Muammar Gheddafi, Ahmad Ramadan al-Asaibie, ha rilasciato un’intervista al giornalista Moussa Jenan, trasmessa l’8 Novembre 2011, dalla TV Al-Aan degli Emirati Arabi Uniti.

Negli anni ’80, il colonnello Ahmad Ramadan al-Asaibie coordinava le forze pro-libiche in Ciad. Poi ha comandato la Guardia Rivoluzionaria Libia. Negli anni ’90, divenne direttore dell’Ufficio informazioni della “Guida”.

Dice di aver assistito all’arrivo presso il quartier generale di Muammar Gheddafi dell’Imam Sadr e dei suoi compagni, lo sceicco Mohammed Yacoub e il giornalista Abbas Bader al-Din. Dopo l’incontro, il colonnello Gheddafi avrebbe ordinato di portarli via. Sarebbero partiti con il ministro degli esteri Taha al-Sherif Bin Amer (che morirà poco dopo, in un incidente di elicottero), il generale Fraj Abu Ghalia capo dell’intelligence e il generale Bashir Humeida capo dell’amministrazione presidenziale. I tre libici avrebbero quindi eliminato i tre libanesi.

L’Imam Moussa Sadr era un leader iraniano-libanese, teologo sciita della liberazione. Apostolo dei poveri, si oppose al sistema confessionale libanese e predicò la rivoluzione sociale. Nel 1975 ha fondato il partito Amal (Speranza).

Fautore del dialogo interreligioso, aveva rappresentato gli sciiti all’intronizzazione di Papa Paolo VI, e predicò la quaresima nella Cattedrale Cattolica St. Luigi di Beirut.
Non riconoscendo che Israele come nemico, si rifiutò di impegnare le armi dei suoi sostenitori nella guerra civile libanese, che aveva interpretato come un piano esterno per la divisione settaria del paese.

Dopo l’invasione israeliana del marzo 1978, aveva intrapreso un tour delle capitali arabe per chiedere aiuto. Alla fine di agosto, si recò in Libia e scomparve. La sua assenza aveva incoraggiato l’attuazione del Piano Kissinger per la guerra civile in Libano e aveva impedito la creazione di un asse rivoluzionario sciita, quando l’imam Ruhollah Khomeini fu autorizzato sei mesi dopo ad andare in Iran.

La Libia ha sempre negato ogni responsabilità per la scomparsa di Imam Sadr e dei suoi compagni. Tuttavia, un mandato di cattura internazionale contro Muammar Gheddafi è stato emesso dalla giustizia libanese nel 2008 e inviato all’Interpol. Il procuratore generale del Libano aveva chiesto la pena di morte contro la “Guida” libica per l’assassinio.

La testimonianza del colonnello Ahmad Ramadan al-Asaibie lascia aperta la questione del movente dell’omicidio e dell’identità del suo mandante.

 

«Le procureur général du Liban requiert la peine de mort contre Mouammar Kadhafi» (http://www.voltairenet.org/article157943.html ), Réseau Voltaire, 1 settembre 2008.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Forze alleate erano presenti in Libia da metà febbraio

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Réseau Voltaire

 

 

Secondo Nathalie Guibert su Le Monde, gli stati maggiori francese e britannico hanno negoziato la divisione delle acque libiche tra i loro sottomarini, un mese prima dell’intervento della NATO, ovvero all’inizio dei moti a Bengasi.

Il quotidiano afferma, inoltre, che quattro sottomarini d’attacco nucleare (SNA) furono dispiegati al largo delle coste della Libia durante l’Operazione “Unified Protector“. Uno di loro avrebbe operato missioni di intelligence dalla fine di febbraio.

Queste informazioni corroborano in parte ciò che Réseau Voltaire ha potuto constatare sul teatro delle operazioni: le forze regolari francesi e britanniche, ma anche forze italiane e irregolari saudite erano state dispiegati dal 17 febbraio 2011. Non reagivano al massacro del 15 febbraio [1] (durante la manifestazione di nasseriani e marxisti per una costituzione), ma hanno accompagnato la manifestazione del 17 febbraio (quella dei Senussi contro le vignette su Maometto) [2].

 

«Le rôle discret des sous-marins français dans les opérations en Libye»,  Nathalie Guibert, Le Monde, 8 novembre 2011.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Ascesa e declino strategico degli Stati Uniti

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Secondo Noam Chomsky le brame egemoniche covate dagli Stati Uniti rispetto all’instaurazione di un sistema economico mondiale imperniato sulla centralità di Washington non risalirebbero alla fine della Seconda Guerra Mondiale – che sancì di fatto l’inizio della Guerra Fredda – ma al 1917, data in cui l’avvento dei bolscevichi al potere in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre decretò la formazione di una pericolosa minaccia rispetto alla coesione sociale dei paesi capitalisti.
La maturazione delle condizioni necessarie che permettessero alle imprese statunitensi di conquistare e dominare i mercati mondiali passava quindi per la disintegrazione della minaccia comunista, nell’ambito di un conflitto che si configurò fin dai primi istanti come una contrapposizione frontale nord – sud.
Un indispensabile stadio preliminare da raggiungere in vista della produzione degli anticorpi necessari a minare la diffusione dell’epidemia bolscevica era rappresentato tuttavia dall’acquisizione, da parte degli Stati Uniti, della posizione dominante rispetto ai propri avversari tattici (cioè a breve termine) britannici, la cui potenza politica ed economica si estendeva su larga parte del pianeta.
I finanziamenti che Washington, sotto l’egida dell’idealista Woodrow Wilson, accordò alla Gran Bretagna nel corso della Prima Guerra Mondiale non vennero concessi a fondo perduto, ma contenevano la non troppo implicita pretesa che Londra, per estinguere il debito contratto, restringesse il proprio campo d’influenza smantellando le proprie basi militari dalle isole dell’Atlantico (Giamaica, Bahamas, ecc.) e aprisse il controllo, monopolizzato fino ad allora da Londra, dei commerci internazionali alla penetrazione degli strateghi del capitale statunitensi.
La strategia statunitense si dispiegò però su più piani, da un lato attraverso l’estensione della propria influenza economico – militare all’Africa occidentale, all’Asia meridionale e al Golfo Persico, dall’altro per mezzo della sottomissione definitiva dei propri alleati europei sancita a Jalta, unitamente alla suddivisione del pianeta tra USA ed URSS.
Nonostante la maggior parte degli economisti ritenesse che il passaggio dal keynesismo di guerra adottato da Franklin Delano Roosevelt ad un economia riconvertita e adattata al tempo di pace avrebbe condotto il sistema produttivo del paese ad una crisi affine (se non peggiore) a quella del 1929, gli Stati Uniti seppero sfruttare il successo maturato al termine della Seconda Guerra Mondiale per scongiurare questo rischio.
L’espansione dell’influenza statunitense all’Europa e al Giappone garantita dalla propria soverchiante capacità militare e i colossali investimenti contestuali al Piano Marshall escogitato (ufficialmente) per ricostruire i paesi sconfitti gettarono infatti le basi per la formazione del sistema economico mondiale tanto agognato dai comparti decisionali americani, che a quel punto poterono concentrare i propri sforzi esclusivamente sull’opposizione totale (muro contro muro) all’Unione Sovietica.
Il Cremlino intendeva principalmente brandire la spada dai paesi vessati e dissanguati dal colonialismo europeo, così come fece Lenin in occasione del congresso di Baku del 1920, quando aveva astutamente scelto di convocare i rappresentanti dei “popoli oppressi” affinché confluissero in massa nell’orbita sovietica.
Onde evitare che le strategie ordite da Mosca sortissero tali effetti, Washington effettuò le proprie contromosse attraverso il Segretario di Stato Dean Acheson, il quale sostenne apertamente le rivendicazioni indipendentiste provenienti dalle colonie invitando i propri alleati europei ad abbandonare l’anacronistica politica coloniale e a riconoscere ai propri protettorati il diritto all’autodeterminazione.
Tuttavia, Gran Bretagna e Francia, assai restie a seguire tali indicazioni, giunsero a coalizzarsi assieme ad Israele per assestare un duro colpo all’incontrollabile colonnello egiziano Giamal Nasser – che aveva avuto l’impudenza di nazionalizzare il Canale di Suez – onde ridimensionare gli aneliti indipendentisti delle colonie e riallineare definitivamente l’intera area nordafricana sull’asse Londra – Parigi.
Nei giorni a cavallo tra ottobre e novembre del 1956, la coalizione anglofrancese condusse in porto l’operazione militare, ma commise un clamoroso autoaffondamento internazionale, poiché l’ONU condannò l’aggressione, i paesi del Commonwealth espressero la propria aperta contrarietà, l’Unione Sovietica minacciò pesanti ritorsioni e, soprattutto, il Presidente statunitense Dwight Eisenhower scelse di passare alle maniere forti disponendo che il Ministero del Tesoro vendesse sterline alla Borsa di New York.
Sul piano economico, il quadro della situazione fu ben delineato da Francois Perroux, il quale scrisse che “Nella pratica le concezioni del liberalismo si scontrano con la realtà economica, nella quale esiste la già formata ‘disomogeneità delle strutture’, ed a causa di tale disuguaglianza le nazioni più potenti e forti mirano ad assicurare per se stesse il massimo vantaggio economico a scapito delle restanti altre”.
In altre parole gli Stati Uniti sfruttarono tale “disomogeneità di strutture” per avvalersi del proprio poderoso complesso finanziario allo scopo di sostituirsi alla Gran Bretagna in qualità di polo geoeconomico capace di proiettare il proprio sistema produttivo su un’ampia porzione di pianeta e della presenza di un potente contraltare come l’Unione Sovietica per trovare la legittimazione concettuale ed ideologica necessaria per ergersi a centro geopolitico di riferimento dell’intero blocco europeo – occidentale.
Il costrutto ideologico rappresentato dall’ombrello protettivo statunitense relativo al parossisticamente agitato spauracchio sovietico funse da ipoteca alla subordinazione europea ed estremo – orientale al sistema politico, economico e culturale propugnato dagli Stati Uniti.
La Commissione Trilaterale nacque proprio con lo specifico obiettivo di ottimizzare tale processo, ripartendo in tre zone – America del Nord, Estremo Oriente/Pacifico ed Europa – lo spazio economico dominato dagli stati Uniti nell’ambito di una strategia di accerchiamento dell’Heartland e di isolamento dell’Unione Sovietica.
Il fatto stesso che la Commissione Trilaterale scaturì dai marchingegni strategici escogitati dagli influentissimi David Rockefeller e Zbigniew Brzezinski (entrambi membri del Foreign Office Council) conferisce alla stessa una particolare, straordinaria rilevanza.
In quel pensatoio (think tank) maturò l’idea di capitalizzare al massimo la “disomogeneità” del polo geopolitico e geoeconomico statunitense attraverso l’omologazione economica delle aree “laterali” estremo – asiatica ed europea grazie all’introduzione di specifiche valute transnazionali (euro e yen orientale) in grado di favorire l’integrazione delle due macroregioni nei meccanismi economico – finanziari necessari a puntellare la supremazia degli Stati Uniti e del dollaro come moneta di riserva internazionale.
La strategia escogitata da tale pensatoio mirava all’indebolimento graduale ma inesorabile dell’assetto socialista in base al quale era strutturata l’Unione Sovietica in vista di una sua definitiva integrazione nel modello “trilateralista” capace di favorire l’estensione del verbo atlantista attraverso l’inserimento dello stesso nel contesto dei processi di mondializzazione.
Tuttavia, il declino dell’Unione Sovietica, dovuta a una numerosa serie di convergenze, accelerò notevolmente i tempi previsti da Rockefeller, Brzezisnki e i loro colleghi “trilateralisti”.
La svalutazione del rublo legata alla disastrosa opera di ristrutturazione economica (perestroijka) promossa da Mikhail Gorbaciov e proseguita dal suo successore ed ex braccio destro Boris El’cin favorì l’aggancio dell’economia russa ai meccanismi dominati dal dollaro e la penetrazione della grande finanza angloamericana – attraverso i ben noti “oligarchi” – nei settori strategici russi in via di liquidazione per mezzo della “shock therapy” promossa dall’economista friedmaniano (e quindi ultraliberista) Jeffrey Sachs.
La voragine apertasi con il crollo dell’Unione Sovietica fece deflagrare la logica bipolare che costituiva la struttura portante della Guerra Fredda, sulla base della quale erano state orchestrate tutte le precedenti strategie politiche ed economiche.
L’unipolarismo statunitense appena instauratosi dovette fare i conti con una situazione inedita, dalle prospettive ignote e dalle innumerevoli incognite che rendevano estremamente arduo il compito di escogitare nuove, efficaci strategie al passo coi tempi.
Il fatto che l’Unione Europea e il consolidamento dello “zollverein” (l’unione doganale tedesca caldeggiata da Friedrich List) estremo – orientale, le cui istituzioni erano state sollecitate dai “trilateralisti” in funzione anti – sovietica e non post – sovietica, presero forma nel momento in cui il “comunismo reale” cessò di esistere, scompaginò notevolmente le strategie statunitensi perché conferì alla coalizione del Vecchio Continente e dell’Asia orientale (ancora in via di formazione) lo status di nuovi attori geopolitici concorrenziali e assegnò (specialmente) alla moneta europea il pericoloso ruolo effettivo di rivale del dollaro.
Le scosse telluriche provocate dal ridisegnamento della carta geografica eurasiatica non erano state previste dai “trilateralisti”, oltre che dai pianificatori del Pentagono e della Casa Bianca.
Il direttore della CIA William Webster fu però tra i primi (e pochi) a cogliere l’entità di tale pericolo, ammonendo che “Gli alleati politici e militari dell’America sono ora i suoi rivali economici”, annunciando di fatto l’imminente scatenamento della guerra commerciale statunitense contro l’Europa, condotta a suon di colpi bassi (come l’imposizione unilaterale e ingiustificabile dei dazi sulle importazione dell’acciaio europeo) e con il chiaro intento di riaffermare il predominio statunitense.
In altre parole, il ruolo del dollaro come garante della supremazia geopolitica statunitense perse definitivamente la propria inattaccabilità.
L’ascesa al potere di Vladimir Putin irruppe in tale contesto, rovesciando letteralmente l’inerzia innescata da Gorbaciov ed El’cin e restituendo alla Russia un ruolo determinante nell’affermazione dei rapporti di forza internazionali.
Sull’onda di tale sconvolgimento (secondo l’analista Aymeric Chauprade, l’ascesa di Putin conterrebbe una potenzialità destabilizzante rispetto agli equilibri mondiali superiore all’11 settembre 2001), alcuni soggetti regionali come l’Iran valutarono l’ipotesi di formare un’apposita Borsa del petrolio, indicizzata all’euro, alternativa a quelle di Londra e New York.
Saddam Hussein convertì il proprio fondo “oil for food” da dollari in euro accettando soltanto la moneta europea per la compravendita del petrolio iracheno (incorrendo nel ben noto trattamento).
Hugo Chavez auspicò pubblicamente il classico effetto domino che avrebbe scalzato il dollaro dalla posizione dominante di moneta di riferimento, cosa che avrebbe sortito pesantissime ripercussioni sull’arrancante economia statunitense.
In definitiva, la Commissione Trilaterale, sorta con lo scopo specifico di dissestare gradualmente il contraltare sovietico allo scopo di integrarlo nei rodati meccanismi atlantisti e la contestuale scelta, operata dai “trilateralisti”, relativa al rafforzamento delle appendici occidentali (Unione Europea) ed orientali (zona estremo – asiatica) all’heartland scaturì dall’esigenza di incrementare il coefficiente eversivo di tale disegno strategico, ma la repentina, brusca ed inaspettata caduta dell’Unione Sovietica privò gli Stati Uniti del consolidato nemico “perfetto”, cui andarono a sostituirsi nuove, inaspettate e non contemplate minacce geopolitiche.
L’ascesa dell’Unione Europea e della relativa (seppur differente, minore ed in via di consolidamento) emulazione asiatica, accompagnate dall’adozione di una moneta forte come l’euro, ridimensionarono di fatto il ruolo centrale degli Stati Uniti, la cui economia si regge sull’assunto illustrato da Perroux relativamente alla “disomogeneità delle strutture” nel contesto della redistribuzione del lavoro a livello mondiale (globalizzato).
La riconversione dell’economia statunitense in funzione del suo adeguamento alle nuove necessità dell’epoca post – sovietica presentò fin dall’inizio difficoltà sotto molti aspetti insormontabili e conteneva incognite pesantissime, capaci di sortire serie ripercussioni sugli equilibri internazionali.
Il processo forsennato di finanziarizzazione dell’economia sull’onda del dogma rappresentato dalla “new economy” ha creato nuovi pescecani della finanza considerati da molti superficiali (ed economicisti) osservatori i veri regolatori della politica internazionale laddove, in realtà, il loro ruolo è limitato alla mera applicazione pratica delle strategie escogitate dai reali strateghi del capitale, titolari delle più alte cariche onorifiche nell’ambito dei vertici “trilateralisti” e delle riunioni del Bilderberg (i già citati Rockefeller e Brzezinski, Soros, ecc.).
Il sorgere di nuovi attori geopolitici contestuale al fallimento delle previsioni “trilateraliste” (e “bilderberghiane”) ha minato le capacità persuasive statunitensi, costringendo i comparti decisionali del Pentagono e della Casa Bianca ad abbandonare le “strategie del serpente” per far regolarmente ricorso alla forza bruta, gettando di fatto la spada sul piatto della bilancia (come è accaduto in Libia) nell’estremo tentativo (di Sisifo) di arrestare o quantomeno contenere la prorompente espansione dell’ascendente colosso cinese e di fare della forza l’unico fattore garante della supremazia del dollaro, in assenza della quale crollerebbe l’intero sistema imperiale (o meglio imperialistico) statunitense.
Il sorgere di una nuova entità asiatica – di cui la Russia è chiamata a svolgere il ruolo cruciale – capace di escogitare nuove strategie finalizzate all’integrazione dell’Europa, rappresenterebbe quindi la principale minaccia (mortale) rispetto al sistema unipolare dominato dagli Stati Uniti.
Su questo Zbigniew Brzezinski ha sempre avuto ragione.
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L’ambasciatore Ivo H. Daalder precisa le condizioni d’intervento della NATO in Siria

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http://www.voltairenet.org/L-ambassadeur-Ivo-H-Daalder

 

L’Ambasciatore degli USA alla NATO, Ivo H. Daalder, ha tratto la lezione dal precedente libico davanti al Consiglio Atlantico, il 7 novembre 2011. Nella discussione che ne è seguita, la prima domanda è stata su un possibile intervento in Siria. L’ambasciatore ha allora posto tre condizioni per raggiungere questo obiettivo:

– una urgente necessità (in Libia, l’opinione pubblica internazionale era convinta che Gheddafi stava per radere Bengasi);

– un sostegno regionale (il Gulf Cooperation Council è stata la prima organizzazione intergovernativa a sostenere l’intervento militare. Aveva subito ottenuto il sostegno della Lega Araba.);

– un mandato internazionale (per ora gli Stati del BRICS, tra cui Russia e Cina in possesso del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, vi si oppongono).

Al contrario, da questa risposta si può dedurre strategia degli Stati Uniti:

– accusare Bashar Assad di voler radere al suolo Homs;

– ottenere il sostegno del CGG e della Lega araba;

– esercitare pressioni sulla Russia e la Cina.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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5000 soldati qatarioti hanno partecipato alla colonizzazione della Libia

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L’Ambasciatore degli USA alla NATO, Ivo H. Daalder, ha tratto la lezione dal precedente libico davanti al Consiglio Atlantico, il 7 novembre 2011. Nella discussione che ne è seguita, la prima domanda è stata su un possibile intervento in Siria. L’ambasciatore ha allora posto tre condizioni per raggiungere questo obiettivo:

– una urgente necessità (in Libia, l’opinione pubblica internazionale era convinta che Gheddafi stava per radere Bengasi);

– un sostegno regionale (il Gulf Cooperation Council è stata la prima organizzazione intergovernativa a sostenere l’intervento militare. Aveva subito ottenuto il sostegno della Lega Araba.);

– un mandato internazionale (per ora gli Stati del BRICS, tra cui Russia e Cina in possesso del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, vi si oppongono).

Al contrario, da questa risposta si può dedurre strategia degli Stati Uniti:

– accusare Bashar Assad di voler radere al suolo Homs;

– ottenere il sostegno del CGG e della Lega araba;

– esercitare pressioni sulla Russia e la Cina.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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