Quantcast
Channel: Cristina Kirchner – Pagina 148 – eurasia-rivista.org
Viewing all 153 articles
Browse latest View live

La Costituzione italiana e le sfide internazionali: intervista a Paolo Maddalena

$
0
0

In occasione dell’uscita del numero XXIII (2-2011) di “Eurasia”, dedicato a Geopolitica e costituzioni, il nostro redattore Antonio Grego ha incontrato il prof. Paolo Maddalena, giurista e magistrato, vice-presidente emerito della Corte Costituzionale. Con lui si è discusso della condizione della Costituzione italiana alla luce delle incalzanti sfide geopolitiche e della Costituzione europea.

L’intervista è stata raccolta a margine del seminario scientifico internazionale “Aspetti giuridici del BRICS”, svoltosi a San Pietroburgo (Russia) l’8-9 settembre scorsi.

 

A.G. – La Costituzione della Repubblica italiana è un testo in vigore dal 1948 che è il risultato del compromesso tra le forze politiche uscite vincitrici dalla guerra civile e, dal punto di vista internazionale, è stata partorita dalla contrapposizione ideologica tra “mondo libero” e regimi totalitari e dalla Guerra fredda che allora si profilava all’orizzonte tra il blocco occidentale e l’Urss. Dal suo punto di vista, la Costituzione italiana è oggi ancora attuale o necessita di una revisione e aggiornamento?

 

P.M. – La Costituzione italiana ha sessanta anni, ma se li porta bene, è stata ben pensata e non ha bisogno di modifiche, tranne modifiche tecniche alla seconda parte. La prima parte è tutta dedicata ai diritti dell’uomo, alla tutela dei diritti fondamentali, mentre la seconda parte è dedicata all’organizzazione dello Stato. La prima parte non si deve toccare e rappresenta un modello per tutte le costituzioni. La Costituzione italiana concepisce un modello di Stato sociale di diritto e questo è il frutto della fusione delle varie anime che hanno partecipato alla sua realizzazione. Nella seconda parte appunto si concepisce lo stato sociale di diritto, la prima parte invece riguarda i diritti fondamentali con questa precisazione: lo Stato, l’ordinamento giuridico, non crea i diritti fondamentali, come il diritto positivo, ma li presuppone e quindi li riconosce e li garantisce. I diritti propri dell’uomo sono riconosciuti e garantiti, questa è la sua grandiosità ed è su questo principio, ovvero il riconoscimento di diritti preesistenti all’ordinamento giuridico, che si trovarono d’accordo su un ordine del giorno presentato da Dossetti nel settembre del 1946 tutte le forze politiche: democristiani, liberali e comunisti, che erano le tre forze che si confrontavano all’epoca. La Costituzione è il frutto non di un contemperamento di interessi, ma è la fusione ideologica di queste tre forze che hanno creato un tutt’uno inscindibile che si può riassumere nei principi di libertà, eguaglianza, solidarietà propri della Rivoluzione Francese. Questi principi non vanno, però, intesi in senso individuale come veniva interpretato dalla rivoluzione borghese ma in senso sociale. Se si considerano in senso sociale questi sono i principi di riferimento della Costituzione, nella quale avviene la convergenza su questi tre principi dei liberali sulla libertà, dei socialisti e comunisti sull’eguaglianza, dei democristiani sulla solidarietà e fratellanza. Quindi nella Costituzione c’è la fusione di questi tre concetti, che già erano uniti perché sono concetti legati fra di loro: non ci può essere libertà senza eguaglianza e senza solidarietà.

 

A.G. – La presente situazione internazionale e la crescente integrazione continentale pongono delle nuove sfide alla Costituzione per quanto riguarda il rispetto da parte dell’Italia dei trattati internazionali: da questo punto di vista servono degli adeguamenti alla Costituzione?

 

P.M. – È già stata adeguata: il titolo quinto della Costituzione è stato adeguato nel senso che è obbligo dello Stato italiano riconoscere e garantire l’esecuzione dei trattati internazionali, quindi ci troviamo nei confronti degli Stati esteri in una duplice posizione. Nei confronti dell’Unione Europea abbiamo limitato la nostra sovranità, per cui il diritto dell’UE si immette direttamente nell’ordinamento giuridico italiano e va immediatamente applicato, sia attraverso i regolamenti sia attraverso le direttive se sono complete. Per quanto riguarda i trattati internazionali, come per esempio quelli della Convenzione CEE sui diritti dell’uomo, quelli sono considerati norme interposte nell’obbligo sancito dall’articolo 117 di adeguarsi ai trattati internazionali. La Costituzione impone di adeguarci ai trattati internazionali, i quali assumono il rango di norme interposte; così è, ad esempio, il caso della Convenzione dei diritti dell’uomo, e la Corte Costituzionale ha il compito di esaminare la costituzionalità delle norme interposte. Quindi la Costituzione è già pronta per le sfide del futuro. Anzi, pensando al tema del seminario, ho avvertito proprio questo: che lo spirito della Costituzione coincide perfettamente con lo spirito del BRICS e del multipolarismo.

 

A.G. – La Costituzione Europea secondo lei su quali basi si dovrebbe fondare?

 

P.M. – Adesso noi abbiamo una costituzione dove l’organo legislativo è formato dagli Stati che fanno parte della Commissione, una vera costituzione dovrebbe trasferire il potere normativo che adesso è distribuito tra parlamento e Commissione, nel parlamento, nei rappresentanti del popolo europeo: allora si potrebbe parlare effettivamente di una costituzione europea. Adesso è una costituzione dettata dagli Stati nell’ambito delle loro sovranità, quindi è più un trattato che una costituzione. Sarà una costituzione europea quando i popoli si riuniranno in un parlamento europeo con potere legislativo; volendo si può anche pensare una struttura federale dove gli Stati conservino alcune prerogative. Il problema è questo: nel caso del BRICS abbiamo la cooperazione soltanto, nell’ambito dell’UE abbiamo la cooperazione e l’integrazione; integrazione significa diventare parte. Su alcuni argomenti già siamo parte perché abbiamo ceduto la nostra sovranità; quando noi definiremo quali sono le competenze proprie del parlamento federale e le competenze proprie dei singoli Stati, allora avremo creato l’unità europea.


Guerra di Libia, guerra d’Africa

$
0
0

Il conflitto in Libia ripropone sulla scena internazionale l’importanza di un quadrante geopolitico, quale quello nordafricano, di per sé non scindibile dalle dinamiche che attengono ai delicati equilibri internazionali. Eppure, esso non è solo parte delle fibrillazioni in atto sulle sponde del Mediterraneo e nella vasta area arabo-mussulmana fino al Golfo Persico.

La guerra di Libia è un’altra guerra d’Africa. Geograficamente, ma ancor di più strategicamente.

La Libia non solo come tassello del mondo arabo, ma come pedina importante negli assetti del Continente Nero. La valenza del confronto bellico non è più misurabile esclusivamente sulla base delle relazioni intercorrenti sull’asse Sud-Sud del Mediterraneo, delle connessioni storiche e politiche che concernono le vicende post-coloniali tra il Nord Africa e i Paesi europei, USA ed Israele. Ciò perché è mutato il contesto internazionale, ma anche in ragione del riposizionamento geopolitico, occorso da più di un decennio, della Libia stessa.

Il Colonnello Muammar Gheddafi, nella sua lunga parabola al potere – tra successi ed insuccessi, errori e fallimenti – ha condotto una politica estera regionale essenzialmente identificabile in maniera duale, cioè araba ed africana. Il nesso di questa doppia identità risiede nel forte carattere anticolonialista e antioccidentale (ma non per questo esule da pragmatici ed opportunistici compromessi e cambi di direzione) che ha senza dubbio segnato la storia personale del leader libico nonché quella delle numerose realtà sotto tale profilo affini a quella libica.

Dalla presa del comando in quell’ormai lontano 1969, Gheddafi ha innanzitutto marcato notevolmente la proiezione esterna della Libia in senso interarabo, attraverso reiterati tentativi di saldare aspirazioni – lungo una linea di rivendicazioni, di idealità e di progetti – che avevano del resto animato gran parte delle classi dirigenti arabe.

Pur nella sua specificità politico-religiosa, il Colonnello per un tempo ha incarnato l’obiettivo nasseriano dell’unificazione della grande patria araba dall’Atlantico al Golfo Persico, della restituzione ai palestinesi della propria terra e, in più, del riscatto africano dall’opprimente fantasma del colonialismo. Ma l’attivismo libico è stato velleitario al pari di quello degli altri Paesi arabi, incapaci di strutturare una realtà politica che materializzasse effettivamente principi ed obiettivi dell’unità e del socialismo panarabi. E’ stato un susseguirsi di accordi in larga parte infruttuosi, raggiunti a più riprese e separatamente in forma bilaterale o trilaterale, tra Libia ed Egitto, Siria, Sudan, Ciad, Tunisia, Algeria, Marocco, fino all’ultimo vano tentativo, nel 1989, dell’Unione del Maghreb.

Preso atto del fallimento di una vasta prospettiva araba e dell’indebolimento della leadership libica, il Rais saprà però cogliere progressivamente l’importanza del passaggio epocale segnato dalla caduta del Muro e dalla fine dell’Unione sovietica.

Intento a rimodellare il suo raggio d’azione, Gheddafi rivedrà, da un lato, le relazioni con i Paesi occidentali e ricollocherà, dall’altro, geopoliticamente la Libia, questa volta ponendo in primo piano il continente africano, con un conseguente ridimensionamento dell’opzione politico-ideologica interaraba.

Possono distinguersi due fasi della politica africana della Libia.

La prima, dal 1969 al 1989, è imperniata su tre fattori quali la politica anticolonialista, il contrasto all’apartheid ed il sostegno (comunque circoscritto) alla diffusione dell’Islam. A questi si aggiungono tre caratteristiche identificabili nel tentativo di contenimento dell’influenza israeliana (in specie nel fascia sub-sahariana); nella composizione di un impianto ideologico in senso sia anticapitalista che anticomunista; nella possibilità di un avvicinamento tattico ai sovietici, considerati gli obiettivi di quest’ultimi nel continente.

Gheddafi in questo periodo si inserirà in contrasti locali e lotte di liberazione nel tentativo di destabilizzare regimi legati all’emisfero politico occidentale. Condizionamento e pressione esercitati grazie anche alla leva economico-finanziaria, in virtù delle ingenti risorse maturate dalla vendita del petrolio che hanno consentito sostanziosi accordi bilaterali e multilaterali, tali da determinare un rilevante peso specifico libico nei settori dell’industria e del commercio.

La seconda fase segna il nuovo corso africano della Libia. E’ quello che si inaugura alla luce di quattro fattori preponderanti quali il dissolvimento del blocco sovietico, l’ascesa dell’islamismo radicale, la fine dell’economia pianificata (nonché una revisione del ruolo dei “rentier state”), la nuova importanza strategica dell’Africa dopo l’11 settembre.

In siffatto contesto, il Colonnello immagina la “via africana” come strumento di allargamento della sfera di influenza, nuova fonte di legittimazione, valido mercato di sbocco e fertile terreno di penetrazione economica. Tre sono sostanzialmente i canali geoeconomici libici: società commerciali, prestiti e fondi sovrani. Di assoluta rilevanza è la Lybian Investment Authority (LIA), il fondo sovrano (che include le partecipazioni di almeno 31 Paesi africani) intorno al quale ruotano la Lybian Arab Foreign Bank (LAFB), la Lybian Arab African Investment Company (LAAICO), la Lybian Arab Foreign Investment Company (LAFICO).

Una fitta rete di investimenti e di partecipazioni nei settori finanziario e industriale lega la Libia a numerosi Paesi. Ciad, Gabon, Guinea Bissau, Kenya, Mali, Niger, Repubblica Centrafricana, Rwanda, Sudafrica, Sudan, Uganda, Zimbabwe sono le pedine di una strategia degli affari inevitabilmente foriera di risvolti politici. In tal senso, la stessa Unione Africana (Ua) è stata negli ultimi anni un soggetto cui Gheddafi in primis ha cercato di conferire un peso ed una valenza che consentissero al Continente Nero di mostrarsi un attore assertivo e in grado di fronteggiare i mutamenti in corso e le nuove contese di cui è oggetto.

 

* Alfredo Musto è ricercatore presso l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

 

Eredità sovietica e prospettive in chiaroscuro

$
0
0

Si avvicinano le elezioni presidenziali del 2012 e il clima politico in Russia entra nella sua fase più intensa. L’annuncio della nuova candidatura di Vladimir Putin ha messo in evidenza due fattori: la necessità di risolvere il malcontento sociale spaventosamente aumentato dopo il 2008 e la sostanziale subalternità di Dimitrij Medvedev rispetto a Putin. Quest’ultimo fattore impone, tuttavia, una marcata revisione di tutte le tesi che vedevano nella dualità al potere una dicotomia inconciliabile, praticamente agli antipodi, tanto che Medvedev resta dunque sottoposto alla volontà del leader di Russia Unita. Le dichiarazioni e le indiscrezioni degli analisti lasciano trapelare che le intenzioni siano quelle di garantire una salda presenza al potere almeno sino al 2018, mentre i più smaliziati giungono addirittura a fissare il termine ultimo nel 2036 (1). Emergono almeno due interrogativi: la stabilità politica ed istituzionale garantirà anche la stabilità sociale? In che misura l’eterogeneità di un partito personalistico e d’emergenza, come Russia Unita, potrebbe rappresentare un ostacolo sul cammino della definitiva rinascita geopolitica della Russia nello scacchiere internazionale?

 

La fiction della globalizzazione

Appare scontato che gli equilibri politici della nazione più grande al mondo per estensione territoriale, non possano essere relegati alla mera dimensione interna. Questi vanno infatti a coinvolgere una serie di fondamentali aspetti della politica internazionale, ad iniziare dai delicati rapporti di forza stabilitisi nel difficile quadro della fase unipolare, originariamente pensata – da autori come Francis Fukuyama – quale l’inizio di un supposto compimento dello sviluppo filosofico, politico ed economico, ormai destinato alla cristallizzazione storica nella presente formazione sociale capitalistica occidentale a carattere liberaldemocratico, imposta dalle dinamiche economiche e sociali dell’era post-fordiana e dell’accumulazione flessibile (2) e da un’espansione dei mercati finanziari presentata come risultante di un processo deterministico ridefinito alla metà degli anni Novanta col nome, invero ambiguo, di globalizzazione. Le conseguenze più immediate della fine dell’era bipolare furono invece l’intensificazione della conflittualità globale, l’incremento del numero degli Stati indipendenti riconosciuti a livello internazionale e la conseguente frammentazione del pianeta (3). Il primo effetto trasversale del collasso sovietico si tradusse nell’oggettiva difficoltà incontrata dai centri decisionali degli Stati Uniti nell’opera di gestione di una fase di destabilizzazione così intensa ed indecifrabile. Dal Caucaso all’Asia Centrale, dai Balcani al Mar Nero, sino ai tumulti in Mongolia, la situazione politica, economica ed inter-etnica di ciò che restava del socialismo reale, costituiva per Washington la teorica possibilità di imporre un nuovo ordine internazionale a guida unipolare. Tuttavia, l’esito della Guerra Fredda non avrebbe avuto una sua definitiva conferma prima dei successivi dieci o quindici anni. Quando George H.W. Bush, giunto in Ucraina nel 1991, frenò gli entusiasmi dei giovani rampolli locali, già pronti a prendere in mano una nuova repubblica indipendente per condurla nei meandri del libero mercato, risultò chiaro che il primo imperativo per Washington fu proprio quello di contenere gli effetti più disastrosi del crollo sovietico, smantellandone pacificamente il vecchio arsenale(4) e mettendo da parte, almeno per il momento, le più forti pressioni provenienti dai mercati occidentali.

Nel frattempo la Casa Bianca interveniva nel Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein, avviando, con l’operazione Desert Storm, l’era del network-centric warfare e del primato della Revolution in Military Affairs. Venuti meno la parità militare ed il sostanziale equilibrio geostrategico garantito dal concetto di Mutual Assured Destruction, l’imperialismo nord-atlantico avrebbe avuto campo libero nel nuovo tentativo di penetrazione militare, economica e politica in Medio Oriente (attraverso Iraq e Libia) e in Asia Centrale (attraverso l’Afghanistan). Tuttavia, il previsto smantellamento della Russia avvenne soltanto in parte. L’era Eltsin mise in subbuglio l’intero Paese, rendendolo insicuro ed instabile, e contribuendo ad affermare una sostanziale equivalenza tra il concetto di democrazia liberale e la realtà dell’impoverimento sociale. La complessa vicenda degli oligarchi accelerò nei cittadini russi ex-sovietici la consapevolezza della necessità del cambiamento. Il brusco passaggio dalle modeste ma salde certezze del socialismo reale alla terribile ondata di speculazione e corruzione interna della fase liberale, tornò ad accrescere nel popolo il desiderio del ritorno ai primati dell’autorità e della sicurezza sociale.

Ebbe dunque inizio l’era Putin, contrassegnata da precari ma determinanti equilibri interni, frutto delle mediazioni e degli scontri con i diversi e complessi settori della nuova classe capitalistica formatasi durante il periodo eltsiniano.

A distanza di oltre dieci anni da allora, è possibile trarre un bilancio incerto, denso di luci e ombre, momenti di rilancio accompagnati da carenze strutturali. Il PIL della Federazione Russa, ormai, è infatti il settimo nel mondo, ma il reddito pro-capite, nonostante il (più che preoccupante) decremento della popolazione (138.740.000 ab. circa), è soltanto al 71° posto (15.900 dollari annui), con una disoccupazione giovanile ferma al 18,29% ed una fascia sociale posta sotto la soglia di povertà pari al 13,1% della popolazione nazionale(5). Il tentativo di conciliare aspirazioni geopolitiche di matrice continentale con provvedimenti economici e politici di natura liberale – responsabili del nuovo arretramento nei settori industriale ed agricolo – sta mostrando tutti i suoi limiti e rischia soltanto di rallentare lo sviluppo di una nuova forza strategica che possa tornare a competere sia militarmente, sia sul piano dell’innovazione, con gli Stati Uniti. Lo rallenterebbe, anzitutto perché la Russia, a differenza della Cina (tradizionalmente sovrappopolata, ripartita nel 1949 da condizioni semi-feudali e riformata nel 1979 a partire da condizioni proto-industriali), non ha alcun bisogno di operare una vasta apertura al mercato per rendere più efficace e dinamico il suo modello di sviluppo, già forte di imponenti primati nei settori energetico e minerario.

 

L’espansionismo nord-atlantico

Così recitava un trionfante articolo pubblicato sul quotidiano Repubblica in data 30 marzo 1989.

 

Mikhail Gorbaciov ha dichiarato ufficialmente decaduta la dottrina della sovranità limitata, nota anche come dottrina Breznev. Le tragiche esperienze del ‘56 ungherese e del ‘68 cecoslovacco non si ripeteranno più, ha garantito il leader sovietico al segretario del Partito ungherese Karoly Grosz, che si è recato in visita a Mosca la scorsa settimana”(6)

 

Otto mesi dopo, il Muro di Berlino sarebbe crollato sotto i colpi di un’operazione dal grande impatto mediatico ma dall’inglorioso significato politico. Cadeva un campo militare ed ideologico, mentre la più spietata economia di mercato cominciava a penetrare nei territori dei Paesi dell’Est europeo. Un anno e mezzo dopo, il Patto di Varsavia fu definitivamente sciolto, lasciando campo libero alla Nato che nel 1999 definì l’inglobamento militare di Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia, per poi proseguire con l’espansione verso la Romania, la Bulgaria, la Slovenia, la Slovacchia e le tre repubbliche baltiche ex sovietiche, per finire nel 2009 con l’ingresso di Albania e Croazia. La composizione geografica della Nato non ha nulla di casuale, ma ricalca precise volontà strutturali geo-strategiche, spesso abilmente oscurate da artificiali costruzioni sovrastrutturali di tipo culturale ed etico, sottilmente imposte attraverso linguaggi e metodi di comunicazione volti a rafforzare l’accettazione della presunta naturalità del rapporto tra il Nord America e l’Europa, nel quadro di una fantomatica comunità di destino, non meglio precisata, ed anzi solamente ostentata attraverso analogie di costume e tendenze sociali, culturali ed artistiche.

Vi sono due realtà nazionali – Ucraina e Bielorussia – a dividere ancora i principali e più forniti Paesi della Nato dai confini terrestri della Federazione Russa. Coinvolte in passato in vari tentativi di rivoluzioni colorate, e in generale di regime-change, è soprattutto l’Ucraina a rivestire un ruolo fondamentale nei rapporti tra Mosca e l’Eurozona, a cominciare dalle tratte del gas. Lo sconvolgimento avviato dalla rivoluzione arancione del 2004, ha provocato ben sei anni di deterioramento nei rapporti tra Mosca e Kiev, che soltanto oggi sembrano finalmente riassestarsi, dopo la vittoria elettorale della coalizione filo-russa guidata da Viktor Yanukovich, sostenuto per l’occasione anche dal Partito Comunista Ucraino di Piotr Simonenko, entrato nel governo. In Bielorussia è la guida di ferro del presidente Aleksandr Lukashenko ad aver tenuto in pugno la situazione economica e sociale nel difficilissimo periodo post-sovietico, e ad essere riuscito a rimanere alla guida del Paese – grazie anche all’appoggio del Partito Comunista di Bielorussia – evitando ogni tentativo di sommossa, abilmente strumentalizzato dai principali media internazionali, come avvenuto anche l’anno scorso, quando minoritari ma facinorosi gruppi di anarchici, liberali ed ultra-nazionalisti assaltarono l’edificio presidenziale in Piazza dell’Ottobre. Soltanto il pronto intervento dei mezzi blindati ha evitato il peggio, ripristinando l’ordine pubblico nella capitale e consentendo un regolare svolgimento delle operazioni elettorali. Anche la Moldavia, piccola repubblica incuneata proprio tra l’Ucraina e la Romania, è stata più volte vittima di tentativi di destabilizzazione, in cui gruppi di ultra-nazionalisti filo-romeni e di liberali, hanno aggredito esponenti del Partito Comunista della Repubblica di Moldavia, primo partito del Paese per numero di consensi e tradizionalmente filo-russo.

Dal 1991, insomma, è calato il sipario sulla dimensione simil-cinematografica della Guerra Fredda, ma non è stata affatto archiviata la forte contrapposizione strategica tra Stati Uniti e Russia, nel tentativo di un continuo e sempre più imponente accerchiamento del territorio federale. I viaggi a Varsavia e a Praga delle delegazioni di Washington, l’abbandono statunitense del Trattato ABM in era Bush, le rivoluzioni colorate non solo in Ucraina ma anche in Georgia (2003) e in Kirghizistan (2005), ed il reset voluto da Obama, ci dicono non soltanto che gli Stati Uniti non hanno mai considerato conclusa la Guerra Fredda, ma anche che negli ultimi vent’anni la Russia non ha saputo ritrovare in alcun modo la compattezza politica e la manovrabilità militare di cui l’Unione Sovietica era in possesso.

Il CSTO (Collective Security Treaty Organization) e la SCO (Shanghai Cooperation Organization) rappresentano due fondamentali tentativi di ripristinare queste capacità. Tuttavia le enormi potenzialità che un fronte di così vaste dimensioni potrebbe garantire, restano ancora inespresse.

Gli sconvolgimenti dell’anno scorso in Kirghizistan – che videro trionfare Roza Otunbayeva, già protagonista della rivoluzione dei tulipani nel 2005 – hanno confermato che il potere delle organizzazioni non-governative straniere è ancora rilevante in Asia Centrale. Malgrado il nuovo governo di Bishkek sia stato immediatamente contattato da Putin, ansioso di ricevere rassicurazioni in merito al nuovo corso del Paese, la presenza, tra le frange della protesta, di personaggi notoriamente legati all’Open Society Institute di George Soros – tra i quali la stessa Otunbayeva e Omurbek Tekebayev, già arrestato in Polonia nel 2006 per possesso di eroina(7) – aveva già smascherato il backstage delle violenze, risolte in pochi giorni nelle regioni settentrionali ma velocemente trasferitesi lungo il sud del Paese, nelle aree di Osh e Jalalabad e all’altezza della Valle del Fergana, dove la presenza di copiose comunità uzbeke ha tramutato lo scontro politico in un tragico scontro inter-etnico, che ha costretto all’intervento umanitario le autorità di Tashkent(8).

 

Dall’ideologia alla geopolitica

Un altro recente smacco per Mosca è poi giunto dalla sufficienza con cui il presidente georgiano Mikheil Saakashvili, ha potuto letteralmente ignorare e reprimere una forte protesta sociale interna, ribattezzata rivoluzione d’argento(9), e la leggerezza con cui, ancora prima, aveva potuto abbattere, pur nel dissenso della popolazione più anziana, la gigantesca statua di Stalin posta dinnanzi all’edificio centrale municipale di Gori, città natale del leader comunista (10). Quest’ultimo particolare potrebbe apparire pittoresco ai più, tuttavia non lo è nello spazio post-sovietico, dove una statua o un edificio possono assumere una rilevanza sociale, politica e persino geopolitica di primo piano. Basti pensare agli scontri e alle accese polemiche che si scatenano puntualmente nelle ex repubbliche sovietiche, non appena un nuovo piano regolatore generale coinvolga qualche importante costruzione d’epoca. Il valore simbolico non è certo una componente puramente estetica, e rimanda direttamente ad opinioni politiche in relazione ai rapporti con la Russia. Le statue di Lenin, di Stalin, di Žukov, di Frunze e, in generale, dell’era sovietica, assumono la portata di simboli dell’autorità moscovita e della centralità del potere del Cremlino, incrementata – e non certo diminuita – durante l’era sovietica.

È dunque evidente che tutte le problematiche legate ai complessi equilibri geopolitici della massa eurasiatica tornino a riaffiorare attraverso la schermatura ideologica operata dalla dialettica comunismo/anticomunismo, come nascondimento di una dialettica ben più concreta e profonda, che nel cosiddetto estero vicino della Russia assume le proporzioni di un confronto tra pan-russismo e russofobia, mentre all’interno della società russa si riflette come la sfida tra una vocazione imperiale eurasiatica ed una vocazione nazionale europeista. Appare del tutto evidente la completa inconciliabilità di queste due tendenze, riassunte simbolicamente nelle due rispettive rappresentazioni cinematografiche di Ivan IV (Parte I), celebrato in era staliniana, e di Pietro il Grande, celebrato in era gorbaceviana(11).

Nella società russa contemporanea non c’è più spazio per altre posizioni che non siano riconducibili a queste due. Lo ha capito perfino Vladimir Žirinovskij, che, nonostante certe esternazioni pittoresche e provocatorie, ha ormai schiacciato il suo vecchio pan-slavismo su posizioni nettamente più moderate ed accondiscendenti con l’Occidente, e, per certi aspetti, simili a quanto espresso negli ultimi anni dal presidente Putin. L’unica espressione partitica russa che propugna ancora coscientemente la prima posizione, cioè quella che potremmo ridefinire neo-ivanista o staliniana, è il Partito Comunista di Zyuganov, rimasto grossomodo coerente con quanto esposto nel suo saggio Deržava pubblicato nel lontano 1994, in cui afferma senza giri di parole che quella imperiale è la forma storicamente e geopoliticamente obbligata per lo Stato Russo(12), la sola in grado di interpretare le necessità profonde e le aspirazioni politiche e strategiche del territorio federale, alla luce delle sue complesse e composite caratteristiche storiche, etniche e religiose. La composizione antropica dell’Unione Sovietica, ricalcava in modo senz’altro più preciso e meglio definito il territorio dell’Impero Zarista, garantendo un efficace e concreto riconoscimento politico anzitutto a quelle comunità etniche di origini uralo-altaiche e di religione musulmana dell’Asia Centrale, che sin dal XIX secolo generarono focolai di resistenza particolarmente ostili alla russificazione voluta in epoca zarista(13). Il conflitto con l’Autonomia di Alash durante la guerra civile (1917-1920) e la rivolta dei Basmachi tra il 1920 e il 1931 ci insegnano, tuttavia, che il netto miglioramento delle condizioni sociali costituisce un traguardo sicuramente fondamentale ma non determinante ai fini dell’eliminazione di tutte quelle contraddizioni ed ostilità etno-culturali che un certo marxismo fideista e tardo-positivista ha spesso erroneamente relegato in una generica e sbrigativa dimensione sovrastrutturale. Si impone, dunque, la necessità di fare i conti con una complessità geo-antropica che solo un attento approccio geopolitico di matrice imperiale può aiutare a risolvere.

L’Unione Sovietica viene così ad assumere, nella retrospettiva storica di Zyuganov, i contorni storici di un vasto impero geopoliticamente coeso e geostrategicamente compatto, senza tuttavia tralasciarne l’alto valore politico in termini economici e sociali.

A differenza delle classiche riletture ideologiche della tradizione marxista-leninista, però, nella schematizzazione geopolitica fornita da Aleksandr Dugin (che collaborò nel 1993 alla stesura del primo programma politico del Partito Comunista della Federazione Russa) all’interno del suo saggio La grande guerra dei continenti, Lenin e Stalin vengono posti in continuità – e non in contrapposizione – con Brežnev, proprio nella misura in cui questi tre leader diedero luogo ad una più o meno cosciente continuità strategica definita come eurasiatica, in lotta contro la vocazione atlantista ed occidentalista rappresentata da Trotskij e da Chruščëv(14). Senza troppo soffermarci sui tratti nazionali ed apertamente patriottici della politica staliniana, sempre più evidenti quanto meno a partire dal 1940, appare possibile confermare, anche nella Russia odierna, il valore altamente simbolico della figura di Stalin. Non più esclusivamente in quanto costruttore del socialismo, e tanto meno come eroe del proletariato (qualifica che, del resto, in una fase marxisticamente pensata come epoca di progressivo abbattimento delle classi sociali, cominciava a perdere il suo significato), ma come artefice politico e militare della vittoria sull’invasione tedesca e come protagonista dell’edificazione della potenza industriale e strategica sovietica. Stalin è dunque una rappresentazione iconografica di qualcosa che travalica l’individualità e la dimensione strettamente esistenziale, fino ad assumere le sembianze di un sistema politico, sociale e militare in cui la gerarchia – seppur su termini diversi rispetto alle società tradizionali occidentali – rimane un essenziale criterio di organizzazione della società e dei territori sottoposti alla sovranità dello Stato politico centrale. Appare del tutto evidente che la nuova gerarchia sovietica dovesse costituire, in tal senso, una naturale continuità strategica rispetto alle politiche di sovranità territoriale adottate in epoca zarista.

 

Conclusioni

Le tendenze degli ultimi anni hanno dimostrato che la Russia post-sovietica vive continuamente, anche quando non lo vorrebbe, sul terreno del passato e della memoria storica. Le tracce, materiali, storiche e persino spirituali, dell’era sovietica restano incancellabili, e tornano regolarmente a porre interrogativi epocali nella società russa contemporanea. Soltanto una pacificazione reale con la propria storia ed una obiettiva interpretazione del passato, potranno perciò costituire il punto di partenza per un rinnovamento sociale, politico ed istituzionale che sia in grado di rilanciare con forza e con saggezza il prestigio di Mosca nel pianeta.

 

 

* Andrea Fais è giornalista e collaboratore del sito Conflitti e Strategie

 

 

Note:

(1) TMNews, Russia/Patto acciaio Putin-Medvedev: tandem al potere sino al 2036, 24 settembre 2011

(2) D. HARVEY, La crisi della modernità, Il Saggiatore, 1993, pp. 217-234

(3) S.P HUTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1996, pp. 30-31

(4) Z. BRZEZINSKI, L’Ultima Chance – La crisi della superpotenza americana, Salerno Editrice, Roma, 2008, p. 56

(5) CIA WORLD FACTBOOK, Russian Federation, rapporto 2010 e rapporto 2011

(6) La Repubblica, Sepolta la Dottrina Breznev, 30 marzo 1989, p. 10

(7) S.R. ROBERTS, More trouble with the Tulip Revolution: Kyrgyz oppositionist Omurbek Tekebayev arrested in Warsaw, 7 settembre 2006

(8) La Stampa, Kirghizistan, è emergenza umanitaria, 18 giugno 2010

(9) PeaceReporter, Georgia, rivoluzione inopportuna, 28 maggio 2011

(10) Adnkronos, Gori, statua Stalin rimossa in segreto. Al suo posto memoriale vittime dei russi, 25 giugno 2011

(11) C. JEAN, Manuale di geopolitica, Editori Laterza, Bari, 2003, p. 226

(12) G. ZYUGANOV, Stato e Potenza, Edizioni All’Insegna del Veltro, Parma, 1999, p. 51

(13) M. BUTTINO, La rivoluzione capovolta – L’Asia Centrale tra il crollo dell’Impero Zarista e la formazione dell’Urss, L’Ancora Editore, Napoli, 2003, pp. 70-80

(14) T. PARLAND, The Extreme Nationalist Threat in Russia – the growing influence of western rightist ideas, RoutledgeCurzon, Oxon, 2005, p. 104

“Panorama Difesa” recensisce “Capire le rivolte arabe”

$
0
0
Panorama Difesa“, prestigiosa rivista del settore pubblicata dalla fiorentina Ediservice, ha recensito la pubblicazione dell’IsAG Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario, opera dei nostri redattori Pietro Longo e Daniele Scalea. La recensione, a cura di Angelo Pinti, è comparsa nel numero 301 (ottobre 2011) della rivista, a p. 80. La riproduciamo integralmente di seguito.

 

Si fa presto a dire “Primavera araba”, ma comprendere davvero la vastità e complessità delle vicende che stanno cambiando il volto del Mediterraneo e del Vicino Oriente è un’altra faccenda. Per orientarsi in questa densa e affascinante materia, niente di meglio che un libro come questo, scritto a quattro mani da Daniele Scalea a Piero Longo, rispettivamente segretario scientifico e ricercatore dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie).
Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario
, questo il titolo del saggio, parte dall’assunto che “a pochi passi da casa nostra si sta facendo la storia”, e da alcune domande fondamentali: sappiamo davvero perché queste rivolte stiano scoppiando? Conosciamo veramente i nostri vicini arabi, le loro aspirazioni e gli ideali che li animano? Ci rendiamo conto di quale potrebbe essere il volto del mondo quando l’ondata della rivolta avrà finito di abbattersi sulla regione?
La risposta, per il lettore medio, è “no”. Ed è a lui che gli autori si rivolgono, con lo scopo di fare chiarezza sulle dinamiche politiche, economiche e strategiche in atto nella regione mediorientale, tenendosi lontani sia dalle semplificazioni giornalistiche sia “dai proclami romantici”.
Il libro si articola in tre parti: Il Mediterraneo, il Vicino Oriente, e il mondo; Ideologie e movimenti nel mondo arabo; Le cause delle rivolte arabe e gli scenari futuri. La prima sezione, di carattere più generale, fornisce un quadro socio-economico della regione, spiegandone l’importanza per gli equilibri internazionali ed esaminando con particolare attenzione il ruolo degli Stati Uniti nelle dinamiche dell’area.
La seconda parte del saggio si occupa dei profili politici ed ideologici, focalizzandosi sulle varie manifestazioni del nazionalismo arabo, sui rapporti tra Islam e politica, e sul movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto.
La terza parte, infine, analizza l’attualità e tenta di delineare gli scenari futuri alla luce delle strategie dei paesi interessati, pur riconoscendo la difficoltà di prevedere l’evoluzione del quadro geopolitico. Quanto alle origini del fenomeno rivoluzionario, gli autori propendono per una combinazione di fattori interni ed esterni al mondo arabo, con una prevalenza dei primi.
Il saggio si fa apprezzare perché offre molte informazioni, ben organizzate ed esposte in modo chiaro e sintetico. Difficile chiedere di più.

 

“Soviet e Sobornost”: una recensione

$
0
0

[…] Come l’Ortodossia è uno dei fattori più importanti della storia della Russia, così anche i destini della Russia determinano il destino dell’Ortodossia russa”. Questa frase di A. Smeman, citata in ‘Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e postsovietica’, riassume perfettamente l’intera analisi riportata in questo saggio.

Il lavoro di Costa, lungi dal voler offrire una panoramica storiografica completa sulle varie epoche del periodo sovietico, tenta di fotografare alcuni momenti fondamentali per comprendere la continua riconfigurazione tra potere ortodosso e potere politico.

 

Assecondando quest’ottica, l’autore ha suddiviso il libro in 4 capitoli, corrispondenti a quattro momenti (o fotografie) nei quali la diarchia politico-spirituale del mondo russo si è articolata ai massimi livelli: gli ultimi anni dello zarismo; il nuovo stato bolscevico; il periodo staliniano, nonché la Russia moderna.

Il primo capitolo, ovvero quello che si concentra sugli ultimi periodi nei quali era ancora “viva” la Russia zarista, focalizza l’attenzione sui nascenti movimenti rivoluzionari (da quelli nichilisti ai social-rivoluzionari, ai bolscevichi). Ciò che emerge è un’interessante accostamento, per ricollegarsi agli intenti insurrezionali e moralizzatori della popolazione russa, fra la figura del missionario e quella del rivoluzionario fino quasi a far sovrapporre le stesse. La fotografia proposta al lettore da Costa viene a delinearsi sempre più nitidamente, paragrafo dopo paragrafo, grazie ai molteplici riferimenti a importanti intellettuali, dell’epoca nonché moderni: James Webb, Savinkov e Berdjaev (solo per citarne alcuni).

L’evidente peculiarità di questo libro risiede nel costante accostamento fra rievocazione storica e analisi filosofico-politica. Ed è proprio tale particolarità che risulta efficace, affinché il lettore si cali nella realtà delle epoche raccontateci e comprenda l’intrinseco e profondo rapporto che risiede fra ciò che appartiene alla sfera politica e ciò che gravita intorno a quella spirituale.

Costa cita, giustamente, la nascita del gruppo denominato Bogostroitelstvo (ovvero ‘I Costruttori di Dio’) quale passaggio fondamentale per la cementificazione fra socialismo e religione, così da far convivere sia le radici più tradizionali che la nuova avanguardia. In questa prima fase, dunque, il lettore riscontrerà una chiara volontà di reinterpretare il sentimento religioso popolare nell’ambito del partito bolscevico.

 

Il secondo e il terzo capitolo risultano i più interessanti del libro sia per la loro maggiore articolazione che per i numerosi illustri pensatori a cui si fa riferimento. La prima foto che l’autore immortala a favore del lettore è quella dell’epoca leninista e dell’azione pro ateismo post-rivoluzionario. Chi legge il libro si troverà davanti a una rielaborazione analitica nella quale la rivoluzione bolscevica non è contemplata come semplice rivoluzione politica, ma piuttosto come rivoluzione etica. Il bolscevismo, infatti, ci viene presentato come attraversato e permeato da una significativa corrente parareligiosa, che si palesava nelle metafore linguistiche come nelle icone propagandistiche. Il bolscevismo, dunque, si avvaleva di lessico, grammatica e liturgia mutuati dal simbolismo della mistica ortodossa. Così come ha osservato lo storico, citato proprio da Costa nel suo saggio, Steven Merrit Miner “malgrado decenni di risolute campagne ateistiche sovietiche, la fede religiosa, specialmente combinata con il nazionalismo, è rimasta una forza politica e sociale cruciale con tutta l’era sovietica”. Dopo il 1917, dunque, c’è stato un evidente tentativo di instaurare una nuova religione politica; ciò che dovrebbe colpire maggiormente chi legge è lo smascheramento di una mistificazione che vedeva il nuovo sistema bolscevico come nemico di qualsiasi forma di culto.

 

In effetti, nel 1918 il Soviet Supremo aveva stabilito la rigida separazione fra Stato e Chiesa: la professione religiosa non veniva, quindi, proibita ma solo ridotta a semplice scelta personale da esercitare nella sfera privata. La Chiesa ortodossa si vedeva costretta a rinunciare a qualsiasi privilegio, come l’esenzione dalle tasse. Il sistema leninista riteneva sì che la religione fosse una forma di oppressione spirituale, ma non per questo veniva imposta l’abolizione del culto. La propaganda dell’ateismo era intrinseca al nuovo sistema, non perché la religione fosse dannosa in sé, ma in quanto rappresentazione della forza cieca del capitale.

Costa continua lo svisceramento dell’epoca leninista accompagnando passo passo il lettore grazie a molteplici riferimenti, fra cui “L’abc del Comunismo” di Bucharin.

 

Come anticipato, anche il terzo capitolo è di grande interesse, poiché si focalizza sull’epoca della svolta ortodossa e patriottica di Josif Stalin. “Allo scopo di assicurare ai cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa dell’URSS è separata dallo Stato e la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare i culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini”: così recitava l’articolo 124 della Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche del 1947. Costa fotografa per noi una realtà dove stalinismo e religione vanno di pari passo e si intersecano, dove patriottismo e ortodossia sono due facce di una stessa medaglia. La religione ortodossa sarebbe stata, dunque, il simbolo della tradizione delle popolazioni slave, un elemento unificatore. Ogni territorio di occupazione sovietica doveva necessariamente essere omologato dal punto di vista legislativo, e questo implicava anche il coinvolgimento del clero ortodosso (con conseguente controllo sugli istituti di formazione teologica). Il ruolo della religione, dunque, era non solo finalizzato alla riappropriazione dell’identità russa, ma anche al controllo politico sui territori.

 

L’analisi dell’autore porta, infine, il lettore a riflettere sull’era post-sovietica e offre degli interessanti spunti di discussione. Da Dughin a Limonov, passando per la rievocazione delle opere e del pensiero di Evola, Costa si addentra nell’interpretazione di un’era, quella moderna, che presenta numerosi pensatori nonché scuole di pensiero. La ‘fotografia’ immortala il periodo della perestrojka e della glasnost , ma va anche oltre, spingendosi fino agli anni Novanta inoltrati.

Sarebbero sin troppo numerose da elencare le testimonianze che riguardano la complicata fusione fra spiritualità e patriottismo nell’era comunista post-sovietica. Costa ci offre, dunque, un’ottima sintesi di base da cui partire per approfondire la conoscenza dell’argomento, nonché una buona quantità di riferimenti bibliografici a cui attingere generosamente.

 

Quest’opera non solo è interessante per l’aspetto innovativo dell’analisi che ci viene presentata, ma anche e soprattutto perché, nonostante sia una lettura breve e scorrevole, va a toccare corde fondamentali quali la re-interpretazione del rapporto fra Stato e religione, e arricchisce il lettore grazie a un punto di vista insolito ma efficace.

 

*Eleonora Peruccacci è laureata in relazioni internazionali (Università di Perugia) ed è ricercatrice dell’ISAG

 

Gli USA all’attacco della Francia?

$
0
0

La Francia non lo sa, ma siamo in guerra con l’America. […] Si, una guerra permanente, una guerra vitale, una guerra economica […] Si, sono molto duri gli americani, sono voraci, essi vogliono il potere senza condividerlo con il mondo… Avete visto, dopo la guerra del Golfo, hanno voluto controllare tutto nella regione del mondo. Non hanno lasciato niente ai loro alleati […] Non bisogna lasciarsi sopraffare, non bisogna lasciarsi impressionare”

Citazione di François Mitterand(1), riportato nell’ultimo Mitterand (G.M.Benhamou).

 

 

Nell’ottobre 2005 la Francia ha subito violenti disordini urbani. Presentate come rivolte sociali, erano in realtà per lo più giovani di origine non europea, provenienti principalmente dalla periferia delle grandi città. I disordini sono stati innescati ufficialmente dalla morte di due giovani delinquenti perseguiti dalla polizia e che sono morti folgorati dopo essersi rifugiati in un trasformatore elettrico per evitare un banale controllo d’identità. Il risultato di questi scontri è stato pesante : in 3 settimane ci sono stati 3 morti, 3000 arresti, 10000 auto bruciate e saccheggiati decine di edifici pubblici, comprese le scuole, palestre, magazzini, negozi o chiese. Questi disordini si sono rapidamente trasformati in rivolte d’identità tra i giovani francesi di origine arabo-africana e lo Stato francese. Al culmine delle violenze, quasi 11000 poliziotti sono stati mobilitati per contenere gli agitatori. Lo stato d’emergenza è stato dichiarato anche in un punto. Il costo di questi disordini è stimato a quasi 200 milioni di euro. E stata la peggiore violenza urbana che la Francia ha conosciuto dal 1968.

 

Nel 2009, un giornalista e romanziere tedesco, Udo Ulfkotte, ha pubblicato un libro piuttosto sorprendente intitolato Der Krieg im Dunkeln: Die wahre Macht der Geheimdienste ( la guerra nell’oscurità : il potere dei segreti)(2) nel quale ha sviluppato una tesi secondo la quale queste rivolte non erano totalmente spontanee ma erano state organizzate, e gestita da agitatori professionisti. Nel suo libro, il giornalista ha assimilato quest’agitazione rivoluzionaria ad una variante di rivoluzione colorata, ma al cuore della Francia del 2005. Senza sapere se questa teoria era giusta o giustificata, è da confrontare con una delle conseguenze più inaspettate di questi disordini, l’interesse crescente e affermato degli Stati Uniti a questi giovani provenienti da famiglie di immigrati, francesi e pertanto in rivolta contro lo Stato francese.

 

I volti del sistema americano

 

Si tratta di un’espressione datata al 25 gennaio 2007 (3)pubblicata da Wikileaks che sembra rivelare l’affare. L’ambasciata americana dichiara di sviluppare una politica di sostegno e di sviluppo alle comunità afro-arabe della Francia mirando chiaramente i giovani musulmani francesi. I primi obiettivi di questa politica furono fissati nel 2001, dopo l’11 settembre. Dei diplomatici americani affermano in effetti che l’evoluzione demografica della Francia è tale che numerosi francesi di origine afro-araba faranno parte dei dirigenti francesi del domani. Dopo l’11 settembre e la guerra in Iraq, sembrava di vitale importanza al dipartimento di stato tentare di migliorare l’immagine dell’America agli occhi dei musulmani d’Europa. Molteplici personaggi sono protagonisti di questo modello americano in Francia.

 

Nel 2009, Barack Obama nomina Charles Rivkin(4) come ambasciatore degli Stati Uniti in Francia. Dopo una carriera nel settore dello spettacolo e della pubblicità, è stato uno dei più importanti promotori finanziari(5) per la campagna di Barack Obama. Dal settembre 2009 il segnale è dato, l’ambasciatore Rivkin e sua moglie sono gli ospiti d’onore del sindaco di Villiers-le-bel per l’inaugurazione del primo murale realizzato nel quadro di un programma di scambi artistici ed educativi franco-americano concernente l’arte cittadina. Villiers le bel non è una città come le altre, è da là che sono cominciate le proteste del 2005. Nel novembre dello stesso anno, l’ambasciata degli Stati Uniti d’America invita 24 liceali francesi a diventare ambasciatori della loro cultura negli Stati Uniti. Il programma “Giovani Ambasciatori” realizzato per il secondo anno consecutivo in Francia, permette agli studenti in condizioni modeste di trascorrere 15 giorni negli Stati Uniti, accompagnati e circondati, come vedremo.

 

Nel mese di marzo ed aprile 2010, una trentina di giovani provenienti dall’immigrazione vengono mandati negli USA tramite il programma giovanile del Dipartimento di Stato: visitatori internazionali(6). Tra i molti leaders di associazioni di giovani, i rapper o i giovani sono coinvolti nel settore del volontariato in particolare all’interno di comunità di immigrati o di origine immigrata. Il 2 aprile 2010 Charles Rivkin si trasferisce a Bondy (una delle città con la più alta concentrazione di immigrati nella periferia parigina) all’incontro dei giovani. Ha detto: “ Da me è diverso. Tu puoi essere africano, indiano ma sei prima di tutto americano. […] Amo parlare con tutti i francesi. So, e sono sicuro, che il prossimo leader francese è in periferia”. Prima di partire chiede ai giovani: “ Se aveste degli artisti americani che vorreste incontrare, chi sarebbe?”. Promessa mantenuta il 13 aprile 2010 l’ambasciatore è di ritorno a Bondy, accompagnato dall’attore nero americano Samuel L. Jackson e da sua moglie all’incontro dei giovani. L’attore ha dichiarato: “ Voi siete il futuro, questa è la vostra occasione, costruitevi una rete, […] dite che non è normale quando non vedete allo schermo gente come me”.

 

Il 24 giugno 2010 l’ambasciata degli Stati Uniti ha organizzato un forum intitolato Creare Oggi con dei giovani imprenditori americani e francesi. A pranzo nel giardino della Residenza, gli invitati hanno potuto assistere ad esposizioni d’arte o ancora ascoltare l’ultima canzone “Vida Loca”(7) del gruppo rap francese Kommando Toxik de Villiers-le-Bel. Il 29 giugno 2010 l’ambasciatore americano inaugura il primo Campus parigino di Hip Hop a La Villette. Egli assiste alla prima tavola rotonda sul tema Francia vs USA : una nuova scuola per il successo! Il 5 agosto 2010 sono Sylvester Stallone, Jason Statham e Dolph Lundgren che visitarono (con la delegazione dell’ambasciata americana) la città di Rosny-sous-Bois anche nota per la sua elevata popolazione di origine immigrata, i suoi problemi sociali e le sue rivolte frequenti. Sylvester Stallone dichiarerà dopo l’incontro : « è stato formidabile incontrare la gente di Rosny-sous-Bois, gente vera ». Nel luglio 2010 per sostenere queste attività, Mark Taplin fu nominato n.2 dell’ambasciata degli Stati Uniti in Francia. Diplomatico di carriera, Taplin è uno specialista in diplomazia pubblica. Prima della sua nomina, è stato vice addetto culturale nel 1984-1987 e vice segretario di stampa nel 1994 all’ambasciata americana a Mosca. Dal 1999 al 2001 è stato Consigliere per gli Affari pubblici dell’ambasciata americana a Kiev, in Ucraina. Dal 2002 al 2004, M. Taplin è stato Direttore dell’Ufficio Affari di Ucraina, Moldavia e Biellorussia al dipartimento di Stato americano. Egli ha contribuito a sviluppare la politica degli Stati Uniti in Ucraina nella prospettiva delle elezioni presidenziali in Ucraina del 2004. Ha d’altra parte lasciato il suo posto durante l’estate 2004(8). La « rivoluzione arancione » cominciò il 21 novembre dello stesso anno. Dal 2005 al 2008 ha ricoperto l’incarico di vice capo missione presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Bucarest in Romania.

 

Taplin e Rivkin non sono i soli nello sviluppo di questa strategia di seduzione nei confronti delle minoranze in Francia. Tutte queste operazioni di seduzione (che alcuni potrebbero qualificare di manipolazione) sono ugualmente organizzate da Laura Berg(9), addetta culturale dell’ambasciata, ma sopratutto da una francese, Randiane Peccoud(10), che sovrintende, da una decina di anni, le operazioni americane verso la comunità musulmana. Particolarmente discreta, questa donna di 53 anni, ufficialmente « responsabile per la società civile » all’ambasciata americana a Parigi non è quasi mai menzionata. France-soir (come Ali Soumarè è stata « trattata » dall’ambasciata americana il 6 agosto 2010) aveva sollevato il velo su di lei rivelando che disponeva del « miglior libretto di indirizzi francesi della diversità con tutti i contatti : leaders d’opinione, politiche ed associative ». Sicuramente le ingerenze americane di ogni tipo in Francia non sono un fatto nuovo. Sydney Hooks, uno dei leader del Congresso per la libertà della cultura(11), un ampio programma finanziato dalla CIA durante la guerra fredda, già nel 1941 ha dichiarato:  « ri-educare, ri-informare l’opinione pubblica francese sembra essere il compito più fondamentale così come il più urgente per la politica democratica americana in Francia ». Sydney Hooks, ovviamente, pensava al pubblico francese nel suo insieme. Ciò che è nuovo, è vedere raggiungere questa porzione particolare di popolazione francese.

 

La strategia decifrata

 

Nel gennaio 2010, l’ambasciata americana a Parigi scrive un messaggio(12) in cui l’ambasciatore Charles Rivkin spiega le attività americane verso le minoranze. Il messaggio è diviso in 10 punti che sono rispettivamente una spiegazione della crisi della rappresentazione in Francia, la necessità per gli americani di sviluppare una strategia per la Francia di impegnarsi in un discorso positivo, a proporre un esempio forte, lanciare un programma aggressivo di mobilitazione della gioventù, la promozione delle voci moderate, la diffusione delle migliori pratiche, l’approfondimento della comprensione del problema e infine lo scopo degli sforzi. Non farò che una breve sintesi dei diversi punti qui di seguito :

 

(Sintesi)

« Considerando le circostanze e la storia unica della Francia, l’ambasciata di Parigi ha creato una Strategia d’impegno per le minoranze che riguarda, tra gli altri gruppi, i musulmani francesi e che risponde agli obiettivi definiti nel reftel A (referenza telegramma A). Il nostro obiettivo è quello di mobilitare la popolazione francese a tutti i livelli al fine di ampliare gli sforzi della Francia per realizzare i suoi ideali egualitari, ciò che in futuro farà progredire gli interessi nazionali americani. Mentre la Francia è giustamente orgogliosa del suo ruolo motore nello sviluppo di ideali democratici e nella promozione dei diritti dell’uomo e dello stato di diritto, le istituzioni francesi non si sono mostrati flessibili per adattarsi ad una demografia sempre più eterodossa. »

 

( Premessa: la crisi della rappresentanza in Francia )

«  La Francia per molto tempo ha promosso i diritti dell’uomo e lo stato di diritto, sia in patria sia all’estero, e si vede, giustamente. come un leader storico tra le nazioni democratiche. Questa storia e questa percezione di sè ci servono sopratutto per mettere in opera la strategia esposta qui e che consiste nel fare pressione alla Francia al fine che essa si orienti verso un’applicazione più completa dei valori democratici che essa promette. »

« I media francesi rimangono in gran parte bianco, con solo un modesto miglioramento della rappresentanza della minoranza di fronte alle telecamere dei principali telegiornali. Tra le istituzioni scolastiche delle élite francesi, non conosciamo che Scienze Politiche, che ha compiuto passi importanti verso l’integrazione. Mentre c’è un leggero miglioramento della loro rappresentazione nelle organizzazioni private, le minoranza in Francia sono al capo di pochissime imprese e fondazioni. Così la realtà della vita pubblica francese si oppone agli ideali egualitari della nazione. Le istituzioni pubbliche francesi sono definite più da gruppi di addetti e classe politica, mentre l’estrema destra e le misure xenofobe non fanno un interesse se non per una piccola minoranza (ma di tanto in tanto influente). »

« Noi crediamo che la Francia non abbia profittato completamente dell’energia, del dinamismo e delle idee delle sue minoranze. Nonostante alcune richieste francesi di essere un modello per l’assimilazione e la meritocrazia, le disuguaglianze innegabili offuscano l’immagine complessiva della Francia e indeboliscono la sua influenza all’estero. A nostro avviso, l’incapacità di sviluppare opportunità sostenibili e fornire una reale rappresentanza politica per la sua popolazione minoritaria potrebbe rendere la Francia un paese più debole e più diviso. Le conseguenze geopolitiche della debolezza e divisione della Francia colpiranno negativamente gli interessi americani, nella misura in cui abbiamo bisogno di partners forti nel cuore dell’Europa per aiutarci a promuovere i valori democratici. »

 

(Una strategia per la Francia : i nostri obiettivi)

« L’obiettivo fondamentale della nostra strategia di sensibilizzazione verso le minoranze è quello di mobilitare la popolazione francese a tutti i livelli al fine di aiutarli a realizzare i suoi propri obiettivi di uguaglianza. La nostra strategia si concentra su tre principali gruppi target : 1 la maggioranza e specialmente le élites ; 2 le minoranze con un’attenzione particolare per i leaders ; 3 la popolazione in generale. Utilizzando le sette tattiche di seguito noi miriamo 1 ad accrescere la coscienza delle élites di Francia per proporre dei benefici per aumentare le opportunità e dei costi per mantenere lo status quo ; 2 migliorare le competenze e sviluppare la fiducia dei leaders della minoranza che cercano di aumentare la loro influenza ; 3 comunicare alla popolazione generale francese la nostra ammirazione particolare per la diversità e il dinamismo della sua gente, insistendo sui vantaggi che si possono beneficiare dalle sue qualità aprendo le opportunità a tutti. »

 

(Impegnarsi in un discorso positivo)

« Per prima cosa concentreremo il nostro discorso sulle pari opportunità. Quando faremo dichiarazioni pubbliche riguardanti la comunità delle democrazie, insisteremo sulle qualità della democrazia, come il diritto alla diversità, la protezione dei diritti delle minoranze, il valore delle pari opportunità e l’importanza di un’autentica rappresentazione politica .»

« Cercheremo di fornire informazioni sui costi legati ad una sotto rappresentazione delle minoranze in Francia, sottolineando i benefici che abbiamo accumulato nel tempo lavorando duramente per rimuovere le barriere incontrate dalle minoranze americane. »

« Inoltre, continueremo ed intensificheremo il nostro lavoro con i musei francesi e gli insegnanti per riformare i programmi di storia insegnati nelle scuole francesi, in modo da tener conto del ruolo e punti di vista delle minoranze nella storia della Francia. »

 

(Evidenziare un esempio forte)

« Faremo un esempio. Continueremo ed allargheremo i nostri sforzi per far venire in Francia dei leaders delle minoranze degli Stati Uniti, lavorando con questi leaders americani per comunicare un giudizio onesto della loro esperienza agli stessi leaders francesi seguiti dalle minoranze e no. Quando invieremo dei leaders francesi in America, includeremo, anche piuttosto possibile, un elemento del loro soggiorno che riguarderà le pari opportunità. All’ambasciata continueremo ad invitare ai nostri eventi un largo spettro della società francese ed eviteremo così di organizzare degli eventi in cui non ci sarebbero che dei bianchi o delle minoranze. »

« In terzo luogo, perseguiremo ed espanderemo i nostri sforzi di sensibilizzazione della gioventù al fine di comunicare i nostri valori comuni con il giovane pubblico francese di qualunque sia l’origine socio culturale. Lo scopo è quello di creare un dinamismo positivo tra la gioventù francese che mira ad un sostegno più grande per gli obiettivi ed i valori degli Stati Uniti. »

« Al fine di realizzare questi obiettivi, ci appoggeremo sugli ambiziosi programmi di Diplomazia Pubblica già in atto e svilupperemo dei mezzi creativi e complementari per influenzare la gioventù francese impiegando i nuovi media, dei partenariati privati, dei concorsi sul piano nazionale, degli eventi di sensibilizzazione mirati, tra cui gli ospiti americani padroni di casa. (…) Svilupperemo anche dei nuovi strumenti per identificare i nuovi leaders francesi, apprendere da loro ed influenzarli. Nella misura in cui sviluppiamo le opportunità di formazione e di scambio per i giovani francesi, continueremo ad assicurarci di modo assolutamente certo che gli scambi che sosteniamo siano inclusivi. Ci appoggeremo alle reti della gioventù esistenti in Francia e ne creeremo dei nuovi nello spazio cyber legandone tra loro i futuri leaders di Francia al seno di un forum in cui aiuteremo a formare i valori, dei valori di inclusione, di reciproco rispetto e di dialogo aperto. »

 

(Per incoraggiare le voci moderate)

« Come quarto punto, incoraggeremo le voci moderate della tolleranza ad esprimersi con coraggio e convinzione. Premendo la nostra azione su due siti internet molto diffusi tra i giovani musulmani francofoni– oumma.fr e saphirnews.com – sosterremo, formeremo e mobiliteremo le militanze mediatiche e politiche che dividono i nostri valori. »

« Condivideremo in Francia – con le comunità religiose e con il ministero dell’interno – le tecniche più efficaci per insegnare la tolleranza attualmente in uso nelle moschee degli Stati Uniti, sinagoghe, chiese e altre istituzioni religiose. Siamo direttamente coinvolti col ministero dell’interno per confrontare l’approccio francese ed americano a sostegno di esponenti delle minoranze che promuovono la moderazione e la comprensione reciproca, confrontando le nostre risposte a quelle di coloro che cercano di seminare l’odio e la discordia. »

 

(Approfondire la comprensione del problema)

« Guardando in profondità gli sviluppi importanti, come il dibattito sull’identità nazionale, abbiamo in programma di monitorare le tendenze e, idealmente, di prevedere i cambiamenti riguardo la condizione delle minoranze in Francia, valutando in che modo questo cambiamento colpirà gli interessi americani. »

 

(Integrare, identificare e valutare i nostri sforzi)

« Infine un gruppo di lavoro sulle minoranze integrerà discorsi, azioni ed analisi delle sezioni e delle agenzie dell’ambasciata. Questo gruppo identificherà e controllerà i leaders e i gruppi influenti al seno del nostro pubblico principale. »

« Valuterà inoltre il nostro impatto nel corso di un anno esaminando degli indicatori di successo sia materiali che immateriali. I cambiamenti materiali includono un aumento misurabile del numero di dirigenti delle minoranze o membri di organizzazioni pubbliche o private e comprese quelle al seno degli istituti di insegnamento dell’élite ; un numero crescente di sforzi costruttivi dai leaders di minoranze per ottenere un sostegno politico e alla volta all’interno e al di fuori delle loro proprie comunità minoritarie ; un riflusso di sostegno popolare per i partiti e programmi politici xenofobi. Poichè non potremo mai rivendicare il merito per tali sviluppi positivi, concentreremo i nostri sforzi sulle attività sopra descritte che incoraggiano, spingono e stimolano il movimento nella giusta direzione. »

 

Priorità ai musulmani ?

 

La novità di questa politica di seduzone è che si concentra sulle comunità etnico-religiose in Francia. Il progetto consiste nel dire ai francesi che possono riuscire a valorizzare le minoranze come è stato fatto negli Stati Uniti.

Questa politica richiede pertanto una élite diplomatica e siti internet della comunità immigrata in Francia. Sono citati due siti principali che sono i siti oumma(13) e saphir(14) che si sono impegnati in una sorta di coming out a proposito delle loro relazioni con l’ambasciata degli Stati Uniti in Francia :

  1. Oumma.com(15) : « Abbiamo rapporti cordiali in realtà con il personale dell’ambasciata e questo contatto privilegiato ci ha permesso, per esempio, di ottenere un’intervista esclusiva con Farah Pandith, membro dell’amministrazione Obama. »
  2. Saphirnews(16) : «  Dei legami sono stati in effetti creati da molto tempo tra gli ufficiali americani in Francia e Saphirnews, che è stata condotta, per esempio, ad incontrare la porta voce del Congresso americano, Lynne Weil, nel dicembre 2008, per discutere dello stato della società francese. »

Il 2 dicembre, il console americano Mark Shapiro ha fondato un’associazione, nominata Confluenze, destinata a promuovere le minoranze e particolarmente la minoranza musulmana. Questo progetto è il risultato di una condivisione tra la regione Rhone-Alpes ed il dipartimento di stato americano, l’equivalente del nostro ministero di affari esteri. Secondo i messaggi diplomatici rivelati da Wikileaks, gli americani credono in effetti che la discriminazione dei musulmani possa suscitare ripetute crisi e possa fare della Francia un “paese debole” ed un alleato “meno capace”. L’associazione Confluenze ha per obiettivo di creare, animare e gestire a Lyon, un centro dedicato alla diversità e alla lotta contro le discriminazioni. L’addetto culturale del consolato americano a Lyon siede del resto al consiglio di amministrazione dell’associazione.

 

Nel dicembre 2010 è apparso negli Stati Uniti un nuovo fumetto di super eroi chiamato Nightrunner(17). Si tratta in realtà di Billi Asseiah, un islamista sunnita algerino di 22 anni immigrato in Francia (dovrebbe rappresentare la Francia) e residente a Clichy sous-Bois. Incarnante i valori di giustizia, onore e diritto, soccorre la vedova e l’orfano secondo un proverbio. Difende anche e sopratutto gli interessi della sua comunità (i musulmani) ingiustamente attaccati. Un elemento ancora più inquietante che il primo episodio della BD si svolge durante le rivolte di periferia del 2005 in Francia. Accompagnato da un amico, Bilal, allora sedicenne, è ingiustamente attaccato dalla polizia, picchiato anche se non aveva fatto nulla di male. Poi il suo amico è stato abbattuto dopo aver incendiato una stazione di polizia. Bilal diventa allora Nightrunner per ristabilire il giusto ordine e la democrazia. I creatori sono stati probabilmente ispirati dal progetto « Manga per promuovere l’alleanza militare USA-Giappone» (18)  destinata al giovane pubblico giapponese al fine di convincerlo dell’interesse dell’alleanza militare tra gli Stati Uniti e il Giappone, compreso il mantenimento della base americana d’Okinawa, sempre più contestata dalla popolazione.

 

Le personalità coinvolte

 

Le personalità coinvolte sono anche emblematiche. Si possono citare tra i più pubblicizzati :

  • Rokhaya Diallo, una giovane militante associata francese di origine senegalese che è portante per la televisione e la radio. Quest’ultima, femminista convinta, integra l’organizzazione dell’estrema sinistra Attac, prima di impegnarsi attivamente nel femminismo e nel settore del volontariato attraverso varie associazioni come Mix-città e gli indivisibili. Nel mese di marzo 2010, è stata selezionata per partecipare al programma Visitor Leadership internazionale : invitata dal governo federale degli Stati Uniti, visita il paese per studiare la diversità. Nel settembre 2010 è stata invitata al 40esimo Congresso Black Caucus, evento annuale che riunisce i parlamentari afro-americani degli Stati Uniti.
  • Reda Didi è un altro di quei francesi di origine immigrata corteggiato dagli Stati Uniti. L’ ex capo del movimento socialista ecologico francese « i verdi » ha anche fatto un viaggio negli Stati Uniti, accompagnato da 8 persone selezionate nel quadro del programma « Semi di Francia ». Semi di Francia ha come obiettivo di coinvolgere i cittadini nella vita politica creando dei nodi di militanti attivi, recrutati nelle popolazioni d’origine immigrata, se possibile. Will Burn, direttore della campagna di Obama per le sue elezioni al senato americano nel 2000 è anche quello che integra il consiglio di amministrazione del loro club di riflessione.
  • Ali Soumaré è il più conosciuto in Francia. Candidato PS alle elezioni regionali, come responsabile associativo, molto attivo in campo durante le rivolte a Villiers-le-Bel, è conosciuto negli Stati Uniti da più di due anni come « giovane leader dei quartieri di immigrati ». E’ stato ricevuto più volte all’ambasciata americana di Parigi ed ha partecipato a dei gruppi di lavoro sul modo di condurre una campagna elettorale. E stato anche consultato su diversi punti di attualità come l’integrazione. Ogni volta, gli viene srotolato il tappeto rosso. « Il mio partito, il PS non ha mai mostrato la metà degli interessi che gli americani mi hanno dato », racconta. « Con una certa umiltà, tentano veramente di comprendere le nostre problematiche. E eccitante ed estremamente lusinghiero. »
  • Almamy Kanouté, attivista e capo di una lista indipendente a Fresnes, è rientrato il 6 maggio scorso,un viaggio di tre settimane negli Stati Uniti. Nome del programma « Gestire la diversità etnica ».  «  E’ stato intenso, abbiamo seguito gli incontri, le visite, racconta, conquistato. Ne ho concluso che se gli americani non sono necessariamente riusciti al meglio nell’integrazione delle popolazioni di origine straniera rispetto i francesi, essi vi dedicano più risorse e più impegno. Lì mi sono sentito compreso : qui ho incaricato una comunità estremista. Loro almeno non mi giudicano. »
  • Said Hammouche, 37 anni, ha ugualmente partecipato al programma dei Visitatori Internazionali. E nato a Parigi e cresciuto a Bondy, in Sein-Saint Denis. Fondatore dell’ufficio di recrutamento Mozaik RH, che mira a favorire la diversità nell’impresa, è partito alla fine del 2008 negli Stati Uniti con il programma di scambio :  « Per loro (gli americani), questi viaggi servono per rompere le nostre idee sbagliate sul loro paese. Non siamo ingannati dal loro approccio, sappiamo che possono essere manipolati, ma oggi capisco meglio il desiderio di creare, intraprendere e far avanzare gli americani. E qualcosa di molto forte che mal conoscevo prima. »

Ma i soggiorni di qualche leaders identificato non sono tutto. Nel novembre 2010, in occasione del primo grande forum dell’impiego lanciato dall’associazione « I nostri quartieri hanno dei talenti », l’ambasciata americana ha partecipato all’organizzazione di un incontro con dei patroni di grosse società all’hotel Newport Bay Club a Disneyland Paris. Questa struttura di aiuto all’inserimento per i giovani delle minoranze esiste dal 2005 ed è stata creata dal Medef (Sindacato patronale francese) di Sein-Saint Denis, il dipartimento a più forte densità etnica e religiosa straniera di Francia. Il forum ha riunito quasi 5000 giovani. L’associazione « I nostri quartieri hanno dei talenti » ha cominciato ad operare nel dicembre 2009. Si augura di moltiplicare per dieci il numero dei giovani seguiti e la rete di padrini al 2015, senza dubbio col sostegno discreto dell’ambasciata americana.

 

Conseguenza inattesa : la distruzione della storia francese

 

Inoltre e secondo Wikileaks, nel testo inviato nel gennaio 2010(19) dall’ambasciatore Rivkin, si può leggere :  « Di più, continueremo e rafforzeremo il nostro lavoro con i musei francesi e gli insegnanti per riformare il programma di storia insegnato nelle scuole francesi, perchè essi prendano in conto il ruolo e le prospettive delle minoranze nella storia della Francia ». Nove mesi più tardi, nel settembre 2010, è stata votata una legge che riduceva al minimo la parte dei manuali di storia consacrati a dei personaggi storici (Francesco I, Enrico IV, Luigi XIV e Napoleone) o a certi momenti della storia francese, in alcune classi, al profitto di culture straniere, precisamente gli africani.

Questa decisione ufficiale è stata presa in Francia, nel 2010, nel nome dell’  « apertura alle altre civiltà del nostro mondo ». Lo stesso, lo studio della rivoluzione e l’impero sono sacrificati per poter meglio studiare le grandi correnti di scambio commerciali al 18esimo e 19esimo secolo comprendenti la tratta dei negri e la schiavitù. Nel nuovo programma delle classi del quarto : 4 ore di corso sono dedicate alla tratta dei negri mentre tutta la storia della rivoluzione e dell’impero è fatta in meno di 8 ore. Altro esempio edificante, Luigi XIV che costituiva un lungo periodo del primo trimestre del quarto è sostituito da un tema chiamato : « l’emergenza del re assoluto ». Il re sole è ormai rinviato al quinto alla fine dell’anno, anno al termine del quale si sarà lungamente attardati sulle civilizzazioni africane di Monomotapa e Songhai e sulla tratta orientale. In realtà , Francesco I, Enrico IV, Luigi XIV e Napoleone I sono relegati in ciò che i nuovi programmi scolastici qualificano « elementi di comprensione contestuale » e non faranno dunque oggetto di capitoli di studio a parte intera nei programmi dell’educazione nazionale francese.

 

Conclusione

 

Quale conclusione bisogna trarre da questa attività diretta verso le minoranze e dei programmi a favore delle periferie e dei francesi di origine straniera che costano ogni anno tre milioni di dollari all’ambasciata degli Stati Uniti ?

Anzitutto gli americani sono in un sistema imperialista di promozione del loro modello di società e di protezione dei loro interessi futuri in Francia, e la politica di detenzione e di promozione delle minoranze non è evidentemente un’azione umanitaria denudata di intenzioni mascherate. Questi programmi americani in favore delle minoranze si sviluppano in un contesto economico mediocre che rende difficile l’integrazione di nuovi immigrati in Francia. Esso mira sopratutto a migliorare l’immagine degli Stati Uniti presso i giovani musulmani di Francia, seguite alle guerre in Iraq e in Afganistan, su pretesto di promuovere la diversità, il rispetto delle differenze culturali e la riuscita per tutti. Ma queste strategie di reti e di influenza presentano un reale pericolo per la Francia. L’integrazione ottenuta di numerose correnti di immigrazione che il nostro paese ha conosciuto nel passato si è sempre realizzato senza alcuna rivendicazione etnico-religiosa ma ben da un processo complesso di totale assimilazione. La volontà americana di scommettere su delle élites etniche e religiose è fondata sulla riproduzione di un modello americano comunitarista totalmente contrario al modello francese d’integrazione, che è repubblicano, egualitario e non discriminatorio. Le difficoltà che la Francia incontra attualmente con le sue minoranze sono legate allo sviluppo eccessivo della comunitarizzazione che essa sia identitaria, sociale ed etnico religiosa. Sul territorio si sono sviluppate delle sotto culture trasversali, indipendenti infatti ostili all’identità francese. Per la Francia, paese cristiano ed europeo in cui l’avvenire è in europa, questa attività d’ingerenza è estremamente negativa. Crescendo i sentimenti comunitaristi e rivendicativi di minoranza etniche e religiose a riguardo dello stato francese, gli americani corrono il rischio di creare delle tensioni che potrebbero portare ad un punto di non ritorno. Inoltre, questa aggressione in regola contro il modello assimilazionista scelto dalla Francia potrebbe avere delle conseguenze esplosive, mentre si dice che le rivendicazioni etno-religiose si aggiungono a delle rivendicazioni regionaliste già sotto giacenti. Ci si può interrogare sulle intenzioni americane in questo dominio. Espandere il loro modello di società ? Indebolire la coesione delle società mirate per evitare la formazione in Europa di un polo economico-militare indipendente e concorrenti degli USA ? Non dimentichiamo di fare un parallelo con l’ossessione degli americani a fare entrare la Turchia nell’Unione Europea, ma anche ad impedire ogni ravvicinamento con la Russia.

 

(traduzione di Silvia Starrentino)

 

 

http://www.lalettrevolee.net/article-29628582-6.html

2 http://www.amazon.de/Krieg-Dunkeln-wahre-Macht-Geheimdienste/dp/3821855789

3 http://cablesearch.org/cable/view.php?id=07PARIS306

4 http://french.france.usembassy.gov/ambassadeur.html

5 http://www.nytimes.com/2008/08/06/us/politics/06bundlers.html?_r=1&ref=politics

6 http://exchanges.state.gov/jexchanges/programs/intl_visitor.html

7 http://www.youtube.com/watch?v=-POZO_oCAw0

8 http://www.brama.com/news/press/2004/07/040716mw_actionukrainecoalition.html

9 http://galliawatch.blogspot.com/search/label/Affirmative%20Action

0 http://transatlantica.revues.org/4321

1 http://en.wikipedia.org/wiki/Association_for_Cultural_Freedom

2 http://213.251.145.96/cable/2010/01/10PARIS58.html

3 http://oumma.com/

4 Http://www.saphirnews.com/

5 http://www.oumma.com/Oumma-com-un-remarquable-site

6 http://www.saphirnews.com/Wikileaks-Saphirnews-un-media-de-premier-plan-selon-les-Etats-Unis_a12029.html

7 http://en.wikipedia.org/wiki/Nightrunner_(comics)

8 http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-pacific-10851195

9 http://213.251.145.96/cable/2010/01/10PARIS58.html

Islanda, stato di eccezione?

$
0
0

“Sovrano è chi decide lo stato di eccezione”, scrive Carl Schmitt.

Applicando tale enunciato all’isolato caso islandese emerge che il governo di Reykjavik è titolare di reale sovranità, specialmente in relazione alla ricetta adottata per superare il totale dissesto finanziario che aveva provocato il fallimento nazionale del 2008.

Durante i periodi di crisi “la normatività – afferma Schmitt – è impotente” e dal momento che nel caso specifico tale “normatività” è eminentemente rappresentata dal Fondo Monetario Internazionale essa è stata sospesa dal governo islandese, che ha abbandonato la tutela dei creditori esteri – inesaustamente raccomandata dal Fondo – per il bene della comunità islandese.

Qualcosa di affine era accaduto durante la Repubblica di Weimar, quando il popolo tedesco richiese l’apertura di uno stato d’eccezione che soppiantasse un ordinamento giuridico finalizzato esclusivamente ad arricchire le grandi oligarchie finanziarie e ad alimentare un circuito falsato di corruzione funzionale al mantenimento di alcuni privilegi di determinati strati sociali a scapito della comunità.

Si tratta quindi di un raro atto di audacia politica, specialmente in relazione alla stagnante realtà europea.

Al momento del crac il debito pubblico accumulato da ogni cittadino islandese ammontava a circa 500.000 euro (a fronte di una popolazione composta da 320.000 persone circa), le principali banche nazionali erano fallite nel giro di poche settimane, l’inflazione aveva superato la soglia del 18% e la recessione aveva toccato la doppia cifra percentuale.

Il debito greco lambisce il 150% del Prodotto Interno Lordo, quello islandese raggiunse nel 2008 il 1.100%.

I primi a fornire assistenza al governo di Reykjavik impegnato a raccogliere le macerie finanziare cui era stata ridotta la nazione furono gli inviati del Fondo Monetario Internazionale, che impartirono direttive affini a quelle attualmente adottate dall’Unione Europea per “salvare” la Grecia; tagli delle pensioni, erosione del Welfare, privatizzazione dei beni statali.

Stessa cosa era accaduta in Argentina.

Buenos Aires aveva iniziato nel lontano 1989 a seguire pedissequamente le indicazioni del Fondo Monetario Internazionale, privatizzando l’intero patrimonio pubblico (petrolio, acqua, ferrovie, telecomunicazioni, poste, autostrade, elettricità, miniere, compagnie aeree), liberalizzando il commercio estero, riducendo stipendi e pensioni, eliminando il controllo dei cambi e tagliando il personale per contenere il debito pubblico.

La Costituzione venne modificata per fissare la parità tra peso e dollaro onde evitare che moneta potesse essere svalutata.

Parte dei proventi ottenuti per mezzo della dismissione dell’immenso patrimonio pubblico fu dilapidata dalla corrotta e inefficiente classe politica argentina e ciò che restava non fu sufficiente nemmeno a estinguere gli 8 miliardi di dollari di debito pubblico.

Nonostante il debito pubblico del paese crebbe esponenzialmente fino a lambire l’incredibile soglia di 132 miliardi di dollari nell’arco di pochi mesi, il Ministro dell’Economia Domingo Cavallo, molto vicino al Fondo Monetario Internazionale e pianificatore di tutte le manovre finanziarie argentine, fu nominato “eroe liberale dell’anno” dal New York Times.

La ricetta dell’”eroe liberale dell’anno” provocò una recessione economica che si protrasse ininterrottamente per quattro lunghi anni, portando al fallimento nazionale proclamato nel dicembre del 2001.

La lezione argentina è stata evidentemente imparata dall’Islanda, che ha scelto di ignorare i precetti del Fondo Monetario Internazionale svalutando la moneta, trasferendo i risparmi della popolazione sui conti correnti delle tre banche nazionali e congelando i fondi dei creditori stranieri depositati negli istituti di credito in fase di liquidazione.

 

Sullo sfondo di un’Eurozona che sforna manovre finanziarie “lacrime e sangue” imponendo enormi privazioni alla popolazione, si staglia quindi l’eccezione rappresentata dall’Islanda, che ha ridotto l’inflazione al 5% e che il prossimo anno riuscirà, secondo le stime, a incrementare il proprio Prodotto Interno Lordo del 2,8% rigettando le direttive del Fondo Monetario Internazionale.

Lo sviluppo cileno sotto l’ombra dei Chicago Boys

$
0
0

A pochi giorni dalla commemorazione dei dieci anni dall’attentato alle torri gemelle,  ci basta sfogliare poche pagine a ritroso per far riaffiorare nella mente un altro 11 settembre. Era il 1973 e nel profondo sud dell’America Latina prendeva vita una delle dittature più sanguinarie del ventesimo secolo. In Cile si consumano le ultime ore del Governo Allende, ma non si tratta della fine politica di un mandato, ma di una guerriglia urbana condotta dalle truppe in divisa cilena – ma con cuore a stelle e strisce – guidate dal generale Pinochet intenzionato ad assumere con la forza la guida del Paese. Ovviamente, come nella gran parte dei colpi di Stato, l’idea si tramuta in realtà e la Moneda cade sotto i colpi dell’artiglieria come Salvador Allende che non sopravvive a quest’ennesimo gesto di idiozia. Da questa data la Storia può riassumersi con dei freddi numeri: 17 anni di dittatura militare, 37000 cittadini oggetto di reclusioni clandestine e torture, oltre 3000 cittadini uccisi o scomparsi (dati aggiornati dalla commissione Velech nel 2011) per non parlare dei capitali depredati dal Generale e dai suoi protettori e protetti durante questo periodo. Nulla può risarcire tanta sofferenza, neanche la giustizia che è riuscita a concedere a Pinochet di vivere fino all’ultimo dei suoi giorni da uomo libero.

Dopo 21 anni dalla dittatura i numeri ci parlano di un repubblica liberale che ha cavalcato un boom economico di grande importanza e che porta il Cile alle porte del club delle Economie Emergenti del ventunesimo secolo: tasso di crescita del PIL del 5,30%, inflazione all’ 1,70%, tasso di crescita della produzione industriale del 3,20%, bilancia commerciale in netto miglioramento grazie all’aumento delle esportazioni. Per quest’ultimo punto, va menzionata l’importanza strategica di diversificare la propria produzione volta all’esportazione. Ciò ha reso possibile lo sviluppo di nuovi settori produttivi senza prescindere dalla crucialità del settore minerario che rappresenta ancora oggi la principale fonte di capitale straniero. Difatti la crescita economica cinese è stata accompagnata da un aumento della richiesta di rame – per il quale il principale esportatore è il Cile – portando il colosso cinese quale primo acquirente mondiale delle risorse minerarie cilene. Per capire come la diversificazione sia la prerogativa dell’economia cilena basta osservare la composizione del PIL cileno già nel 2008: 51% servizi, 35,5% industria, 5,5% agricoltura.

A questo punto viene spontaneo cercare con stupore i motivi delle proteste popolari – prima studentesche, ma ben presto rinvigorite dal fluire di altri malumori sociali – che oggi interessano la capitale cilena e non si fa fatica a scoprire come il passato decida il volgere del presente. Si contesta il presidente Piñera, ed un’attenta analisi fa capire che non si tratta di una contestazione riconducibile a mere ideologie politiche. Piñera è semplicemente il soggetto politico attuale, ma la contestazione nasce da un’amministrazione politica passiva che ha inizio nel 1990 e che si è trascinata sino ad oggi. Infatti, tutti i Governi che si sono susseguiti in Cile, non hanno apportato alcun cambiamento importante al lascito politico della dittatura di Pinochet. Se negli anni ’80 si è dato il via ad un’apertura selvaggia dei mercati e ad una conseguente privatizzazione delle attività principali della nazione, questa condizione non ha subito alcuna moderazione dagli anni ’90 in poi. Pinochet affidò le sorti economiche del Paese ai Chicago Boys – giovani economisti cileni istruiti presso l’Università di Chicago e fortemente influenzati dalla dottrina capitalistica e del libero mercato – che ben presto svilupparono una legislazione liberista e favorevole ad una forte privatizzazione di tutti i settori dell’economia cilena e senza risparmiare il sistema pensionistico e scolastico.

Prendiamo in esame quattro tematiche critiche nell’attuale Cile: il sistema scolastico, la condizione dei minatori e del mercato del rame, il sistema pensionistico e la “Ley Antiterrorista”.

 

Gli studenti sono stati tra i primi a manifestare la loro esasperazione per un sistema scolastico iniquo. In Cile il tasso di alfabetizzazione si attesta sul 95,7% – uno dei più alti in Sud America – ma se si va ad analizzare nel dettaglio si scopre che più il livello d’istruzione si alza, più il livello sociale degli studenti è alto. In poche parole vige un sistema che privilegia lo strato sociale più adagiato economicamente. La causa è riscontrabile in una legge introdotta negli anni ’80 che deregolamenta di fatto il sistema scolastico (LOCE – Ley Orgánica Costitucional de Enseñanza). La sua gestione viene affidata agli enti locali che non riescono a finanziare le scuole – solo per un 25% coprono direttamente i costi – e perciò si affidano a tasse scolastiche molto alte. Tale meccanismo agevola le aziende creditizie che o concedono prestiti a tassi molto alti alle famiglie per sostenere gli studi dei propri figli, o acquisiscono di fatto le scuole privatizzandole e rendendo l’accesso inaccessibile ai ceti meno ricchi della popolazione. In definitiva uno studente universitario di ceto medio-basso o abbandona gli studi per gli inaccessibili costi o, una volta laureato, si ritrova con un debito non indifferente sulle spalle. Da qui l’esasperazione degli studenti che chiedono un risanamento della scuola pubblica.

 

A tale protesta si sono uniti i lavoratori delle miniere che per lo più vivono in condizioni precarie senza garanzie ne dal punto di vista salariale – la retribuzione è nettamente inferiore a quella dei lavoratori a tempo indeterminato – ne dal punto di vista sanitario e di accesso all’istruzione – sia per loro che per i propri figli. Si può dire che il settore minerario è stato quello che maggiormente, dal ’73 ad oggi, ha subito una forte privatizzazione portando il 70% delle risorse di rame, in mano ai privati relegando alla Codelco (Corporaciòn del Cobre) il rimanente 30%. Tali dettagli portano ben presto ad una più profonda analisi del PIL, che nasconde una redistribuzione delle ricchezze iniqua e inadatta per uno sviluppo reale dell’intera Nazione.

Resta emblematica, parlando del settore minerario, la sorte dei 33 minatori che poco più di un anno fa hanno tenuto con il fiato sospeso il mondo intero. Ancora oggi tutti ricordiamo il loro salvataggio dopo 69 giorni di “prigionia” forzata nelle profondità della miniera di San Jose, ma non tutti sanno che gli stessi minatori – dei quali la metà risulta oggi disoccupata e solo 4 sono rientrati a lavorare in una miniera – sono in causa con lo Stato per non aver ricevuto la pensione di 430 $ tanto pubblicizzata a livello mediatico da Piñera subito dopo il salvataggio.

 

Ed eccoci alla terza tematica: il sistema pensionistico. Le proteste degli ultimi due mesi volgono la loro attenzione anche alla necessità di un sistema pensionistico pubblico e alla rimozione di privilegi fiscali per la classe più agiata della popolazione. Anche qui ci troviamo dinanzi ad un lascito dei Chicago Boys che nel 1980 introdussero il Sistema a Capitalizzazione Individuale. Con tale sistema ogni lavoratore va a formare la propria pensione futura versando obbligatoriamente un 10% del proprio salario – di per sè non alto – in un conto apposito presso un istituto assicurativo privato. Il lavoratore ha facoltà di versare un ulteriore 10% e di scegliere il proprio AFP (Amministratore dei Fondi Pensione). L’AFP reinveste il deposito in azioni – rispettando vincoli riguardanti il rischio e di diversificazione del portafoglio – andando in concreto a generare un flusso di profitti per la stessa agenzia assicurativa. Inoltre, come in ogni libero mercato, si genera un’alta concorrenza tra le varie agenzie che per conquistare nuovi clienti, propongono margini di profitto poco veritieri.

 

Per concludere va citata la Ley Antiterrorista voluta da Pinochet e che colpisce la popolazione indigena Mapuche cioè il 25% della popolazione cilena. Con tale legge il Generale voleva colpire gli indios che rivendicavano i propri diritti. Dal 1990 ad oggi, la passività dei Governi cileni ha fatto si che molti processi si concludessero in maniera ingiusta per gli indios che oggi, esausti, reclamano un trattamento innanzi alla legge, identico a quello destinato al 75% dei loro connazionali.

 

In definitiva, allo stato attuale si pongono due scenari possibili di fronte al sistema socio-politico cileno:

  • un processo riformista volto ad accompagnare la popolazione in uno sviluppo, si sostenuto, ma coadiuvato da una maggiore equità nella distribuzione dei profitti che ne scaturiscono;
  • un processo rivoluzionario destinato a cambiare un sistema economico e politico iniquo per la popolazione.

Ciò che accadrà dipenderà esclusivamente dalla reazione della classe politica alle esigenze reali dei cileni. Se continuerà a sopravvivere il sistema legislativo ereditato dalla dittatura di Pinochet, il secondo scenario sarà il più plausibile ed il meno auspicabile dato che comporterebbe l’arresto dello sviluppo economico sin qui ottenuto. Per il Cile è giunto il momento di chiudere definitivamente la porta del passato, per poter godere pienamente del florido futuro che potenzialmente lo attende.

Come disse Salvador Allende l’11 settembre del 1973: “…il domani sarà del popolo. Sarà dei lavoratori. L ‘umanità avanza verso la conquista di un mondo migliore…”.

 

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 


Informazione e tecnologia: le nuove frontiere del warfare

$
0
0

 

Informazione e guerra sono da sempre profondamente legate tra loro: l’informazione è comunicazione della guerra, ma è anche comunicazione in guerra, la ricerca di dati sensibili che possano garantire un netto vantaggio sul nemico. Carlo Jean ha parlato di informazione come “moltiplicatore di potenza”: informazione, nel Terzo Millennio, è arma e terreno stesso di scontro, il web è teatro di attacchi e contrattacchi, semplici virus da computer sono in grado di paralizzare e preoccupare interi Stati i quali, a fianco dei tradizionali eserciti di professionisti in divisa, cominciano a valutare l’ipotesi di schieramento di truppe di hacker (spesso poco più che ragazzi), capaci di mandare in tilt i sistemi informatici del nemico. La geostrategia globale deve dunque prepararsi ad affrontare le “nuove guerre” e, con esse, nuovi paradigmi e nuove dottrine geopolitiche.

 

 

Definire l’Information Warfare

 

Entrando nel vivo del XXI secolo, ritorna spesso la nozione di “guerre moderne” e, andando ad approfondire la tematica, ci si rende conto di come ci sia un concetto particolarmente ricorrente, divenendo oggetto di studi, analisi ed approfondimenti da parte sia dei teorici di geopolitica sia del mondo della difesa e degli studi strategici: ci si riferisce al cosiddetto Information (based) Warfare.

L’ex Sottosegretario alla Difesa americana e supervisore del settore C4 (Comando, Controllo, Comunicazioni e Computer), Emmet Pajge, ha definito l’Information Warfare come quelle «azioni poste in essere per conquistare la superiorità dell’informazione a supporto delle strategie militari nazionali, andando a colpire l’informazione e i sistemi militari avversari e provvedendo a proteggere e difendere i propri sistemi e informazione» (cfr. Rapetto e Di Nunzio, Le nuove guerre, 2001). Tale definizione viene compendiata dallo “US Army Field Manual (FM) 100-6, Information Operations”, che contempla anche «la protezione e la difesa di tutti i processi e flussi basati sull’informazione».

Non mancano le “definizioni operative”, quelle, cioè, che puntano a sottolineare vantaggi e svantaggi dell’uso concreto di tale approccio. Ad esempio, l’Information Resources Management College ha definito l’Information Warfare «una metodologia di approccio al conflitto armato, imperniata sulla gestione e l’uso dell’informazione in ogni sua forma e a qualunque livello, allo scopo di assicurarsi il decisivo vantaggio militare» (cfr. Rapetto e Di Nunzio, op.cit.). Più precisamente, secondo lo US Joint Staff, «è quell’azione intrapresa per raggiungere la superiorità di informazione a sostegno della sicurezza nazionale, andando ad influire sulle informazioni del nemico, sui sistemi informativi e sui network computerizzati, e, contemporaneamente, rinforzando e proteggendo le proprie informazioni, i propri sistemi informativi e i propri network computerizzati» (cfr. Bellamy, What is Information Warfare?, 2001).

 

L’avvento della “Terza Ondata”: elementi distintivi

 

Trovare una definizione unanimemente condivisa è tuttavia piuttosto difficile, in quanto vige un certo scetticismo circa l’efficacia, se non addirittura l’esistenza stessa, dell’Information Warfare. Questo perché siamo ancora agli inizi di quella che i Toffler hanno definito “la Terza ondata”, vale a dire l’avvento dell’Era dell’Informazione. Gli elementi principali che la caratterizzano, spesso combinati ed interagenti tra di loro, sono comunque già facilmente identificabili e possono essere così sintetizzati: 1) semiconduttori avanzati, 2) computer, 3) fibre ottiche, 4) tecnologia cellulare, 5) satelliti, 6) network, 7) crescente interazione uomo-computer, 8 ) trasmissione e compressione digitale dei dati, qualunque sia l’attività o l’ambito di riferimento.

Presa singolarmente, ogni categoria è in grado di incrementare notevolmente le capacità dell’uomo di comunicare, superando gli ostacoli rappresentati essenzialmente dalle distanze spazio-temporali e dalla diversità di linguaggi e culture; combinate insieme, queste categorie hanno un impatto decisivo non solo sul piano militare, ma anche su tutte le attività umane quotidiane. Questo perché esse favoriscono una maggiore velocità nella trasmissione e gestione delle informazioni, la possibilità di scambiare pacchetti di dati sempre più pesanti – e, dunque, completi – e, soprattutto, esse permettono la cosiddetta “democratizzazione” dell’informazione: le nuove tecnologie, cioè, hanno ampliato i canali e le possibilità di accesso ai sistemi informatizzati e di informazione, che possono dunque essere usati e gestiti da un numero sempre maggiore di utenti.

Ne consegue che i principali paradigmi geopolitici stanno ormai cambiando ed il coinvolgimento di concetti come “informazione”, “sistemi informativi” e “network” fa sì che la guerra in sé non sia più limitata solamente all’ambito militare propriamente detto, ma stia diventando più “globalizzata”, andando ad intaccare anche altri ambiti della vita umana, dall’economia alla cultura, alle mode ed abitudini dei giovani del XXI secolo.

 

Nuovi paradigmi organizzativi: il Network-centric Warfare

 

A cambiare è innanzitutto il paradigma organizzativo e network è la parola d’ordine: la Rivoluzione dell’Informazione ha incrementato l’importanza di tutte le forme di network, da quelle sociali a quelle economiche, da quelle delle comunicazioni a quelle delle istituzioni (che stanno assumendo sempre più strutture a rete, piuttosto che gerarchizzate). Una delle conseguenze dell’Era dell’Informazione, infatti, è proprio l’erosione delle gerarchie e dei confini classici entro cui sono state costruite le varie istituzioni nel corso della storia.

Una struttura a rete, inoltre, rende sempre più difficile e complessa la distinzione tra contesto esterno e contesto domestico: oggi, come mai prima d’ora, le minacce alla sicurezza interna di uno Stato possono (e devono) essere lette anche come potenziali segnali d’allarme di una più ampia minaccia esterna. I concetti di “crimine” e “guerra” si intrecciano sempre di più, fino ad offuscare significati e dettagli distintivi: si pensi, a titolo esemplificativo, a come spesso il traffico di droga venga collegato al finanziamento di attività terroristiche, rendendo così la lotta contro i traffici di droga un elemento fondamentale della lotta globale al terrorismo.

Ne consegue che al concetto di Information Warfare si affianca quello di Network-centric Warfare: da un lato, l’informazione diventa sia obiettivo sia strumento, dall’altro, le strutture e le istituzioni coinvolte sono sempre meno gerarchizzate. Secondo la definizione dell’Ufficio per la Trasformazione delle Forze del Pentagono, «Il Network-centric Warfare rappresenta un potente insieme di concetti riguardanti il combattimento in guerra e associati alle capacità militari che permettono ai combattenti di ottenere pieno vantaggio da tutte le informazioni disponibili e sfruttarle in modo rapido e flessibile. I principi del Network-centric Warfare sono così sintetizzabili: una forza con una struttura a network, che migliora lo scambio di informazioni; questo scambio, a sua volta, accresce la qualità dell’informazione e diffonde un maggiore senso di consapevolezza della situazione in cui si è coinvolti; tale consapevolezza favorisce la collaborazione e la sincronizzazione, aumentando la sostenibilità e la velocità dei comandi; tutto ciò, a sua volta, incrementa considerevolmente l’efficacia delle missioni» (Luddy, The challenge and promise of Network-centric Warfare, 2005).

 

Martin Libicki e le “nuove guerre”

 

Molti analisti hanno studiato (e continuano tuttora a farlo) le conseguenze che la nuova Era dell’Informazione e del Network-centric Warfare avranno sulla condotta delle operazioni militari, ed il risultato è stata, come si accennava all’inizio, la formulazione di una serie di “nuove guerre”, che dovrebbero caratterizzare nel futuro prossimo il mondo militare ed il modo di condurre le operazioni. La categorizzazione che viene ripresa più o meno da tutti gli esperti è quella proposta dal professor Martin C. Libicki dell’Institute for National Strategic Studies, il quale identifica ben sette forme di Information Warfare: vediamo di analizzarle una per una, integrando ciascuna categoria con definizioni, concetti correlati ed eventuali esempi.

 

1. Command-and-Control Warfare (C2W): ha come obiettivo principale i centri C2 (Comando e Controllo) del nemico. Il concetto di C2 indica la capacità dei comandanti militari di gestire e coordinare le forze schierate sul campo. Nell’era dell’Information Warfare, al concetto di C2 viene affiancato quello di C4 (Comando, Controllo, Comunicazione e Computer): questo per sottolineare l’importanza delle comunicazioni nella fase di coordinamento delle forze, comunicazioni che, oggi, avvengono sempre più grazie a e per mezzo di sistemi computerizzati. Le due principali attività del C2W sono l’antihead, che punta a colpire la testa del nemico, e dunque il centro di comando, e l’antineck, che mira invece al collo, andando cioè ad interrompere le comunicazioni tra il comando e le forze del nemico. A nostro avviso, considerato quanto affermato in precedenza relativamente al concetto di network e alle strutture sempre più a rete e meno gerarchizzate, è molto probabile che si assisterà principalmente ad attività antineck, combinate con altre forme di guerra, prime fra tutte l’Hacker Warfare e l’Electronic Warfare.

 

2. Intelligence-based Warfare: mira alla protezione o distruzione, a seconda dei casi, dei sistemi che consentono di ottenere informazioni strategicamente vitali. L’importanza dell’intelligence militare è storicamente nota, basti pensare alla massima di Sun Tsu «conosci il nemico come conosci te stesso». I servizi di informazione conducono una guerra parallela a quella combattuta sul campo di battaglia, cercando (oggi grazie soprattutto alle moderne tecnologie informatiche e satellitari) informazioni utili per le proprie forze e bloccando un deflusso contrario, verso l’avversario. Il tutto per assicurarsi quella superiorità cognitiva in grado di agire come vero e proprio “moltiplicatore di potenza”.

 

3. Electronic Warfare: sfrutta essenzialmente tecniche radioelettroniche e di crittografia. Non si ritiene opportuno addentrarsi qui in specificazioni tecniche, è tuttavia sufficiente menzionare le cosiddette Active Denial Technologies per esemplificare questa tipologia di combattimento: queste tecnologie rientrano nella categoria delle “armi non letali” e si basano essenzialmente su impulsi elettromagnetici di potenza variabile, in grado di bloccare l’avanzata del nemico ancora a lunga distanza. Armi, queste, che stanno prendendo piede soprattutto nella lotta alla pirateria marittima, evitando così lo scontro diretto e, dunque, riducendo il pericolo di vittime.

 

4. Psychological Warfare, la cosiddetta “conquista dei cuori e delle menti”, ossia l’uso dell’informazione per plasmare a proprio vantaggio le opinioni e le menti, sia sul fronte interno che su quello esterno (nemico o neutrale). È la classica guerra psicologica, combattuta principalmente a suon di propaganda ed altre azioni volte a influenzare le opinioni, le emozioni e gli atteggiamenti di un gruppo “obiettivo”, che può essere sia amico, sia nemico, sia neutrale. Oggi questa tipologia di guerra viene chiamata anche “Infowar”, per sottolineare proprio l’importanza tattica e strategica dell’uso dell’informazione per scopi bellici. Gli esempi, in questo caso, abbondano, spaziando dalla nota “Campagna contro gli Scud” della Guerra del Golfo del 1991, alle tecniche di demonizzazione del nemico, usate, via via, contro il regime di Saddam Hussein, durante la crisi umanitaria dei profughi kosovari per promuovere la guerra contro Slobodan Milošević o, più recentemente, contro il leader libico, Mu’ammar Gheddafi.

 

5. Hacker Warfare: l’esercito di combattenti si identifica in un gruppo di esperti informatici che, per mezzo di varie tecniche di “hackeraggio”, va a colpire i sistemi informatizzati nemici, modificando, danneggiando o cancellando pacchetti dati di notevole importanza. Già nella primavera del 2007 il mondo cominciò a tremare di fronte al pericolo di una guerra combattuta attraverso i computer, quando l’Estonia venne duramente colpita nel suo apparato informatico, molto probabilmente per mano russa: i siti web del Parlamento, della Presidenza, di quasi tutti i Ministeri, delle principali banche, testate giornalistiche e televisioni nazionali vennero bloccati da una serie di attacchi cibernetici, tanto da portare il Paese ad appellarsi all’art. 5 del Trattato NATO. Oppure pensiamo al caso Stuxnet, che da circa un anno impegna analisti ed esperti informatici. O ancora al cosiddetto Syrian Electronic Army, che la scorsa estate, nel pieno delle rivolte in Siria, ha condotto una serie di attacchi ad alcuni siti di “propaganda anti-governativa”, lanciando azioni di defacing, modificando, cioè, i contenuti delle pagine web considerate fonte di disinformazione contro il regime di Assad.

 

6. Economic Information Warfare: mira a bloccare i canali di comunicazione e di informazione di rilevanza economica nemici, al fine di garantire la propria supremazia. È noto a tutti come in guerra anche le attività produttive del tutto normali in tempo di pace assumano particolare rilevanza strategica: dall’industria alimentare a quella meccanica, si passa oggi a tutte quelle attività di analisi e scambio di informazioni economico-finanziarie di vitale importanza per un Paese. Ancora una volta, il principale terreno d’azione è il web che, da un lato, ha modernizzato, velocizzato ed ottimizzato i sistemi di gestione dati, ma, dall’altro, li ha resi anche più vulnerabili ad attacchi di nuova generazione (si pensi ad un hacker che violi i database di una banca o ad un attacco elettromagnetico in grado di distruggere potenti calcolatori e tutti i dati in essi contenuti).

 

7. Cyberwarfare, che Libicki definisce come «una pesca miracolosa di scenari futuristici», dal momento che questa categoria rappresenta una sintesi di tutti i possibili scenari bellici che contemplano l’uso delle più moderne e sofisticate tecnologie informatiche, satellitari ed elettroniche.

 

Conclusioni

 

È ancora troppo presto pensare che le guerre non debbano più essere combattute sul campo: sarebbe uno scenario futuristico pressoché utopistico, dove l’idea di un combattimento a “morti zero” diventerebbe realtà. Occorre tuttavia accrescere la consapevolezza che, accanto alla guerra combattuta sul terreno, se ne svolgono ormai altre in parallelo: quella dell’intelligence, quella della propaganda e delle operazioni psicologiche, quella combattuta sul web ed, ultimamente, attraverso i social network. Una consapevolezza che è necessaria per sopravvivere, dal momento che la storia ha dimostrato troppe volte come sia difficile sopravvivere alle rivoluzioni degli affari militari senza uno spirito di adattamento e sperimentazione.

 

 

* Elisa Bertacin è laureata in Scienze internazionali e diplomatiche, presso la Facoltà “R. Ruffilli” di Forlì (Università di Bologna), con una tesi in Studi strategici. Dopo aver frequentato alcuni corsi di cooperazione civile-militare presso il Multinational CIMIC Group ed il Centro Alti Studi per la Difesa, ha conseguito il Master di secondo livello in “Peacekeeping & Security Studies” presso l’Università Roma Tre. Ha effettuato un periodo di ricerca presso il Centro Militare di Studi Strategici ed attualmente collabora con la sezione italiana del Mediterranean Council for Intelligence Studies e con OMeGANews, giornale dell’Osservatorio Mediterraneo di Geopolitica ed Antropologia.

Kosovo: ancora fumo dalla polveriera d’Europa

$
0
0

27 luglio, due giornate di tensioni sui valici di confine Bernjak e Jarinje nella zona nord del Kosovo, municipalità di Mitrovica, si concludono con l’esplosione di un ordigno e scontri che provocano la morte di un poliziotto kosovaro e il ferimento di altri tre. La tensione è salita in seguito alla decisione di Pristina di inviare ufficiali di reparti speciali della polizia kosovara a prendere controllo dei valici nord 1 e 31 che collegano il Kosovo con la Serbia. La decisione ha scatenato la risposta della minoranza serba maggioritaria nell’area, che non riconosce l’autorità di Pristina e continua a fare riferimento alle istituzioni serbe che svolgono de facto la maggior parte delle funzioni amministrative sul territorio. A due mesi di distanza la situazione rimane “pacifica ma instabile” come le organizzazioni internazionali e i media amano dipingerla. Instabilità dimostrata dagli incidenti incorsi negli scorsi giorni quando uomini della Kfor hanno aperto il fuoco sui manifestanti serbi che si sono opposti allo smantellamento di uno dei blocchi stradali da parte delle truppe NATO. In linea con il controverso accordo temporaneo raggiunto il 16 settembre, dopo due mesi di spolette diplomatiche e tentativi di mediazione della NATO e dell’ EU, lo staff della missione civile europea EULEX ha preso in carico la gestione delle operazioni di frontiera affiancando il personale kosovaro sotto la tutela delle truppe della Kfor, con parziale soddisfazione di Pristina e il disappunto di Belgrado. Nonostante gli appelli a smantellare le barricate, la comunità serba continua a bloccare la viabilità dell’area a nord del fiume Ibar impedendo la riapertura dei valici 1 e 31. “Questa e’ la nostra terra, il nostro territorio” dichiara uno dei manifestanti al quotidiano B92. “Quando posizioni un ufficiale di frontiera, è come dispiegare una bandiera. E prima che te ne renda conto avrai un cosidetto Kosovo imporre legge e la gente qui sarà circondata da qualcosa che assomiglia allo stato del Kosovo! Loro non possono semplicemente accettare questo! […] Nessuno al mondo può dire a questo popolo serbo di cedere, accettare il Kosovo indipendente e andare a casa. Non accadrà mai, non lo faranno” spiega il capo negoziatore Borislav Stefanovich.

La decisione di Pristina rappresenta l’attuazione della decisione di adottare il principio di reciprocità in materia commerciale nei confronti della Serbia e della Bosnia ed Erzegovina. I due stati, infatti applicano un embargo sulle merci kosovare dal 2008, data dell’unilaterale dichiarazione di indipendenza, rifiutandosi di riconoscere i timbri doganali riportanti la dicitura “Republica del Kosovo”, misura che Belgrado si è ripetutamente rifiutata di ritirare nonostante le pressioni di Pristina nell’ambito del dialogo mediato dall’Unione Europea.

Ma l’atto di Pristina trova evidentemente ragione nella volontà di affermare la sua autorità nella zona nord del paese, dove la maggioranza serba si rifiuta di riconoscere la legittimità del Kosovo e chiede di fare parte della Serbia. L’azione è il tentativo di cambiare la situazione sul terreno, con lo scopo di avere ulteriori ragioni da presentare sul tavolo del dialogo con Belgrado.

Il caso diviene nuova miccia che surriscalda la polveriera balcanica. Benchè adombrata dagli avvenimenti in medioriente, le diatribe che infiammano le focose etnie balcaniche diventano occasione di tensione nella diplomazia internazionale, che si muove nei ristretti margini della neutralità della missione amministrativa ad interim UNMIK, della missione NATO e della missione civile UE. Le riunioni del Consiglio di Sicurezza in cui si è discussa la situazione in Kosovo, ultima il 15 settembre, data di scadenza dell’accordo stipulato il 2 dello stesso mese, dà modo a Mosca di ribadire il suo pieno supporto a Belgrado, sostenuta dalla Cina che, pur meno esplicita, per evidenti ragioni di politica interna non ha alcuna simpatia per l’autoproclamata indipendenza di Pristina. L’ambasciatore russo Churkin non manca l’occasione per ricordare che il Kosovo non è che un ospite in seno all’ONU e che non può partecipare alle riunioni se non accompagnato da un rappresentante UNMIK o su invito di uno Stato Membro. Il congresso internazionale si risolve a ribadire il ruolo della missione di pace e a richiamare EULEX e KFOR a trovare una soluzione tecnica nell’ambito dei sei punti programmatici adottati nel 2008, secondo i quali l’area nord del Kosovo deve esere considerata un’area doganale indipendente. Il Segretario Generale Ban-ki moon ribadisce che il Piano Ahtisaari rimane il quadro più favorevole ai Serbi del nord del Kosovo, suscitando i malumori di Belgrado che lo ritene inaccettabile e ne ha impedito l’adozione da parte del CdS dal 2008.

La crisi mette nuovamente in difficoltà l’UE nel trovare un giusto equilibrio fra carota e bastone, tanto con la Serbia che con Il Kosovo. Sotto la mediazione dell’Unione Europea, in marzo 2011 è stato lanciato un dialogo per discutere gli effetti pratici sviluppatisi a causa del disaccordo sullo status del Kosovo, come cooperazione regionale, telecomunicazioni, riconoscimento dei diplomi etc. Accordi che hanno un impatto importante sulla vita di tutti i giorni della popolazione Kosovara, ma lasciano da parte il nocciolo della questione. Il nord non è infatti in agenda, secondo la volontà di Pristina che si rifiuta di partecipare ad un dialogo politico con Belgrado. Alla vigilia del secondo appuntamento, in agenda il 28 settembre scorso, la strategia del “un passo alla volta” ha cominciato a vacillare. In conseguenza al degenerare della situazione, Tadic ha posto come condizione sine qua non per la continuazione del dialogo l’inserimento all’ordine del giorno della situazione del Nord. Al rifiuto dell’UE, il secondo appuntamento è stato posticipato a data da destinarsi.

La mossa di Tadic evidenza la volontà serba di non rinunciare agli interessi nazionali e cercare di difendere il potere negoziale che può ancora vantare. Potere che si è notevolmente ridotto dal 2008, quando la dichiarazione unilaterale di indipendenza ha messo Belgrado di fronte ad una situazione de facto svantaggiosa rispetto alla rivendicazione di un Kosovo serbo. Parallelamente Pristina preferisce rafforzare il suo controllo sul territorio, soprattutto a nord ed avere il supporto del maggior numero di stati prima di negoziare con Belgrado i termini del divorzio.

A conti fatti, Pristina può contare sulle simpatie degli USA e di alcuni paesi chiave europei come la Germania, la Francia e l’Italia. Cionondimeno, l’operazione lanciata a fine luglio ha reso evidente la debolezza della sua autorità nel nord del paese, dimostrato l’inefficacia della strategia dell’integrazione forzata del nord Kosovo e indebolito la sua posizione nell’ambito del processo politico. Terreno quest’ultimo sul quale cerca di recuperare lavorando intensamente per ottenere il riconoscimento del numero più alto possibile di Stati, che hanno appena raggiunto quota 84 con il riconoscimento nell’ultimo mese di Nigeria, Gabon e Costa d’Avorio. Sull’altro piatto della bilancia, Belgrado ha da rallegrarsi della lealtà dimostrata della popolazione serba di Mitrovica nel momento di crisi, circostanza che ha incrementato la credibilità delle istituzioni “parallele” e dato nuovo iato alla rivendicazione di un Kosovo parte integrante della Serbia. Guadagna inoltre in termini di consenso interno, accontentando le aspirazioni tanto dalle forze di governo che di opposizione, che fanno entrambe della questione del Kosovo serbo propria bandiera. Pesa, però, sulla testa del Presidente Tadic, spada di Damocle, il parere della Commissione Europea circa il conferimento dello status di paese candidato, attesa il prossimo 12 ottobre. Il governo di Tadic ha indubbiamente lavorato intensamente negli ultimi mesi per assicurare un parere positivo. Dopo i due eccellenti arresti di Ratko Mladic e Goran Hadzic, la normalizzazione dei rapporti con Pristina e un positivo atteggiamento nell’ambito del dialogo mediato da Bruxelles, rimane l’ultimo test per ottenere la maturità. Venendo meno alla cautela di rito, nella visita ufficiale pagata a fine agosto, la cancelliera Merkel ha senza mezzi termini avvertito Belgrado che deve smantellare le istituzioni paralle nel nord del paese e normalizzare i rapporti con il Kosovo se vuole avvicinarsi alla membership europea. Del resto la ben nota fatigue ad affrontare un ulteriore allargamento, specie in tempo di crisi, dà ulteriori buone ragioni ai negoziatori di Bruxelles ad utilizzare con gli aspiranti candidati il bastone molto più che la carota. Inoltre Belgrado deve affrontare la pressione delle imprese nazionali che, secondo la Camera di Commercio serba stanno pagando il blocco delle esportazioni verso il Kosovo con perdite di circa 50 milioni di euro al mese. Tadic ha pertanto optato per un approccio certamente risoluto, ma volto, almeno a termini di proclama, ad evitare l’escalation della violenza. La comunità serba kosovara grida oggi al tradimento e all’abbandono da parte della madre patria che ha infine accettato i timbri emessi sotto il controllo Kfor in base all’accordo raggiunto il 16 settembre scorso. Fra gli attori internazionali Mosca sembra rimanere il più strenuo supporter di Belgrado contro l’indipendenza del Kosovo. Con gran disappunto l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandar Konuzin, dichiara che la Serbia dovrebbe affiancare Mosca piuttosto che l’Unione Europea e la NATO che sono “contro i nostri interessi nazionali”.

Dai colloqui con il Presidente Obama e la baronessa Catherine Ashton, alto rappresentate per la Politica Estera e Sicurezza dell’UE, in occasione della 66 Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Tadic ha ribadito il suo impegno a voler trovare una soluzione diplomatica alla crisi. Ma la diplomazia intesa da Tadic dimostra non rimanere sorda agli appelli a difendere gli interessi nazionali, come il rifiuto di continuare i dialoghi ha messo in evidenza. La mossa riporta alla memoria la diplomazia degli anni ’90, quando la Serbia giocava ad essere vittima, pacificatore e aggressore allo stesso tempo. Nonostante gli appelli ad evitare la violenza lanciati ai manifestanti sull’Ibar, il rifiuto di proseguire i dialoghi rappresenta certamente un pericoloso inasprimento delle relazioni che potrebbe provocare un rapido peggioramento della situazione. Pare inoltre una mossa azzardata, che potrebbe mettere a repentaglio il matrimonio con l’UE a pochi giorni dall’agonato si. La sicurezza ostentata da Božidar Đelićl nel giudizio positivo potrebbe essere ben fondata. Resta da vedere però quali saranno i termini del si e se saranno posti ulteriori benchmarks. Certamente, questo è il momento per USA e Unione Europea di addolcire la carota e rafforzare il bastone, per assumere una leadership più incisiva e ricercare una risoluzione comprensiva alla disputa, tutelando gli interessi di tutti.

La polveriera d’europa per il momento non fa che fumo, ma il passato ci ha già insegnato che è consigliabile non lasciare consumare la miccia.

Il post-Stark in Europa: la stabilità finanziaria dell’UE dipende ancora dalla Germania?

$
0
0

L’area economica è quella in cui sicuramente l’eterogeneità comunitaria è più evidente e, ammortizzare le differenze, sembra la sfida più difficile per l’Europa in quanto l’adeguamento agli standards di riferimento e alla strategia finanziaria spesso stride con la storia economica del singolo paese. Ecco allora che, in un’Europa in cui molti paesi sono alla deriva in termini di debito pubblico, la parola “collaborazione” – da sempre imperativo assoluto – assume i toni di “complicità” con accezione negativa: nel momento in cui si va a prestare soccorso a paesi in bancarotta, attraverso finanziamenti, si diventa automaticamente colpevoli di una condotta lesiva e non conforme alla trattatistica comunitaria. La Germania, paese che più di tutti si è distinto per la notevole ripresa economica in un periodo di crisi e fervente euroscetticismo, non lesina critiche e polemiche nei confronti di questa tattica di “salvataggio in extremis” che va a penalizzare quei paesi e, di conseguenza i loro cittadini, che hanno arginato il problema individualmente evitando di attingere alle casse dei vicini. Le dimissioni di Stark dalla BCE sono apparse allora, inevitabilmente, alla comunità internazionale come la presa di distanza tedesca dal modo di gestire le economie in crisi e intese – dalla stessa Germania – come un modo per testare la propria leadership ed influenza nel mondo finanziario. E visti i risultati negativi in Borsa nei giorni successivi, sembra proprio che la Germania continui ad essere ancora determinante ma, se è vero che l’Europa ha bisogno della potenza tedesca, a sua volta la Germania ha bisogno dell’UE dal momento che solo la compattezza comunitaria può attirare capitali e garantire altrettanta compattezza da parte degli investitori.

Le recenti dimissioni dell’economista Stark dalla BCE – ufficialmente per motivazioni personali ma ufficiosamente per incompatibilità con le linee attuative della predetta istituzione verso i membri europei in difficoltà economica – impongono una riflessione su come si sia evoluto questo rapporto inizialmente privilegiato tra UE e Germania e se, quest’ultima, continui a fungere o meno da ago della bilancia per ciò che concerne la stabilità economica comunitaria.

Storicamente il rapporto della potenza tedesca in Europa è stato molto continuo ma condizionato dalla posizione di alleato, in condizione subalterna, della Francia. Negli anni ’60, però, la Germania è riuscita ad acquisire una maggiore autonomia grazie ad uno status di potenza riconquistato (al pari di Francia ed Inghilterra) in ambito economico, diplomatico e militare e, quindi, mentre dopo la seconda guerra mondiale ha dovuto dare la priorità a se stessa, dopo la ripresa ha dato spazio indiscusso alla politica europea, al punto tale da divenirne uno dei più importanti membri comunitari, mantenendo – comunque – sempre una intensa collaborazione con la Francia.

L’identificazione nell’Europa è apparsa al Paese tedesco come l’unico modo per tornare ad avere un ruolo importante confacente alle sue dimensioni e senza suscitare, nei Paesi vincitori del conflitto, reazioni sfavorevoli. La Germania ha praticamente profondamente interiorizzato la problematica dell’integrazione europea: si potrebbe meglio dire che questa, come anche la Francia, non ha abbandonato ogni interesse nazionale in nome dell’Europa: semplicemente ha inteso l’Europa unita come un elemento della realtà nazionale, facendone un elemento cardine della propria politica estera e del proprio supernazionalismo ufficiale, non il contrario.

Tuttavia, se i primi anni l’eterogeneità europea ha rappresentato per la Germania una sorta di stimolo a fungere da leader e ad incentivare il progetto europeo, negli ultimi anni le “più velocità” dei membri comunitari sembrano, invece, aver inasprito l’idea di cooperazione tedesca al punto che molti hanno visto nella Germania una sorta di svolta egoistica, tradottasi politicamente ora in una condotta ostruzionista ora in isolamento. Non ultimo le dimissioni di Stark, che sembrano essere una esplicita rimostranza – da parte della Germania – di non voler più supportare i paesi in difficoltà. “Finanziare i deficit e tener basso il costo dell’interesse sul debito degli Stati non è compito della Banca centrale”: questo ha sempre sostenuto l’economista tedesco, a sancire come i casi di Germania, Spagna, Grecia e Italia non rientrassero nelle competenze della BCE.

I più ritengono che la Banca Centrale Europea sia nata quasi sulla stessa scia della Bundesbank e, viene da sé, che i destini e le strategie di entrambi gli organismi finanziari si siano inevitabilmente intrecciati. Entrambe perseguivano una condotta di evidente stampo tedesco basata innanzitutto sulla indipendenza (eludendo quindi pericolose connivenze con le parti politiche) ed una politica monetaria costantemente orientata a servirsi di tutti i mezzi possibili per combattere i rischi dell’inflazione [1].

Non suoni strana allora la connessione vigente tra le dimissioni di Stark e quelle di Axel Weber. In una intervista del febbraio 2011, l’ex presidente della Banca tedesca oltre ad una polemica specifica nei confronti dei bonds non risparmiava critiche nei confronti della politica generale europea e, soprattutto, induceva a riflettere sul concetto di “compromesso” a livello comunitario. Se è vero che in Europa bisogna sempre cercare il compromesso, allo stesso tempo bisogna conoscere le barriere che lo regolamentano, l’Europa compete globalmente con altre aree economiche e, chiaramente, non può che guardare costantemente a quelli che sono i suoi “concorrenti”, spesso indiscutibilmente anche più dinamici come la Cina. Il raggiungimento dell’equilibrio all’interno dell’Ue non può essere visto come il costante e prioritario obiettivo da raggiungere [2].

Hans Werner Sinn, consigliere di Angela Merkel, ha tratteggiato la situazione in maniera netta, appellandosi a quella che sarebbe stata la violazione per eccellenza compiuta dalla BCE: quella di non proibire i finanziamenti agli Stati, clausola che la Germania ha virtualmente sottoscritto in vista dell’abbandono del marco per l’euro. In realtà – già nel 2008 – la Banca Europea aveva fatto sua questa condotta interventista, agendo rapidamente ma, a detta del presidente dell’Ifo, avrebbe dovuto smettere comprando titoli di Stato, in quanto vietato dagli stessi Trattati di Maastricht. I programmi di salvataggio verso i paesi con cospicuo debito pubblico, dal punto di vista tedesco, dovrebbero consistere, invece, in strategie volte a fornire ma allo stesso tempo pretendere garanzie, evitando il totale sobbarcarsi dei debiti dei vicini rischiando in prima persona la bancarotta [3].

Ciò che appare evidente è che la scelta di Stark non può dirsi una scelta isolata, bensì è da contestualizzarsi nella più ampia dimensione politica di una Germania che vuole prendere le distanze dall’Europa, se farvi parte significa adeguarsi ad una condotta comune fallimentare anziché poter fungere da modello per una politica di risanamento. E politicamente la Merkel è consapevole che, imporre sacrifici ai propri cittadini per le insolvenze altrui, significa alimentare l’idea di una Germania soggiogata.

Al di là delle sottese o meno motivazioni etiche e personali di Stark e delle connessioni politiche, la principale dimostrazione di quanto la Germania conti in Europa è deducibile da quanto la diffusone della notizia delle dimissioni dell’economista tedesco abbia influenzato l’andamento dei mercati finanziari nei giorni successivi. Il crollo delle Borse in Europa ed il seguente ribasso delle quotazioni dell’euro sul dollaro e la sterlina è abbastanza esaustivo del ragionamento che gli attori del mondo finanziario hanno compiuto: Stark boicotta la BCE, quindi la Germania boicotta l’Europa e di conseguenza, la mancanza di compattezza attuale a livello di strategia economica impone di non rischiare collettivamente bensì a salvaguardare il proprio. Questo basti a poter affermare che qualsivoglia azione da parte della Germania non passa in sordina nel resto d’Europa: ancor più quando tutto ciò avviene in concomitanza con delicati eventi internazionali come il G7 di Marsiglia. In un forum di discussione che fa della cooperazione e della stabilità finanziaria il suo obiettivo principale, è chiaro che una notizia del genere sia apparsa assolutamente destabilizzante ed altrettanto chiara la necessità, per evitare pericolosi contraccolpi economici, di ribadire pubblicamente la piena fiducia ai mercati. Inizialmente si era pensato ad un comunicato finale, con il beneplacito dei Ministri delle Finanze, proprio per inviare un messaggio forte e chiaro di sostegno all’economia mondiale; tuttavia, ciò non è avvenuto, con il conseguente ridursi delle aspettative ancor prima dei lavori ed il diffondersi della dilagante paura “stagnazione”. A ciò si aggiunga che nello stesso periodo ad Atene sono giunte le delegazioni del FMI, della BCE e dell’Unione Europea per vagliare lo status della politica di risanamento a cui la Grecia si è dovuta forzatamente piegare per salvarsi dal pesante tracollo economico in cui versava.

In questo situazione di limbo economico il primo passo è stato quello di colmare il vuoto istituzionale e, la mancanza di alternative e soprattutto i tempi stretti. hanno portato ad optare per Mario Draghi che – se da una parte è forte dell’esperienza maturata in organismi finanziari – dall’altra la sua formazione (il passato alla Goldman Sachs) alimenta sospetti di logiche “atlantiche” e strategie troppo “angloamericane”. E sebbene a rassicurare gli europei ci pensino gli stessi americani, che più volte nel corso di meeting economici hanno ribadito la loro assoluta non volontà a far saltare il sistema euro, (perché, benché non manchino casi di speculazione ad opera di banche statunitensi, le incertezze sui mercati sono pur sempre da evitare) all’interno dei confini della UE qualcosa sembrerebbe essersi spezzato. La nomina di un italiano a capo della BCE – è stata sicuramente accettata a denti stretti da parte della Germania non solo perché il candidato più accreditato era il tedesco Alex Weber – ma soprattutto perché, da parte tedesca, la scelta è in un certo senso paradossale se si va a pensare, come gli economisti dell’entourage della Merkel fieramente sostengono, che la Germania perseguendo la sua strategia finanziaria in quindici anni ha tagliato prezzi e salari del 21% per essere più competitiva mentre l’Italia è diventare più cara del 48%.

A distanza di dieci anni dall’adozione dell’euro, che allora era sembrata la massima forma di unità europea, l’Ue scricchiola e molti governi si comportano come se avessero ancora la loro valuta: c’è chi consuma anziché risparmiare, creando pesanti disavanzi nella spesa pubblica.
Tale frammentarietà non è riuscita, tuttavia, ancora a minare totalmente la consapevolezza che essere “Europa unita” rimane sempre e comunque un vantaggio, sia per il paese “in ritardo” che risulta notevolmente avvantaggiato da questa appartenenza, sia per il “primo della classe” che, invece, spesso deve rallentare la sua scalata in virtù del progetto comune. E se, come osservano i paesi del G7, stanno aumentando i divari economici non solo tra i Paesi sviluppati e quelli emergenti ma anche tra gli stessi sviluppati, nel caso dell’Europa vige la convinzione che l’incertezza finanziaria possa essere arginata affidandosi a dei paesi leader che vedano il loro ruolo di guida non come sacrificio o rinuncia bensì come sfruttamento costruttivo del loro potenziale per un obiettivo collettivo. E in Europa, la Germania, malgrado i recenti attriti, per tradizione finanziaria e capacità reattiva rimane l’indiscusso modello a cui guardare: basti la recente dichiarazione della Merkel a tal proposito “la Germania continuerà ad essere la locomotiva della crescita dell’Unione europea” per prendere atto che al di là degli scossoni che la potenza tedesca imprime alla politica comunitaria, da questa Europa unita – di cui è stata fautrice – alla fine vuole continuare a far parte, a prezzo di un delicato compromesso tra individualità e diversità e con la consapevolezza di essere un membro scomodo ma assolutamente indispensabile.

Cristiana Tosti – Laureata in Storia della Istituzioni politiche (Università di Bari) – Dottore di ricerca in “Storia dell’Europa contemporanea” (Università di Bari).

NOTE
[1] Peter Müller, Christoph Pauly and Christian Reiermann, “Jürgen Stark’s resignation is setback for Merkel”, Spiegel Online International, 12/9/2011.
[2] Interview with Alex Weber, “It Is Not Important Which Nation Puts Forward the ECB President”, Spiegel Online International, 14/02/2011.
[3] Intervista ad Hans-Werner Sinn, “La BCE non può acquistare bonds: lo vietano i Trattati di Maastricht”, www.larepubblica.it, 19/09/2011.

Paolo Sensini, Libia 2011

$
0
0

Paolo Sensini
Libia 2011
Prefazione di Giovanni Martinelli, Vescovo di Tripoli

Jaca Book,  Milano 2011
ISBN 978-88-16-41123-4
174 pagine €  12,00

Il Libro

Il 2011 non è solo il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ma è anche l’anno in cui ricorre un’altra celebrazione meno onorevole da festeggiare per i governanti del nostro paese: il centenario della prima guerra dell’Italia contro la Libia. Oggi come allora, lo Stato italiano muove in armi contro una nazione che nulla ci ha fatto. Il suo leader, Mu‘ammar Gheddafi, ricevuto fino pochi mesi addietro con tutti gli onori che si tributano al capo dello Stato di un paese amico, si è improvvisamente trasformato in «dittatore pazzo e sanguinario» da eliminare ricorrendo a qualsiasi espediente.

Un tradimento che ha dell’incredibile, ma che purtroppo rappresenta un Leitmotiv della nostra storia post-unitaria. Ritardata imitazione delle imprese delle più affermate potenze coloniali europee. Dopo aver ripercorso le fasi salienti dell’occupazione militare italiana (1911-1943) e della travagliata storia libica fino ai giorni nostri, Paolo Sensini, che ha preso parte a Tripoli ai lavori della Fact Finding Commission on the Current Events in Libya nei giorni immediatamente successivi all’inizio dei bombardamenti NATO, ricostruisce con dovizia tutte le fasi del conflitto e le vere ragioni sottese all’attacco contro la Libia. Il quadro reale che ne emerge, e che nessun media mainstream ha voluto raccontare alle opinioni pubbliche occidentali, è sconcertante. Le menzogne sulle «fosse comuni» e sui «10.000 morti», così come «i ribelli di Bengasi» fomentati dal fondamentalismo islamico e anche organizzati, armati e finanziati dalle potenze occidentali, sono serviti come pretesto per la Risoluzione ONU numero 1973 che ha dato il via all’intervento militare in Libia, mentre il mondo tace sul consistente miglioramento delle condizioni di vita del popolo libico da quando Gheddafi è stato alla guida del paese, unica realtà petrolifera mediorientale con una redistribuzione sociale della ricchezza.

La verità, ancora una volta, è che a tirare i fili di queste guerre per procura mascherate da «intervento umanitario» sono le grandi potenze occidentali, che vogliono continuare a mantenere i popoli dell’Africa nella schiavitù e nella miseria per impadronirsi di tutte le loro ricchezze, come fanno da secoli e stanno continuando a fare. Dopo l’Afghanistan e l’Iraq, quella in Libia è solo l’ennesima guerra neocoloniale dei giorni nostri.

L’Autore

Paolo Sensini,  laureato in filosofia, saggista e storico, è autore de La rovina antica e la nostra (Roma 2006) e de Il «dissenso» nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 (Soveria Mannelli 2010). Ha redatto alcune delle voci apparse nel primo volume de L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico (Jaca Book, Milano2010) e nel Dizionario biografico degli anarchici italiani (Pisa 2003-2004). Ha inoltre curato l’edizione italiana delle principali opere di Bruno Rizzi, Ante Ciliga, Josef Dietzgen e Sergej Mel’gunov.

INDICE

A mo’ di prefazione,di Giovanni Martinelli

PARTE PRIMA
1. 1911-2011: il primo centenario della guerra contro la Libia
2. L’Italia «liberale» si prepara alla guerra
3. La Senussiya
4. Inizia lo sbarco militare nelle città costiere
5. L’accordo con la Senussiya
6. La fase di stallo militare
7. L’epoca fascista e la sua politica di colonizzazione in Libia
8. Si apre l’èra di Italo Balbo
9. Fine della guerra: l’amministrazione militare britannica in Libia e l’incoronazione di re Idris
10. La presa del potere degli Ufficiali liberi e la cacciata degli italiani da Tripoli
11. Il Libro verde e la Jamahiriyya
12. Una vicenda oscura e altre storie di «terrorismo»…

PARTE SECONDA
1. «La primavera araba»
2. Le Risoluzioni ONU 1970 e 1973 contro la Libia e il «nuovo diritto internazionale»
3. Chi sono i «rivoltosi» in Libia e chi c’è dietro di loro
4. Quale ruolo giocano la Senussiya e il fondamentalismo islamico nella rivolta libica
5. Cronaca dei fatti giorno per giorno fino alla Risoluzione ONU 1973
6. Le responsabilità di Al Jazeera e Al Arabiya nella rappresentazione della rivolta
7. Partenza per la Libia
8. Qualche statistica sulla Jamahiriyya di Gheddafi
9. Le vere ragioni della guerra
10. C’era una volta la Libia

Indice dei nomi

Ultimi sviluppi della situazione nella Repubblica araba siriana

$
0
0

Un gruppo terroristico armato ha ucciso il 2 ottobre ad Aleppo il dottor Mohamed Al Omar, dell’Università di Aleppo, e il figlio del Gran Mufti di Siria in un’imboscata sulla strada per Idlib.

Cinque membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi e otto sono stati feriti da gruppi terroristici armati nel villaggio di Kafar Nabuda, nei pressi di Hama il 2 ottobre.

L’autista di un treno merci è stato ucciso insieme al suo aiutante durante un deragliamento causato da un’esplosione provocata da un gruppo terroristico armato fra Aleppo e Latakia il 2 ottobre.

Un gruppo terroristico armato ha ucciso il 1 ottobre il cittadino Ahmad Sekaf, del villaggio di Basames, vicino a Jabl Al Zaweya, dopo averlo rapito e torturato fino alla morte, mentre il fratello è stato ferito da colpi di arma da fuoco alle gambe.

Un gruppo terroristico armato ha colpito con un razzo RPG un magazzino nel quartiere Al Abbaseen a Homs.

In diverse località della Siria sono stati celebrati i funerali di 13 martiri dell’esercito e della polizia uccisi da gruppi terroristici armati.

Le forze di sicurezza hanno sequestrato il 1 ottobre, durante un tentativo di contrabbando  dal Libano alla Siria, grandi quantità di armi e munizioni destinate ai gruppi terroristici armati che uccidono i civili.

Tre artificieri sono rimasti uccisi il 2 ottobre a Duma mentre cercavano di disinnescare un pacco bomba collocato dai gruppi terroristici armati.

Il Ministero della Salute ha negato quanto riportato dalla tv Al Jazera circa la presenza di cecchini sul tetto dell’ospedale di Harasta, dichiarando che gli ospedali continuano a fornire i loro servizi ai cittadini normalmente.

Il 2 ottobre un gruppo terroristico ha rapinato la Banca Agricola nella città di Saraqeb, nella provincia di Idleb.

Un criminale ricercato è stato ucciso il 2 ottobre dall’esplosione di un pacco bomba che trasportava su una moto e che doveva essere collocato da qualche parte per uccidere civili innocenti a Daraa.

Un gruppo terroristico ha assasinato ad Homs il 27 settembre il dottor Hasan Aid, primario di chirurgia toracica nell’ospedale statale della città, l’ingegnere Aws Abdel Karim, prorettore dell’Università Al Baath, il 28 settembre, e il dottor Mohamed Ali Aqil, vice preside della facoltà di di Architettura, il 26 settembre.

La televisione siriana ha trasmesso il 3 ottobre la notizia del ritorno alla normalità e alla calma nella città di Al Rastan, dove gli abitanti hanno dato il benvenuto all’esercito che ha liberato la città dai gruppi terroristici armati che hanno terrorizzato i cittadini nel periodo scorso.

I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana

$
0
0

I beni comuni nel codice civile, nella tradizione romanistica e nella Costituzione della Repubblica italiana*

Sommario: 1. La summa divisio tra res in commercio e res extra commercium. I beni demaniali e patrimoniali indisponibili nel codice civile vigente. L’opera della Commissione Rodotà: la individuazione dei beni comuni. Funzione naturale ed appartenenza dei beni comuni. 2. I beni comuni nella tradizione romanistica. 3. La dicotomia “proprietà collettiva-proprietà individuale” e la dicotomia “proprietà pubblica-proprietà privata”. Il collegamento “sovranità-proprietà” nella evoluzione storica della proprietà. La preesistenza della proprietà collettiva. La concezione borghese della proprietà privata come diritto inviolabile. 4. La nuova impostazione della Costituzione. La mancata menzione della proprietà collettiva. La proprietà pubblica o privata. La “sovranità” popolare come fondamento della proprietà collettiva. La disciplina costituzionale della proprietà privata: riserva di legge, funzione sociale ed accessibilità a tutti. La proprietà personale. 5. L’implicito riferimento costituzionale alla dicotomia “proprietà collettiva-proprietà privata”. I beni demaniali: proprietà collettiva e pubblica. La legislazione ordinaria dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile. Inalienabilità, inespropriabilità ed inusucapibilità dei beni demaniali. La trasferibilità tra Enti dei beni demaniali. Intrasferibilità assoluta dei beni del demanio idrico, marittimo e militare dello Stato, in quanto beni di interesse dell’intera Comunità nazionale. 6. Il decreto legislativo n. 85 del 2010. Sua evidente illegittimità costituzionale. 7. Come intendere oggi “la rivoluzione promessa” di Calamandrei: l’equa distribuzione della proprietà personale e l’incremento dei beni comuni. Allargamento della nozione anche ai beni immateriali.

1. Le disposizioni del codice civile vigente, che parlano di beni demaniali (inusucapibili ed inalienabili), di beni del patrimonio indisponibile (inusucapibili, ma alienabili) e dei beni del patrimonio disponibile, ispirandosi al regime dei beni, anziché alla loro funzione (cadendo anche in palesi errori, come dimostra il fatto che le foreste, incluse nel “patrimonio indisponibile”, vengono poi considerate come rientranti nella nozione del “demanio forestale dello Stato”), hanno da tempo offuscato la summa divisio tra res in commercio e res extra commercium, o, se si preferisce seguire la terminologia di Gaio, tra res in patrimonio e res extra patrimonium, e soprattutto la stretta connessione esistente tra le res extra commercium e le res communes o publicae.

Si è perduto, in altri termini, la nozione di beni comuni, di beni cioè che appartengono a tutti, e precisamente, secondo i punti di vista, all’umanità, al populus o alle città (Municipia o Coloniae), cioè a soggetti plurimi, o, se si preferisce, a comunità di uomini, se non di uomini ed animali, come afferma qualche giurista romano.

La presentazione dello schema di disegno di legge-delega, redatta dalla Commissione Rodotà, e presentata in data 15 febbraio 2008, riporta finalmente in primo piano la categoria dei beni comuni, distinguendoli, molto opportunamente, dai beni pubblici e dai beni privati.

I beni comuni, sono concepiti come beni naturali -beni ambientali e paesaggistici-, funzionali alle esigenze primarie dell’uomo (ai quali si affiancano i beni archeologici, evidentemente per

il fatto che sono divenuti parte integrante dell’ambiente naturale dell’Italia, ed i beni culturali -artistici e storici-, certamente per il fatto che l’arte e la storia appartengono all’umanità).

I beni pubblici, sono intesi come beni creati dall’uomo per soddisfare bisogni necessari o sociali. Ad essi si affiancano i beni fruttiferi, e quindi commerciabili, dello Stato, che, naturalmente, hanno la stessa disciplina dei beni privati.

I beni privati sono considerati i beni in proprietà dei singoli.

Si tratta di una classificazione veramente commendevole, che fa leva, non tanto sulla disciplina giuridica (criterio seguito dal codice civile), ma sulla funzione del bene.

Si supera così, come ha acutamente osservato Alberto Lucarelli (in “Il vento non sa leggere”, di Francesco Lucarelli e Lucia Paura, Napoli. 2008, p. 170), la lacuna lasciata dalla soppressione dell’art. 811 c. c. (il quale così recitava: “I beni sono sottoposti alla disciplina dell’ordinamento corporativo in relazione alla loro funzione economica ed alle esigenze della produzione nazionale”), ad opera dell’art. 3 del decreto legislativo luogotenenziale del 14 dicembre 1944, n. 287. L’urgenza di abrogare il riferimento all’ordinamento corporativo, ha infatti impedito al legislatore dell’epoca di accorgersi della grave soppressione del riferimento alla “funzione economica del bene”. Né al riguardo sono stati più apportati correttivi, per cui ancor oggi sono considerati beni giuridici “le cose che possono formare oggetto di un diritto” (art. 810 c. c.). Lacuna che ha procurato immensi disagi alla dottrina, quando si è trattato di sostenere la giuridicità del bene ambiente, per la cui affermazione è stata provvidenziale la distinzione del Pugliatti tra “beni giuridici in senso proprio”: quelli cioè che possono essere oggetto di un diritto, e “beni giuridici in senso lato”: quelli che sono oggetto di tutela giuridica (S. Pugliatti, Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1962, p. 27 ss.).

Quanto alla definizione del concetto giuridico di bene comune, va tuttavia sottolineato che il riferimento al criterio della funzione economica (naturale o artificiale) del bene per il soddisfacimento di bisogni primari della collettività, e del suo collegamento a diritti fondamentali, va ulteriormente precisato con il riferimento ai soggetti titolari, occorre stabilire, in altri termini, se i beni di cui si tratta appartengono all’umanità, al popolo o ad enti territoriali, o, semplicemente, a collettività private residenti ab immemorabili in luoghi determinati. Esattamente come facevano i Romani, i quali, come sopra si è accennato, distinguevano tra res communes omnium, res publicae e res universitatis (spesso dei Municipia o delle Coloniae).

2. Ed a questo proposito, occorre sottolineare che la categoria delle res communes omnium, per la prima volta espressa in modo chiaro da Marciano, giurista del terzo secolo d. C., è in realtà una categoria più antica (risalente almeno al primo secolo a. C.), che la romanistica moderna non è riuscita ad enucleare perché essa appare quasi come nascosta dietro la ricorrente espressione “res nullius”.

A darci l’avvio per una affermazione di questo genere, del cui carattere innovativo siamo ben avvertiti, è Gaio in Inst. 2, 11: “Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse: ipsius enim universitatis esse creduntur. Privatae sunt quae singulorum hominum sunt”. Al riguardo molto illuminante è l’osservazione del Bonfante (Corso di diritto romano, vol. II, parte prima, Milano, 1966, p. 82), secondo il quale “Gaio intendeva: (che le res nullius) sono di nessuno in particolare, perché appartengono a tutti”. Ciò è evidente, continua ancora il Bonfante, se si pensa che per il pensiero antico non c’è alcuna difficoltà a riconoscere come soggetto la collettività o il populus (o. c., l. c. ) ( sull’argomento: P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino, 1974, specie pp. 155 ss.).

Per Gaio, in altri termini, i beni o sono pubblici (non importa stabilire se del populus o della città; in questo caso si parla della città), o sono privati: tertium non datur.

Ma esiste un’infinità di altri testi, nei quali manca il riferimento al populus o all’universitas, e si parla soltanto di res nullius, sennonché il riferimento al soggetto collettivo titolare del bene considerato nel suo complesso è quasi sempre ricavabile dal testo.

E qui è da sottolineare che, a differenza dei moderni, per i quali il soggetto è sempre una individualità (persona fisica) e, quando si vuol riconoscere la soggettività ad un soggetto plurimo o ad una collettività che dir si voglia, si ricorre al concetto, anch’esso individualistico, di persona giuridica (fino al punto che per indicare il popolo si fa riferimento al dogma della Personalità giuridica dello Stato, cioè ad una pura astrazione), presso i Romani non si esitava a riconoscere la soggettività giuridica agli enti più diversi: agli dei, per le res sacrae (il “templum” apparteneva al dio al quale era stato dedicato dal Populus), agli dei mani, cioè ai defunti, per le res religiosae (il “sepulcrum” apparteneva al defunto che ivi era stato inumato), alla collettività dell’intero genere umano, del populus Romanus, o dell’universitas civitatum, ovvero ancora alla collettività formata da tutti gli uomini e dagli animali.

Estremamente significativi, al riguardo, sono un testo di Gaio ed un testo di Ulpiano: il primo distingue il “ius gentium”, denominato anche “ius naturale”, dal “ius civile”, cioè il diritto di tutti i popoli dal diritto del popolo romano; il secondo distingue il “ius naturale”, un diritto comune agli uomini ed agli animali, dal “ius gentium” un diritto di tutti i popoli, e dal “ius civile” il diritto proprio dei Romani.

Secondo Gaio (Gai Inst., 1, 1): “Omnes populi qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur: nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est vocaturque “ius civile”, quasi ius proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque “ius gentium”, quasi quo iure omnes gentes utuntur, itaque populus Romanus partim suo proprio partim communi omnium hominum iure utitur”.

Secondo Ulpiano (D. 1. 1. 3, 4 e 6 pr.): “Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mare nascuntur, avium quoque commune est, hinc descendit maris et feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc aeducatio; videmus enim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris censeri. Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur….Ius civile est…ius proprium… » .

Sul piano applicativo, tuttavia, le fonti seguono la bipartizione gaiana ed ignorano la tripartizione ulpianea, della cui classicità è comunque difficile dubitare, considerata la unitarietà del discorso di Ulpiano (A. Guarino, L’Ordinamento giuridico romano, Napoli, 1959, p. 244). Si torna, dunque, alla distinzione di Gaio, per il quale le res o sono “alicuius” o sono “nullius in bonis, sed universitatis”.

Molto interessante, a questo punto, è passare al tema dell’occupatio delle res nullius (G. Franciosi, “res nullius”, in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, ANA. 1964).

In proposito, le fonti son solite distinguere tra ius naturale e ius civile.

Emblematico al riguardo è Gaio, il quale (Gai Inst., 2, 65), afferma: “Ergo ex his quae diximus apparet quaedam naturali iure alienari, qualia sunt ea quae traditione alienantur; quaedam civili, nam mancipationis et usucapionis ius proprium est civium Romanorum”. E lo stesso Gaio precisa subito dopo (Gai Inst., 2, 66): “ Nec tamen ea tantum traditione nostra fiunt, naturali nobis ratione adquiruntur, sed etiam quae occupando ideo adepti erimus, quia antea nullius essent; qualia sunt omnia quae terra, mari coelo capiuntur”.

Per il diritto naturale, per il diritto di tutti i popoli, costituisce un modo di acquisto della proprietà l’occupatio di una res nullius.

Sennonché, lo stesso Gaio ci avverte che le res nullius sono appropriabili da parte degli individui, non nella loro totalità, ma nelle singole parti individuali che le compongono, le quali, sfuggendo al singolo, possono rientrare nella totalità e divenire di nuovo appropriabili da parte di qualsiasi soggetto.

Si legga cosa dice il nostro Autore a proposito della caccia e della pesca: “Itaque si feram bestiam aut volucrem aut piscem ceperimus, simul atque captum fuerit, statim nostrum fit et eo usque nostrum esse intelligitur, donec nostra custodia coerceatur: cum vero custodiam nostram evaserit et in naturalem se libertatem receperit, rursus occupantis fit, quia nostrum esse desinit: naturalem autem libertatem recidere videtur, cum aut oculos nostros evaserit, aut, licet in conspectu sit nostro, difficilis tamen eius persecutio sit”.

E’ logico supporre che, secondo Gaio, la selvaggina ed i pesci costituiscono un bene di tutti gli uomini se considerati nel loro complesso e sono appropriabili in minima parte dai singoli.

L’appartenenza del tutto alla collettività degli uomini è qui soltanto supposta, ma vi sono altri testi in relazione nei quali questa supposizione si avvicina di molto alla realtà.

Si tratta di quelle fonti che parlano del lido del mare e delle costruzioni in litore maris. Da queste è agevole dedurre che il lido del mare appartiene a tutti e che una sua forma di uso consiste anche nella possibilità di costruirvi un edificio, purché ciò non danneggi l’uso comune. La costruzione dell’edificio non comporta comunque l’acquisto dell’area di spiaggia usata, per cui, se l’edificio crolla, l’area in questione torna nella disponibilità di tutti ed è lecito ad un altro soggetto ricostruire in quel luogo.

Interessantissimo è il seguente passo di Nerazio, nel quale la condizione giuridica dei lidi è parificata a quella della selvaggina e dei pesci, precisandosi che questi beni sono “pubblici”, non nel senso di appartenere allo Stato, ma nel senso (sembra questa l’unica risposta possibile) di appartenere alla comunità del genere umano. Non si dimentichi, infatti, che la parola “publicus” ha comunemente anche il significato di “communis”.

D. 41.1. 14 (Neratius libro quinto membranarum). “Quod in litore quis aedificaverit, eius erit: nam litura publica non ita sunt, ut ea, que in patrimonio sunt populi, sed ut ea, quae primum a natura prodita sunt et in nullius adhuc dominium pervenerunt; nec dissimilis condicio eorum est atque piscium et ferarum, quae simul atque adprhensae sunt, sine dubio eius, in cuius potestatem pervenerunt, dominii fiunt”.

Di “loca publica” riferiti ai lidi, nel senso abbastanza ovvio di “loca communia”, parla anche Papiniano.

D. 41. 3. 45 pr. (Papinianus libro decimo responsorum). “Praescriptio longae possessionis ad optinenda loca iuris gentium publica concedi non solet. Quod ita procedit, si quis aedificio funditus dirupto quod in litore posuerat….”.

Di “locus publicus”, riferito al lido del mare, sempre nel senso di “locus communis”, parla un altro passo di Nerazio.

D. 41. 1. 14. 1 (Neratius libro quinto membranarum). “ Illud videndum est, sublato aedificio, quod in litore positum erat, cuius condicionis is locus sit, hoc est utrum maneat eius cuius fuit aedificium, an rursus in pristinam causam  reccidit perindeque publicus sit, ac si nunquam in eo aedificatum fuisset, quod propius est, ut existimari debeat, si modo recipit pristinam litoris speciem”.

L’edificazione sul lido del mare come uso di un bene comune appare chiaro anche nel seguente testo di Marciano, il quale sottolinea che il “locus” sul quale si edifica è di proprietà di chi edifica finché sussiste la costruzione e che, venuta meno questa, il “locus” ridiventa di uso comune.

D. 1. 8. 6 pr. (Marcianus libro tertio institutionum). “In tantum, ut ei soli domini constituantur qui ibi aedificant, sed quamdiu aedificium manet; alioquin aedificio dilapso quasi iure postliminii revertitur locus in pristinam causam, et si alius in eodem loco aedificaverit, eius fieret”.

A dimostrazione del fatto che, in questi casi, si suppone un’appartenenza comune del bene, può ricordarsi che subito dopo questo passo, Marciano continua il suo discorso (in D. 1. 8. 6. 1), affermando che “Universitatis sunt, non singulorum, veluti quae in civitatibus sunt theatra et stadia et similia et si qua alia sunt communia civitatium”.

Ma l’appartenenza comune dei beni in questione è esplicitamente affermata dallo stesso Marciano nel notissimo testo relativo alle res comunes omnium.

D. 1. 8. 2. 1 (Marcianus libro terbio institutionum). Et quidam naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris”.

L’insegnamento delle fonti romane è davvero eccezionale: non solo ci sono i beni del populus, dei Municipia o delle Coloniae, ma ci sono anche i beni dell’intera comunità degli uomini. Sono beni comuni di tutti: l’aria, l’acqua corrente, il mare, il lido del mare, nonché, dobbiamo aggiungere dopo quanto detto, la selvaggina ed i pesci. Il concetto attuale di ambiente è già racchiuso in nuce nell’esperienza della giurisprudenza romana.

3. L’appartenenza dei beni, dunque, o è di tutti (appartenenza plurima), o è di un singolo; si tratta, in altri termini, o di beni in proprietà collettiva, o di beni in proprietà individuale (sull’argomento, vedi la magistrale trattazione di Mario Esposito, “I beni pubblici”, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario Bessone, Torino 2008). Rilevante, insomma è la dicotomia “appartenenza collettiva-appartenenza individuale o solitaria” ed è solo eventuale, e comunque poco rilevante, far riferimento alla dicotomia “pubblico-privato”. Ne consegue che l’espressione “beni dello Stato” è, a questo proposito, poco significativa, poiché lo Stato, solo in quanto Stato-comunità, è proprietario di beni collettivi, comunemente denominati demanio, mentre, in quanto Stato-persona può essere anche proprietario iure privatorum, titolare cioè di beni normalmente oggetto di proprietà privata. Questa distinzione, del resto, era chiara già nell’art. 1 del Regolamento per l’amministrazione e la contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale disponeva testualmente: “I beni dello Stato di distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di privata proprietà”.

Questa disposizione, che distingue i beni del patrimonio disponibile dello Stato dal demanio, sottolineando che i beni del demanio pubblico appartengono allo Stato “a titolo di sovranità”, è estremamente interessante ed induce a riflettere sulla storia della proprietà, la cui evoluzione dimostra che al concetto di proprietà collettiva sottende sempre l’idea della sovranità della Comunità che la possiede, mentre, se parte di questa proprietà comune è trasferita a singoli cittadini essi conservano sulla porzione dei beni conferiti gli stessi poteri sovrani spettanti alla Comunità. Il civis, in altri termini, in quanto parte della Comunità, partecipa della sovranità di quest’ultima ed esercita poteri sovrani sulla porzione di terra a lui assegnata.

L’accostamento demanio-sovranità è molto evidente alle origini della proprietà collettiva, quando l’appropriazione di una porzione della terra (territorio) da parte di una collettività produceva la nascita di una Comunità organizzata, e quindi di un ordinamento giuridico. Acutamente Carl Schmitt (Il nomos della terra, 1950, trad. it. di E. Castrucci, Milano 1991, pag. 24) osserva che “ogni occupazione di terra crea sempre, all’interno, una sorta di superproprietà della Comunità nel suo insieme, anche se la ripartizione successiva non si arresta alla semplice proprietà comunitaria e riconosce la proprietà privata”. In altri termini, “è l’appropriazione fondiaria il primo, imprescindibile momento nella formazione e nel consolidamento del potere sovrano, nella fondazione cioè di uno stabile ordine unitario; la collettività si costituisce politicamente in primo luogo mediante la presa di possesso di un territorio, che comporta la riserva a sé di ogni facoltà di uso e di godimento del suolo, di tal che ogni eventuale distribuzione agli individui ed ai gruppi dipende da atti di decisione sovrana, è atto sovrano” (Mario Esposito, I beni pubblici cit., pag. 86).

E’ poi da ricordare che, a proposito di questo rapporto sovranità-proprietà, la dottrina (P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pag. 76 ss.), oltre all’elemento dell’appropriazione del territorio, ha posto in rilievo, specie per quanto riguarda il Popolo Romano, l’importanza della coesione del gruppo. Infatti, se si tiene presente che la proprietà collettiva ha preceduto quella privata, come ha dimostrato il Niebuhr (citato da P. Catalano, Populus Romanus Quirites, pag. 79), appare evidente che “l’appartenenza della terra all’individuo è mediata dal suo essere membro della comunità…il suo rapporto con la proprietà privata è un rapporto con la terra, ma al contempo con la sua esistenza in quanto membro della Comunità”. Inoltre è opportuno ricordare che Karl Marx, noto cultore del diritto e della storia di Roma (citato da Catalano, o. c. , pag. 78 s.), precisa che “la terra è occupata dalla comunità; una parte rimane alla comunità, come tale distinta dai membri della comunità, ager publicus nelle sue diverse forme; l’altra parte viene divisa e ogni particella di terreno è in tanto romana in quanto essa è proprietà privata, dominio di un romano, quota a lui appartenente; d’altro lato, egli è romano solamente in quanto possiede questo diritto sovrano su una parte della terra romana”.

Decisivo, per la mentalità romana, è, come si è accennato, il rapporto tutto-parte, il rapporto cioè comunità-cittadino, per il quale il civis partecipa della sovranità della Comunità, ed, in quanto “parte” della comunità, non solo ha l’uso dell’ager publicus Populi Romani, ma può anche diventare “dominus ex iure Quiritium” esercitando sul fondo gli stessi poteri sovrani della comunità, cioè un “ius utendi, fruendi, abutendi”, che consente di attribuire al “fundus” medesimo gli stessi attributi di Giove: “Optimus Maximus”.

Questa mirabile connessione, assolutamente democratica, tra sovranità e proprietà viene meno nel medio evo, nel quale la proprietà viene scissa in “dominium eminens”, spettante al Sovrano, e nel quale vengono trasferiti i poteri sovrani inerenti alla proprietà, e “dominium utile”, spettante a chi ha l’uso della terra (così, molto acutamente, Mario Esposito, o. c., pag. 87 ss.). Si è parlato, al riguardo, di “uno schema antropologico” (P. Grossi, voce Proprietà (dir. int.), in Enc. Dir., Milano 1988, vol. XXXVII, pag. 240), che postula una originaria e potenzialmente sempre presente comunione di beni, così come postula la necessaria appartenenza collettiva della summa potestas. E’ importante comunque precisare che anche nel medio evo non venne mai meno, accanto alla cosiddetta “proprietà divisa” (dominio eminente e dominio utile), la proprietà collettiva di aggregati di persone: le Magnifiche Regole alpine, gli Usi civici, le Università agrarie, e così via dicendo. E queste forme di proprietà, benché avversate in tutti modi dal pensiero giuridico borghese, sono tuttora presenti in Italia ed in molte altre parti del mondo. Notava il Cattaneo (C. Cattaneo, Su la bonificazione del Piano di Magadino, in Scritti economici a cura di A. Bertolino, Firenze 1956, vol. III, pag. 187 s.), che “questi non sono abusi, non sono privilegi, non sono usurpazioni: è un altro modo di possedere, un’altra legislazione, un altro ordine sociale, che, inosservato, discese da remotissimi secoli sino a noi” (sull’argomento, vedi l’insuperabile volume di P. Grossi, Un altro modo di possedere, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano 1977).

Di comunità statale, si parlerà comunque soltanto dopo Hobbes, con il quale “la specifica dimensione giuridica della statualità è definitivamente posta al centro della speculazione filosofico-giuridica ed il costituzionalismo (ammesso che prima sia davvero esistito quanto tale) proclama apertamente la propria pretesa” (M. Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in Giurisprudenza costituzionale, 2006, pag. 1643).

Le cose cambiano dopo la rivoluzione francese, che, come tutti sanno, fu una rivoluzione borghese. Non ostante il fine della legge del 1790 fosse quello di trasferire l’appartenenza del territorio dal Sovrano alla Nazione, per l’utile di quest’ultima, che è un utile collettivo per definizione, in realtà il comunitarismo viene offuscato e trionfa l’individualismo. Conseguentemente la proprietà collettiva è posta nel dimenticatoio e domina la proprietà privata, nella quale sembra concentrarsi o, meglio, persiste il ricordo di quegli antichi poteri sovrani, fino al punto di essere considerata un diritto naturale inviolabile. Acutamente osserva il Grossi (P. Grossi, o. c., pag. 8) che “al contrario della civiltà medievale…., la nuova civiltà….fa soltanto i conti con chi ha…e il proprietario subisce per il solo possesso dei beni una palingenesi che lo separa dai mortali e lo colloca tra i modelli….Se si aggiunge che l’operazione culturale è affiancata da una efficace operazione politica che vede lo Stato garantire generalmente le ricchezze a chi legittimamente le detiene e fondarsi sul consenso degli abbienti, si capisce quanto l’idea della proprietà come diritto naturale e del proprietario come cittadino per eccellenza mettesse radici saldissime; quelle radici che il profilo ideologico corroborava in maniera profonda”. Cittadino pleno iure diventa, insomma soltanto il cittadino che sia anche proprietario.

Notava Marx (K. Marx, Forme economiche precapitalistiche, trad. G. Brunetti, Roma 1967, pag. 90 ss.): “nella società borghese il lavoratore, ad esempio, si trova senza un’esistenza obiettiva, esiste solo subìettivamente; ma la cosa che gli si contrappone è ora diventata la vera comunità, che egli cerca di divorare e dalla quale viene divorato”.

E’ su questi presupposti borghesi che si fondano, sia lo Statuto albertino, secondo il quale “tutte le proprietà senza alcuna eccezione sono inviolabili”, sia il codice civile del 1865, secondo cui “la proprietà è il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”. Tali definizioni, come agevolmente si capisce, derivano dall’indirizzo politico-filosofico dell’individualismo francese: si tratta di un individualismo esasperato, come è evidenziato dall’espressione “nella maniera più assoluta”.

Un notevole passo avanti è fatto dal codice civile del 1942, il quale, nel definire la proprietà, non dà una definizione statica riferita alle cose, ma una definizione dinamica riferita al “proprietario” ed ai limiti che sono posti ai suoi poteri. Si legge, infatti, all’art. 832 c. c., che “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Non si volle parlare di “funzione sociale” della proprietà, “tuttavia fu modificata la formula del codice del 1865: si inserì, nella definizione dei poteri del proprietario l’espressa menzione dei limiti e degli obblighi e si rinviò all’ordinamento considerato nella sua totalità” (P. Rescigno, Per uno studio sulla proprietà, in Rivista di diritto civile, Padova 1972, parte prima, pag. 33).

Compare, come si nota, un principio solidaristico, ma, come è stato puntualmente notato, (P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della proprietà, Napoli 1971, pag. 65), il codice civile del 1942 si ispira ad una ideologia solidaristica di carattere soltanto produttivo ed economico e certamente non personalistico.

Nel quadro che si è delineato, appare evidente che, nel regime codicistico, la proprietà privata, unitariamente e graniticamente concepita, è un concetto che mira a togliere cittadinanza giuridica alla proprietà collettiva, la quale può mascheratamene rintracciarsi soltanto in quel tipo di proprietà che è definita “demaniale” e che appartiene formalmente allo Stato-persona, considerato come persona giuridica unitaria, titolare di un diritto di proprietà individuale, ma sostanzialmente allo Stato-comunità, cioè all’intera Collettività (P. Maddalena, Danno pubblico ambientale, Rimini 1990, pag. 134).

4. Su questo stato di cose venne ad incidere la nuova Costituzione della Repubblica italiana. Essa, come è noto, dette grande impulso al valore della persona umana, e, quindi, alla solidarietà politica, sociale ed economica, di carattere personale, ma non riuscì ad introdurre la nozione di proprietà collettiva, limitandosi a porre limiti molto consistenti alla proprietà privata in nome dell’utilità generale e del preminente interesse generale (artt. 41, 42, 43 Cost.), e precisando inoltre che “la proprietà è pubblica e privata” (art. 42 Cost., primo alinea).

In sede costituente, infatti, come ha osservato il Rodotà (S. Rodotà, Rapporti economici, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, artt. 41-44, Tomo II, Bologna 1982, pag. 166 s.), “viene subito eluso lo scoglio della proprietà collettiva, che non compare né nell’iniziale proposta dell’On. Togliatti, né nella successiva formulazione dell’On. Dossetti e neppure nel testo poi concordato ed approvato; questa manifestazione di realismo politico su un punto indubbiamente scottante provocò la critica dell’On. Giovanni Lombardi, che lamentava appunto la mancanza di uno spiraglio per la proprietà collettiva…Il progetto di Costituzione fa rapida giustizia di tutte le formule più controverse. Particolarmente significativo appare il mancato accoglimento di qualsiasi formula che rinviasse a forme di gestione collettiva e associata dei beni: sopravvivono <le comunità di lavoratori ed utenti> nel diverso contesto dell’art. 43 e cambia assai, nel quadro dell’art. 45, il senso della disciplina della cooperazione, visto che scompare del tutto il riferimento alla proprietà cooperativa, che pure era stata lungamente associata nelle diverse proposte a quella piccola proprietà che invece riesce a trovare nell’art. 44 un suo posto privilegiato. Questa conclusione non è sorprendente per chi tiene conto del logoramento delle condizioni politiche necessarie per sorreggere l’esplicita affermazione di forme collettive di proprietà, così come per chi conosce l’estraneità alla gran parte della nostra cultura giuridica di quella particolarissima problematica”. Basti pensare che, almeno sul versante civilistico, il tentativo costante era stato quello di ridurre tutto alla proprietà solitaria, parlandosi di reliquie, tracce, residui della proprietà collettiva. Soltanto il poderoso lavoro di Paolo Grossi: “Un altro modo di possedere”, riuscì davvero a rivalutare il concetto della proprietà collettiva.

Il Legislatore costituente, in altri termini, si limitò ad ammettere l’istituto proprietario in forma generica e, si direbbe, onnicomprensiva (“La proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”), ponendo una “riserva di legge” solo per quanto riguarda la disciplina della proprietà privata, per la quale il legislatore ordinario avrebbe dovuto determinare i “modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Ed a questo punto è da sottolineare una considerazione di fondamentale importanza. Infatti, la Costituzione, pur proclamando solennemente, come poco sopra si è detto, che “la proprietà è pubblica e privata”, nel dettare il regime della proprietà prende in considerazione soltanto la proprietà individuale o solitaria che dir si voglia, ponendo soltanto a carico di questa i vistosi limiti di cui si è sopra parlato. In altri termini, essa non disciplina la proprietà collettiva, pur se questa, almeno nella maggioranza dei casi, rientri nel concetto di “proprietà pubblica”, ma si occupa soltanto della proprietà individuale privata. Il che consente di affermare che, per quanto attiene alla proprietà collettiva ed, in particolare, al demanio (ed ai beni patrimoniali indisponibili che ad esso possono agevolmente essere equiparati), la Costituzione non pone limite alcuno, proprio per il fatto che l’uso di tali beni soddisfa direttamente i bisogni di una certa Comunità, o dell’intera Comunità nazionale; mentre, d’altro canto, non si pone neppure la necessità di stabilirne i modi di acquisto, considerato che la proprietà collettiva può nascere in modo originario, per il fatto stesso che vengono in essere taluni beni naturali, come avviene per il demanio idrico e per il demanio marittimo, oppure può esistere ab immemorabili, com’è per le classiche forme di proprietà collettiva riferite a gruppi di residenti in un determinato territorio.

Puntuale è, a questo proposito, la osservazione di Cerulli Irelli (V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova 1983, pag. 25), il quale precisa che né nel testo costituzionale, né tra i principi del diritto positivo “è rinvenibile una norma che afferma essere in principio riservate le cose appropriabili al dominio privato: così da rendere necessaria (per le proprietà collettive) una espressa normativa di deroga. Che anzi, semmai, è vero l’opposto, ché, sul versante costituzionale, la proprietà privata in tanto è riconosciuta e tutelata in quanto, nelle varie discipline delle varie categorie di beni, essa, come modello, riesce ad assicurare dei beni stessi la funzione sociale, nonché a renderli accessibili a tutti; e, sul versante della legislazione ordinaria, vige piuttosto il principio del diritto potenziale di dominio dello Stato su tutto il territorio, sancito dall’art. 827  del codice”.

In fondo, è nella “sovranità” popolare, di cui all’art. 1 della Costituzione, e cioè in quel fascio di poteri che spettano al Popolo, che si innesta il fondamento costituzionale, sia della proprietà privata, sia della proprietà collettiva: lo conferma il fatto “che il civis è titolare delle quote di ogni rapporto facente capo nella collettività, secondo un modello che affonda le radici nel diritto romano” (A. Di Porto, Interdetti popolari e tutela delle res in usu publico, in Atti del seminario torinese in memoria di Giuseppe Provera, Napoli 1994, pag. 518). Come si nota, riemerge nella nostra Carta costituzionale quell’antico rapporto “sovranità-proprietà”, che ha caratterizzato l’intera evoluzione della storia proprietaria, con l’unica cesura della legislazione del periodo borghese, che va dalla prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 fino all’entrata in vigore della Costituzione del 1948.

Venendo alle disposizioni che la Costituzione detta esclusivamente per la proprietà privata, è da dire che ciò che maggiormente interessa il legislatore costituente è che la ricchezza privata venga distribuita secondo un principio di eguaglianza. Fondamentale, dunque, è il riferimento  all’art. 3, comma secondo, della Costituzione, secondo il quale “è compito della Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli di carattere economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza di tutti i cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Per raggiungere questo scopo, la Costituzione, si ispira ai criteri “dell’utilità sociale” (art. 41 Cost.), “dell’interesse generale” (art. 42 Cost.) e “del preminente interesse generale” (art. 43 Cost.) e stabilisce che la proprietà privata può esistere solo se ed in quanto se ne assicuri la “funzione sociale” e l’ “accessibilità a tutti”. Recita infatti, il citato articolo 42, comma secondo, della Costituzione, che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (art. 42 Cost.).

Inoltre, sempre per realizzare l’eguaglianza economica e sociale, la Costituzione, in aderenza alla disposizione di cui all’art. 17 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (che prevede la “proprietà personale” come diritto inviolabile), pone norme a favore della piccola e media proprietà, disponendo, all’art. 44, che “la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive”. A detta disposizione, relativa alla proprietà terriere privata, si collega poi l’art. 47 Cost., secondo il quale la Repubblica “favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.

Dal complesso delle citate disposizioni costituzionali emerge con sufficiente chiarezza che la Costituzione non tutela affatto la proprietà cosiddetta parassitaria, ed impone al titolare di una proprietà di grandi dimensioni di impiegarla allo scopo di perseguire la sua funzione sociale (ad esempio, l’occupazione di lavoratori), mentre ogni cittadino ha il diritto sociale fondamentale ad ottenere la proprietà dei beni necessari per una esistenza “libera e dignitosa” (art. 36 Cost.), una proprietà definita dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 “proprietà personale”.

Il diritto alla proprietà privata è, conseguentemente, scorporato dai diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost. La proprietà privata non è un diritto umano inviolabile, che precede l’ordinamento giuridico, ma è un diritto che in tanto esiste in quanto la legge lo riconosca e garantisca subordinandolo allo scopo di assicurarne la “funzione sociale”. Giustamente osserva il Rodotà (S. Rodotà, Rapporti economici, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna 1982, pag. 118): “se l’analisi del testo costituzionale, della sua sistematica complessiva e dei lavori preparatori hanno una qualche rilevanza, tutto concorda nell’imporre l’esclusione del diritto di proprietà da quei diritti inviolabili dell’uomo di cui parla la Costituzione all’art. 2”. Non per niente, in quest’ultimo caso, la Costituzione usa l’espressione “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2, primo alinea), mentre nel caso della proprietà privata la stessa Costituzione usa l’espressione “la Legge riconosce e garantisce la proprietà privata”, fissandone i limiti.

Dunque, il futuro di questo istituto è pienamente rimesso alla volontà del legislatore ordinario, il quale, ovviamente, sarà tenuto ad agire in conformità dello spirito delle sopra ricordate disposizioni costituzionali. Come ebbe ad osservare il Calamadrei (P. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e i suoi lavori, in Commentario Calamandrei-Levi, I, XXXV, nonché in Scritti e discorsi politici, pag. 461), “per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”.

5. Come si nota da quanto sinora esposto, i Costituenti, pur dichiarando espressamente che “la proprietà è pubblica o privata”, hanno comunque attinto alla summa divisio romanistica tra beni in commercio e beni fuori commercio. Essi, infatti, hanno descritto una complessa disciplina giuridica soltanto per la proprietà privata solitaria, dimostrando così di ben conoscere la distinzione tra proprietà collettiva e proprietà individuale, ed implicitamente ammettendo la dicotomia “beni comuni (incommerciabili) e beni individuali (commerciabili)”.

Diventa, a questo punto, estremamente importante far cenno alla disciplina pubblicistica del demanio, dalla quale ha preso le mosse il nostro discorso, e che, come si è visto, non solo ha un fondamento costituzionale, ma ha anche ad oggetto beni comuni suscettibili di proprietà pubblica e collettiva.

Al riguardo deve innanzitutto ricordarsi che “non esistono beni demaniali se non di proprietà di Enti territoriali: ciò ha la sua base nella tradizione, la quale si collega al fatto che gli Enti territoriali rappresentano le rispettive collettività, e che i beni demaniali furono storicamente assoggettati a un regime particolare proprio in quanto posti al servizio della collettività esprimentesi nell’Ente territoriale” (A. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli 1969, pag. 455). “Dei beni demaniali, alcuni ineriscono a compiti riservati allo Stato e non possono che appartenere allo Stato: sono dunque beni demaniali per natura, e costituiscono il cosiddetto demanio necessario. Vi rientrano i beni del demanio marittimo, quelli del demanio idrico e quelli del demanio militare (art. 822, primo comma, codice civile). Altri beni (i quali potrebbero eventualmente appartenere anche a soggetti diversi) rivestono carattere demaniale soltanto se appartengono a un Ente territoriale (demanio non necessario o accidentale)” (A. Sandulli, o.c., pag. 456). Quanto alle vicende della qualità di bene demaniale, “è chiaro che il problema non ha ragione di essere posto per quei beni, i quali allo stato di natura posseggono sempre e necessariamente il carattere di beni pubblici: per i beni del demanio naturale (fiumi, laghi, ecc.), nonché per le miniere, l’inizio e la fine, rispettivamente, della demanialità e della indisponibilità sogliono coincidere con gli eventi (naturali o artificiali) che ne modificano la preesistente entità (deviazione del corso fluviale, prosciugamento del lago, ecc.)” (A. Sandulli, o. c., pag. 489). Analoga regola vale per il demanio marittimo, a meno che si tratti di zone demaniali che “non siano ritenute utilizzabili per gli usi del mare”, nel qual caso può prodecersi alla sdemanializzazione con decreto interministeriale, ai sensi dell’art. 35 del codice della navigazione.

I beni demaniali, come è noto, sono inalienabili, inespropriabili ed inusucapibili. Essi sono, però, trasferibili da un Ente territoriale ad un altro “tutte le volte che ciò non urti contro la necessità che il bene appartenga ad un ente specifico di una certa categoria, e che, in pari tempo, non venga modificato il suo stato di bene demaniale”, mentre sono assolutamente intrasferibili “i beni che non possono appartenere che al demanio dello Stato (demanio militare; demanio marittimo ed idrico)” (A. Sandulli, o. c., pag. 483).

E’ da notare, in particolare, che la intrasferibilità assoluta dei beni del demanio idrico, del demanio marittimo e del demanio militare dipende dal fatto che questi beni hanno la funzione naturale di soddisfare i bisogni essenziali di tutta la collettività nazionale, assolvendo così ad uno dei compiti essenziali dello Stato. Torna qui evidente la connessione tra sovranità e proprietà collettiva: su questi beni grava, nello stesso tempo, la sovranità e la proprietà del Popolo italiano (come si legge nel Regolamento del 1885, sopra citato), mentre ciascun cittadino, in quanto parte della Comunità nazionale, ha un diritto fondamentale al loro uso, se la funzione del bene lo consente, come avviene per il demanio idrico e per il demanio marittimo (sul collegamento tra “beni comuni” e diritti fondamentali, e su una più onnicomprensiva definizione di “bene comune”, vedi: A. Lucarelli, Note minime per una teoria giuridica dei beni comuni, in Quale Stato, I, 2007; Idem, Introduzione: verso una teoria giuridica dei beni comuni, in Rass. Dir. pubbl. europeo, n. 2/2007. Importante ricordare anche l’iniziativa del Comune di Napoli, che, con delibera di Giunta n. 01 del 20 luglio 2011, ha avviato “un processo per la creazione di una rete nazionale ed europea per la definizione di uno “Statuto europeo dei beni comuni”, che sarà oggetto di una proposta di iniziativa dei cittadini europei alla Commissione”).

6. Sorprende, pertanto, che il decreto legislativo  del 28 maggio 2010, emesso in attuazione, in particolare, dell’art. 19 della legge 5 maggio 2009, n. 42, e relativo al cosiddetto “federalismo demaniale”, preveda, all’art. 3, comma 1, lett. a), che “sono trasferiti alle Regioni, unitamente alle relative pertinenze, i beni del demanio marittimo….ed i beni del demanio idrico”, ed alla lett. b) dello stesso comma che “sono trasferiti alle Province, unitamente alle relative pertinenze, i beni del demanio idrico….limitatamente ai laghi chiusi privi di emissari di superficie che insistono sul territorio di una sola Provincia, e le miniere….che non comprendono i giacimenti petroliferi e di gas e le relative pertinenze, nonché i siti di stoccaggio di gas naturale e le relative pertinenze”.

Questi beni, ai sensi dell’art. 4, comma 1, dello stesso decreto legislativo, vengono trasferiti ai demani regionali e provinciali e la loro sdemanializzazione, ai sensi dell’art. 829 del codice civile, “con eventuale passaggio al patrimonio” disponibile delle Regioni e delle Province “è dichiarata dall’amministrazione dello Stato”.

Dunque i beni del demanio statale idrico e marittimo, i quali, come si è visto, sono “assolutamente intrasferibili”, in quanto servono a bisogni primari dell’intera Comunità nazionale ed assolvono ad una funzione primaria dello Stato, vengono, non solo trasferiti al demanio di  Regioni e Province, ma anche, eventualmente, immessi nel patrimonio disponibile di questi Enti, divenendo così “alienabili” e dando luogo ad una delle più insospettabili “privatizzazioni” ai danni dell’intera Comunità nazionale.

Inoltre, finché i beni in questione restano nel demanio regionale o provinciale (per quanto riguarda i laghi chiusi), ai sensi dell’art. 2, comma 4, dello stesso decreto legislativo, “l’Ente territoriale, a seguito del trasferimento, dispone del bene nell’interesse della collettività rappresentata ed è tenuto a favorire la massima valorizzazione funzionale del bene attribuito, a vantaggio diretto o indiretto della medesima collettività territoriale rappresentata”.

Insomma, i beni del demanio statale idrico e marittimo, vengono immediatamente, attraverso il trasferimento, sottratti alla proprietà ed all’uso dell’intera Comunità nazionale, per essere poi eventualmente sottratti  anche alla proprietà ed all’uso dei residenti nel territorio regionale o provinciale, a favore dei privati che risultino acquirenti a seguito delle privatizzazioni.

Si tratta di provvedimenti legislativi di gravità eccezionale, che vanno contro la lettera e lo spirito della Costituzione. Questa, come si è visto, mira ad un’equa ripartizione dei beni tra tutti i cittadini, ispirandosi al principio di eguaglianza sostanziale ed ai criteri dell’utilità generale e del preminente interesse pubblico. Il decreto legislativo in esame, invece, toglie a tutti i cittadini italiani, per favorire, in un primo momento, i residenti in ogni singola Regione, ed, in un secondo momento, addirittura singoli privati cittadini.

La violazione della Costituzione riguarda inoltre singoli articoli della stessa. Innanzitutto, è violato l’art. 76 Cost. per aver il Governo ecceduto dai limiti imposti dalla legge di delega (art. 19 della legge n. 42 del 2009). Inoltre, risultano violati i seguenti articoli: l’art. 1 Cost., in quanto viene lesa la sovranità della Repubblica e quella che Carl Schmitt denominava la “superproprietà” del Popolo sovrano; art. 2  Cost., in quanto, sottraendosi a tutti i cittadini italiani la proprietà collettiva e l’uso di beni necessari per soddisfare esigenze primarie della vita, si ledono diritti inviolabili relativi all’esistenza ed allo sviluppo della persona umana; l’art. 3 Cost., in quanto si creano molteplici disparità di trattamento fra i cittadini italiani; l’art. 5 Cost., in quanto, dividendo ingiustamente il demanio statale tra le varie Regioni e Province, si sottrae una parte del territorio alla Repubblica; l’art. 42 Cost., in quanto si sottrae indebitamente alla Comunità nazionale la proprietà e l’uso di beni appartenenti a tutti; l’art. 43 Cost., in quanto si sottraggono allo Stato-comunità beni di “preminente interesse generale”; l’art. 117, comma secondo, lett. l), in quanto, non si prescinde dai confini territoriali dei governi locali, per offrire servizi naturali di uniforme livello essenziale a tutti i cittadini italiani; l’art. 120 Cost., in quanto si infrange l’unità economica e giuridica della Repubblica. E, lo si creda, l’elenco potrebbe continuare.

7. In tutt’altra direzione avrebbe dovuto, invece, procedere il legislatore. La “rivoluzione promessa” della quale parlava il Calamandrei, piuttosto che togliere a tutti per dare a pochi, avrebbe dovuto realizzarsi nel senso di assicurare a tutti il massimo benessere possibile. Ed, a questo fine, non è chi non vede che la via migliore sarebbe stata quella di incrementare l’appartenenza e l’uso di beni comuni. I fini essenziali della Costituzione, e cioè lo sviluppo della persona umana ed il progresso materiale e spirituale della società, richiedono infatti in primo luogo che si impedisca che la proprietà di uno o di pochi possa limitare il soddisfacimento dei bisogni essenziali di tutti, sia quelli materiali, sia quelli spirituali. E qui è da porre l’accento, non solo sui beni materiali, come il demanio, ma anche sui beni immateriali, quali i brevetti, la proprietà intellettuale, l’informazione, la comunicazione e così via dicendo. I diritti inviolabili dell’uomo, alla cui tutela la Costituzione dedica la sua prima parte, possono facilmente essere limitati, o addirittura soffocati, dall’enorme potenza economica di pochi, i quali posseggono oramai molto più della ricchezza di tutti gli Stati complessivamente considerati. Di fronte alla potenza incontrollabile della speculazione di pochi accentratori di grandissime ricchezze, è ora di opporre la forza del diritto, che risiede nel sostegno convinto della volontà comune della Nazione.

L’equa distribuzione tra tutti della proprietà personale e l’incremento dei beni comuni, materiali ed immateriali, potrebbero essere gli strumenti più idonei per realizzare, almeno in parte, una concreta giustizia sociale.

 

*Destinato alla pubblicazione su Giurisprudenza Costituzionale

prof. Paolo Maddalena, giurista e magistrato, vice-presidente emerito della Corte Costituzionale.

Capire le rivolte arabe

$
0
0

Si è tenuto giovedì 6 ottobre 2011 alle ore 21, a Firenze presso il Circolo Vie Nuove di Viale Donato Giannotti 13, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe.

Sono intervenuti come relatori Daniele Scalea (co-autore del libro, segretario scientifico dell’IsAG e redattore di “Eurasia”), Giovanni Armillotta (direttore di “Africana”) e Vincenzo Durante (assistente ordinario, Università degli Studi di Firenze).

L’organizzazione è stata a cura del Circolo Vie Nuove e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). L’evento rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.



La Sfida di Abū Māzen: la Palestina nell’ONU

$
0
0

Sono passati 37 anni dal momento in cui, per la prima volta, venne rivendicato il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese nel più grande consesso internazionale. Da allora ad oggi, l’annosa questione ha attraversato numerose trattative senza mai giungere alla costituzione dello stato palestinese né all’approvazione del tanto agognato diritto al ritorno. Il travagliato processo di pace dimostra oggi il suo insuccesso: per la terza volta, il leader palestinese si presenta all’ONU per chiedere il riconoscimento ufficiale dello stato palestinese.

 

Sogni e speranze all’ONU

Era il 13 novembre del 1974, quando, Yāsir ʿArafāt, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, portò l’emergenza palestinese sotto i riflettori del palcoscenico internazionale. Un ʿArafāt appassionato e pungente incriminava i soprusi israeliani compiuti contro il suo popolo e annunciava l’emergenza dello stato palestinese. La Risoluzione che aveva permesso l’invito del leader palestinese era stata approvata a larga maggioranza, con 82 voti a favore, 4 contrari e 20 astenuti. “Sono venuto con un ramoscello d’olivo in una mano e un fucile da combattente nell’altra: non lasciate cadere il ramoscello d’olivo”, furono le celebri parole che inaugurarono l’orazione del leader. Una parte del mondo di allora si alzò in piedi per accoglierlo in un clima di applausi e ovazioni. In realtà, il precedente vertice arabo di Rabat, dell’ottobre del 1974, aveva già sancito il diritto del popolo palestinese ad un’autorità indipendente. Al discorso di quell’anno, seguirono non pochi successi diplomatici per il rappresentante del popolo palestinese. L’OLP venne presto riconosciuta come osservatore presso l’Assemblea Generale e ottenne il titolo di rappresentante legittimo del popolo palestinese all’interno della Lega Araba. Nel 1975, l’ONU approvò la Risoluzione 3.379 che qualificava il sionismo come forma di razzismo e di discriminazione razziale[1]. L’anno successivo, la Palestina venne ammessa alla discussione sul Medio Oriente in seno al Consiglio di Sicurezza. A quei tempi, l’inflessibile raìs sembrava molto meno disposto al compromesso. Tuttavia, ottenne un protagonismo non indifferente. Sebbene le risoluzioni dell’Assemblea non abbiano efficacia vincolante, allora ebbero una forza morale che promosse la causa palestinese agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

 

Eppure, l’eredità di quegli sforzi diplomatici venne cancellata in breve tempo. I primi anni Ottanta furono la premessa di una nuova tragedia: nel 1982 Israele scatenò l’operazione “Pace in Galilea” contro il Libano. Nel corso dell’occupazione di Beirut, l’allora Ministro alla Difesa, Ariel Sharon, invitò la milizia falangista, legata alla nota famiglia libanese Gemayel, a sferrare l’attacco contro i campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Fu una carneficina: rastrellamenti, stupri, mutilazioni, massacri, torture e umiliazioni. La strage fu compiuta indisturbatamente dal 15 settembre al 18 settembre del 1982. Novecento persone furono trucidate. Senza pietà.

 

Gli equilibri si fecero sempre più precari. Nel 1987 scoppiò la prima rivolta popolare spontanea dei palestinesi contro l’occupazione israeliana. Le tensioni si riaccesero e fu proprio in questa circostanza che il XIX Consiglio Nazionale Palestinese-CNP approvò, nel novembre del 1988, ad Algeri, la Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Palestina con capitale a Gerusalemme. Nel dicembre dello stesso anno, ʿArafāt tornò a parlare all’Assemblea Generale convocata, questa volta, a Ginevra, a causa del rifiuto, da parte degli Stati Uniti, di concedere il visto al leader palestinese. ʿArafāt lesse le decisioni del Consiglio all’Assemblea ribadendo che la risoluzione del conflitto sarebbe passata attraverso  la creazione di uno stato palestinese sui Territori Occupati. In questo modo, come aveva già fatto in precedenza il CNP, il leader dell’OLP riconosceva l’ammissibilità della risoluzione 242 e, quindi, ammetteva il ritiro dai soli Territori Occupati dal 1967. L’OLP aveva ufficialmente accettato queste posizioni rinunciando alla metà delle proprie terre. Il compromesso di ʿArafāt fu apprezzato dalla comunità internazionale tanto da ricevere diversi inviti ufficiali, tra cui, quello più celebre, del Presidente francese, François Mitterrand. Il 1988 era parso un anno favorevole all’azione diplomatica. Nonostante la svolta egiziana, ancora molti paesi arabi dimostravano il proprio sostegno alla causa attraverso pubbliche dimostrazioni. I successi dell’Intifada e le precarie condizioni dei governi di unità nazionale israeliani fecero pensare si stesse profilando, per una seconda volta, la possibilità di dare ascolto alla causa dell’OLP.

 

L’illusione di Oslo

 

Ancora una volta, l’azione diplomatica entrò in crisi. L’arrivo degli ebrei sovietici compromise maggiormente la condizione dei palestinesi. La Guerra del Golfo fece altrettanto. Si arrivò a nuovi negoziati nei primi anni Novanta, in un primo tempo, a Madrid e, poi, in Norvegia.

Il processo di Oslo venne salutato come un accordo di pace siglato tra le due parti. Questa fu la ragione per la quale, nel 1993, il mondo intero assistette alla stretta di mano tra  ʿArafāt e Yatzhak Rabin alla Casa Bianca con occhi quasi commossi. Da un lato, è facile comprendere quanto questo incontro, giunto mediaticamente dentro le case di tutti i cittadini del mondo, abbia suscitato emozione. D’altra parte, quell’evento, così propagato, non trasmetteva il reale significato della sua consistenza. Per tale ragione, è bene domandarsi quale fosse il vero contenuto della Dichiarazione dei Principi firmata a Oslo. Questa, infatti, non soddisfava le componenti in gioco, né le secolari richieste del popolo palestinese, piuttosto stabiliva l’orientamento che avrebbe dovuto guidare le future trattative[2]. Nello specifico, il documento contemplava la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese-ANP alla quale sarebbe stata affidata la giurisdizione sull’istruzione, cultura, salute, stato sociale e ordine pubblico. Israele avrebbe continuato a detenere la potestà sui coloni, sull’apparato militare, sulla difesa e sulla politica estera dei Territori Occupati. Inoltre, la Dichiarazione rinviava a ulteriori accordi i dettagli sul ritiro delle forze israeliane e le modalità di svolgimento delle elezioni dell’ANP. Infine, future negoziazioni avrebbero discusso il diritto al ritorno, la questione di Gerusalemme Est, il problema degli insediamenti, il controllo delle frontiere, la gestione delle risorse acquifere e la creazione dello stato palestinese entro cinque anni.

Polemiche a parte, la Dichiarazione non sanciva la pace, piuttosto stabiliva le direttive che il percorso successivo avrebbe dovuto attraversare allo scopo di raggiungere la pace. In questo atto, tuttavia, ʿArafāt rinviò una delle questioni più dolorose, quale il diritto al ritorno, ad un futuro ed eventuale accordo che, ad oggi, non è mai stato siglato. Stessa sorte è toccata alla dolente questione di Gerusalemme Est e alla costruzione dell’entità statuale. Come è noto, infatti, l’ANP, priva di sovranità sul territorio e sul suo popolo, non si è mai configurata come uno stato.

Allo stesso tempo, mentre Israele otteneva il riconocimento legittimo da parte dell’OLP, Oslo sanciva la fine dell’Intifada. In cambio, l’OLP non ha mai ottenuto uno stato, Tel Aviv l’ha riconosciuto come legittimo rappresentante del popolo palestinese, ma non ha mai ammesso la legalità di un eventuale stato arabo. Lo definì molto bene Edward Saïd il quale intravide, nel processo di pace del 1993, uno strumento giuridico che avrebbe consentito ad Israele di sostituire il suo dominio diretto con una forma di controllo indiretta sui Territori Occupati. In effetti, la costituzione dell’ANP ha permesso ad Israele di affrancarsi dai suoi doveri di potenza occupante, sanciti da tutte le convenzioni internazionali.

 

Il discorso di Abū Māzen

 

Il fallimento del decantato processo di pace, ad anni di distanza dal suo inizio, mostra chiaramente le sue storture. La teoria dei “due popoli, due stati”, a cui si ispirava Oslo, non è mai giunta al suo compimento. Per la terza volta, la questione palestinese è tornata al centro dell’arena internazionale. Il 23 settembre scorso, il leader palestinese Abū Māzen, ha presentato una richiesta di riconoscimento dello Stato Palestinese sulla base della storica Dichiarazione del suo predecessore.

La mossa del leader palestinese si inserisce in un intricato quadro di avvenimenti. Da un lato, la rilevanza di Israele, sempre più offuscato dal protagonismo turco e dagli eventi dello scenario regionale, retrocede in secondo piano. D’altra parte, gli Stati Uniti portano con sè l’eredità del discorso del 2009 a Il Cairo di Barak Obama il quale, denunciando le sofferenze dei palestinesi, si pronunciò a favore di uno stato indipendente. Per tali ragioni, il discorso del presidente statunitense lasciò lasciato spazio a grandi aspettative da parte palestinese.

In secondo luogo, i diciotto anni di negoziazioni hanno amplificato lo squilibrio nelle relazioni tra Israele e ANP rimarcando la componente debole e quella forte. L’iniziativa di  Abū Māzen, pertanto, sembra intenda correggere questa sproporzione condizionando la consapevolezza della comunità internazionale e ponendo il problema direttamente davanti alla coscienza mondiale.

Tuttavia, la comunità ebraica dimostra di avere un peso notevole anche in tale sede: gli Stati Uniti hanno già annunciato che ricorrano all’esercizio del veto all’interno del Consiglio di Sicurezza. Il presidente Obama, tradendo il celebre discorso del 2009, ha ammesso la possibilità dello stato palestinese ribadendo che questa si sarebbe concretizzata solamente attraverso Israele. È una formula che, nella torturata strada del processo di pace, si è affermata più volte, vale a dire, un negoziato che, fin dal principio, è succube delle rigide condizioni israeliane. In sintesi, le trattative che sono state perseguite e che continuano a profilarsi sono quelle secondo clausole israeliane: sì allo stato, ma con confini, acqua, insediamenti, politica estera, difesa e Gerusalemme nelle mani di Tel Aviv.

 

Le parole del leader palestinese all’ONU hanno rievocato la catastrofe del 1948, la Naqba, e la pesante impresa coloniale di Israele. Dopo aver condannato l’embargo contro Gaza e aver ricordato la tragica operazione Piombo Fuso contro la Striscia, Abū Māzen ha denunciato la persistente occupazione degli insediamenti israeliani, politica che rappresenta un ostacolo a qualunque manovra di pace. Sebbene meno carismatico del suo precursore, il discorso di Abū Māzen si inseriva nello stesso indirizzo dei precedenti. Ile sue parole, infatti, sono riconducibili alla tesi dei due stati sulla base dei confini del ’67. Tuttavia, ad oggi, tale politica non ha avuto riscontri concreti. Alla luce di ciò, il discorso del leader è parso, secondo alcuni, come una richiesta di elemosina ad un organo che conosce, fin dal suo inizio, il verdetto. Scardinare lo status quo significherebbe incidere su un meccanismo di interessi schiavi di Tel Aviv che impediscono di condannarne i soprusi.

Fin dalla sua nascita, infatti, Israele si è legittimata sul piano militare. E, ancora, oggi le violazioni dei diritti dei palestinesi rientrano nell’ambito di una violenza pianificata e organizzata sistematicamente dalla razionalità dello Stato. Ciò significa che stragi e soprusi vengono stabiliti con “ragionevolezza” a tavolino. Questo aspetto, oltre ad essere il più agghiacciante, è anche ciò che rende Israele inattacabile in quanto questo opera  nell’ambito della sua “legalità”. Alla luce di queste considerazioni, il peso del discorso di Abū Māzen non sembra essere significativo. Certamente, le sue parole potrebbero aver scosso la coscienza dell’opinione pubblica. Tuttavia, sebbene anche questo aspetto sia rilevante, la congiuntura prospetta un futuro più incerto che mai. Rimangono profonde perplessità su quanto le parole di Abū Māzen siano capaci di recidere i legami storici e di sovvertire l’ordine decennale costituitosi intorno allo scacchiere geopolitico della sofferente terra di Palestina.

La Turchia dopo lo scacco ai militari

$
0
0

Il 29 luglio scorso resterà nella storia della repubblica turca. Per la prima volta nello storico braccio di ferro tra istituzioni civili ed esercito è stato il secondo a fare un passo indietro: che si tratti di “aria di seconda repubblica” o meno il bastione del modello di stato ataturkiano è stato colpito.

Quel ruolo di arbitro delle faccende politiche che ha spinto l’esercito ad intervenire per ben tre volte nella sfera civile sembra appartenere ormai al passato. Archiviato anche il cosiddetto e-coup, l’avvertimento online contro la candidatura dell’allora ministro degli esteri Gül alla presidenza della repubblica, la Turchia è passata nelle mani di una nuova élite. Un élite che si dice islamica e democratica e che ora eleva con orgoglio l’esperienza politica turca a modello per il nuovo Medio Oriente. C’è chi pensa che dal 2002 la Turchia sia cambiata e che il ruolo dell’esercito debba cambiare a sua volta e chi teme che il cambiamento non sia altro che una mera sostituzione alle redini del paese. Anche il tradizionale scontro tra potere politico e militare segue ormai schemi diversi. Il 29 luglio scorso il Capo di Stato Maggiore Işık Koşaner insieme ai capi dell’esercito, della marina e dell’aeronautica si sono dimessi dai propri incarichi, lasciando scoperti i vertici del secondo esercito più grande della Nato. Questa volta, motivo dello scontro istituzionale è stato il respingimento della promozione di alcuni generali coinvolti nel processo “Balyoz”. Il cosiddetto “piano Balyoz”, piano martello, è un presunto progetto di destabilizzazione economica e sociale risalente al 2003 che avrebbe creato le condizioni necessarie all’intervento militare. Con la scoperta del piano, avvenuta nel 2010 durante l’inchiesta Ergenekon, e l’apertura delle investigazioni, sono state arrestate circa 200 persone tra militari in servizio e ufficiali in pensione. Teatro del nuovo scontro, lo YAS (Yüksek Askeri Şuma), il consiglio militare supremo dove vengono discussi gli avanzamenti di grado e dove, questa volta, Erdoğan è stato ritratto sedere a capotavola da solo invece che alla destra del Capo di Stato Maggiore come di norma. Il vuoto dei vertici è stato rapidamente colmato con la nomina di Necdet Özel, unico generale a non essersi dimesso, come capo delle forze armate. Ciò che è innegabile è l’inizio di un nuovo corso nei rapporti tra militari e politica come dimostra il fatto che in occasione dello “Zafer Bayramı”, il giorno in cui si celebra la vittoria contro la Grecia del 1922, è stato lo stesso Özel a congratularsi con il Presidente Gül e non il contrario. Ad aggravare il colpo ai militari, si è aggiunto poi il caso delle registrazioni contenenti le clamorose dichiarazioni di Koşaner. Nelle intercettazioni, pubblicate su internet pochi giorni dopo l’attentato del 17 agosto che ha visto l’uccisione di dieci soldati per mano del PKK, Koşaner denuncia l’impreparazione dei militari e il mal coordinamento delle operazioni condotte contro la guerriglia separatista. Altre dichiarazioni riguardano la distruzione di documenti relativi al piano Balyoz, documenti che i militari hanno sempre sostenuto appartenere ad un seminario di addestramento poi manipolati per screditare le forze armate. Messo alle strette, l’ex capo di stato maggiore ha voluto rilasciare una dichiarazione pubblica in cui riconosce le affermazioni in oggetto non come una confessione ma come un’auto-critica al funzionamento dell’esercito: “Queste affermazioni erano un’autocritica rivolta a chiarire alcune questioni importanti sul futuro delle Forze Armate, un avvertimento e una motivazione a non commettere gli stessi errori (…) Non ho mai detto che i documenti del piano Balyoz sono stati rubati (…) Come può un piano che non è ancora stato provato essere distrutto? Mi riferivo ai documenti del seminario sul piano di addestramento. Non c’è relazione con il caso Balyoz”(1). La recente richiesta di pensionamento del giudice Şeref Akçay, presidente dell’XI corte penale di Istanbul responsabile delle investigazioni sul caso Balyoz, lascia intravvedere nuovi sviluppi. Il giudice infatti si era opposto agli arresti sostenendo che i sospetti vengano trattenuti troppo a lungo in stato di detenzione e che ciò dimostra che le prove non sono state ancora assemblate(2). Sapere chi abbia pubblicato le dichiarazioni di Koşaner su internet certo aiuterebbe a capire meglio cosa sta succedendo tra militari e politica in Turchia. Erdoğan cavalca l’onda degli ultimi successi, dal referendum plebiscitario del 2010 alle recenti elezioni parlamentari, con le spalle coperte dalla sempre più influente maggioranza conservatrice. D’altra parte l’esercito come istituzione gode sempre di alta considerazione in un opinione pubblica dove il culto del generale padre della patria, Kemal Atatürk, è trasversale agli orientamenti politici. La separazione tra sfera civile è militare è essenziale ad un sistema democratico così come, ai fini di una democratizzazione sostanziale, è fondamentale che questa volta sia la società turca a svolgere un ruolo importante nel processo di riequilibrio istituzionale.

 

*Irene Compagnone è dottoressa in Relazioni e Politiche Internazionali (Università Orientale di Napoli)

 

Note:
1) “Işık Koşaner’den ilk açıklama” (La prima spiegazione di Isik Kosaner), Radikal, 27 agosto 2011,

http://www.radikal.com.tr/Radikal.aspx?aType=RadikalDetayV3&ArticleID=1061575&Date=27.08.2011&CategoryID=77

2) Usta, A. “Emeklilik istedi HSYK oynaladi”( Ha chiesto le dimissioni la HSYK ha dato l’approvazione) , Hurriyet, 6 ottobre 2011. http://www.hurriyet.com.tr/gundem/18912760.asp

 

NATO e Russia alla luce delle nuove dottrine strategiche

$
0
0

A vent’anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dallo scioglimento del Patto di Varsavia (1 luglio 1991) la dialettica politico/militare tra la NATO e l’erede dell’URSS – la Federazione Russa –  ha assunto un minor grado di scontro, basti menzionare la minore diffidenza a livello politico e la creazione del consiglio NATO-Russia.

Malgrado la distensione successiva al periodo della “pax armata sovietico-americana”(1), tuttavia, la rivalità strategica tra le due potenze, emersa dalle nuove dottrine militari elaborate nel 2010, è spiegabile alla luce delle interpretazioni che la geopolitica classica ha fornito all’analisi delle relazioni internazionali (2).

Il Cremlino ha avversato l’allargamento NATO ad Est, dalle repubbliche baltiche alla Mitteleuropa, così come il tentativo di Washington di inglobare Ucraina e Georgia (3) nonché l’intervento dell’Alleanza in Kosovo. Nondimeno, gli USA hanno contestato l’assistenza dell’esercito russo alla popolazione di Abkhazia e Sud Ossezia contro le milizie georgiane. Altra questione controversa, suscettibile di cagionare ulteriori attriti, è lo scudo antimissilistico progettato dall’Alleanza Atlantica per essere installato in taluni Paesi dell’Est Europa, asseritamente in funzione anti-iraniana ma che Mosca considera una minaccia contigua ai propri confini.

NATO: dottrina strategica tra Guerra Fredda e fase unipolare

L’Alleanza Atlantica ha iniziato a parlare di “nuovo Concetto Strategico” nel 1991 rendendo pubblico il superamento della strategia del confronto bipolare – avviato nei primi giorni di esistenza della NATO. Dopo la strategia basata su operazioni di difesa territoriale su larga scala, adottata nei primi anni ’50, e terminata la “strategia di risposta massiccia” della metà degli anni ’50, nel 1967 la NATO ha optato per la strategia della “risposta flessibile” che prevedeva una risposta graduata al danno inferto dal nemico e nello stesso tempo una replica passibile di ascendere fino al ricorso alle armi nucleari. Siffatta strategia è durata sostanzialmente sino al crollo del muro di Berlino, quando si è fatta strada l’idea di aggiornare la strategia della NATO aggiungendo nuove missioni e nuove capacità che la rendessero più efficace al nuovo contesto strategico e politico dell’Europa e, contemporaneamente, consona con i caratteri della sicurezza cooperativa e comprensiva che erano emersi in Europa con il Processo di Helsinki (4).

Il Concetto Strategico del 1999 conferma che lo scopo essenziale e duraturo dell’Alleanza è quello di “salvaguardare la libertà e la sicurezza dei suoi membri con mezzi politici e militari, affermando i valori della democrazia, dei diritti umani e dello stato di diritto”: pur riaffermando le prerogative della strategia precedente, il Concetto elaborato nel 1999 comprende la preservazione del legame transatlantico, il mantenimento di efficaci capacità militari e lo sviluppo di un’identità difensiva e di sicurezza europea all’interno dell’Alleanza (5).

NATO: il “nuovo Concetto strategico” del 2010

Nell’ambito del nuovo Concetto strategico predisposto nel 2010, gli obiettivi principali della NATO sarebbero quelli di migliorare il regime globale di non proliferazione, il taglio degli arsenali nucleari, la lotta al terrorismo, la costruzione di uno scudo di difesa missilistica in Europa, combattendo altresì la pirateria marittima ed i cyber-attacchi. Altri obiettivi includono l’impegno a garantire la sicurezza energetica, la prevenzione del riscaldamento globale terrestre e la protezione delle fonti d’acqua e delle altre risorse naturali. Infine, si auspica una istituzionalizzazione dell’Alleanza che conduca alla realizzazione di un dipartimento NATO presso l’ONU, con annesso l’onere di fornire supporti militari alle operazioni civili delle Nazioni Unite, come del resto è avvenuto dalla prima Guerra del Golfo in avanti.

Il Concetto comprende inoltre un intero capitolo sulla Russia, all’interno del quale si auspica il rafforzamento della cooperazione nell’ambito del Consiglio NATO – Russia, ritenuta insufficiente. La Federazione Russa non è più vista come un nemico ma, d’altro canto, la NATO rifiuta un partenariato con la Russia per non limitare la propria capacità di proteggere i Paesi membri. In quest’ultimo corollario è insito il concetto di rivalità strategica rimarcato dagli strateghi statunitensi sulla base delle teorie geopolitiche di Sir Halford Mackinder e Nicholas Spykman.

La nuova dottrina militare russa

La nuova dottrina militare russa ha introdotto, rispetto alle precedenti versioni della stessa (1993 e 2000), una serie di novità significative per il “reset” delle relazioni con gli Stati Uniti e per la definizione del ruolo che la Russia intende svolgere nell’ambito della sicurezza globale. Malgrado il documento ufficiale del Cremlino non parli esplicitamente di “minaccia della NATO”, in esso viene rubricato alla stregua di “pericolo” l’avvicinamento dell’infrastruttura militare dell’Alleanza Atlantica ai confini russi, per tale intendendosi l’ampliamento dell’Alleanza a Paesi un tempo appartenenti all’Unione Sovietica o alla sua sfera d’influenza, nonché il Membership Action Plan (MAP) previsto per Ucraina e Georgia, volto a raccogliere i progressi fatti nel raggiungere i criteri stabiliti per accedere all’Alleanza.

Nei termini della geopolitica classica, adattati dal massimo esponente vivente della scuola geopolitica americana, Zbigniew Brzezinski, l’avvicinamento “dell’infrastruttura militare della NATO” è configurabile alla stregua di quella destabilizzazione – eterodiretta o manu militari – dei Paesi facenti parte dell’ “arco di crisi” postulato dallo stesso Brzezinski nella sua opera “The Grand Chessboard” (6). Per la verità, la strategia dell’ “arco di crisi” fu teorizzata negli anni ’70 da Bernard Lewis (7), il quale intendeva sobillare contro l’URSS tutti gli Stati islamici che si “estendono lungo il fianco meridionale dell’Unione Sovietica dal subcontinente indiano alla Turchia, e verso sud attraverso la Penisola Arabica fino al Corno d’Africa”; inoltre il “centro di gravità di quest’arco è l’Iran” (8). Peraltro lo stesso Samuel Huntington ammise il suo debito nei confronti di Lewis, riconoscendo di aver tratto l’assunto sullo “scontro delle civiltà” da un articolo pubblicato da Lewis nel numero del settembre 1990 del mensile “The Atlantic” (9).

Nondimeno, nell’elenco delle 11 possibili minacce alla sicurezza e all’integrità della Federazione Russa, ben sei concernono esplicitamente la NATO e la sua interferenza in quella che viene ritenuta la legittima sfera di influenza di Mosca nell’Europa Orientale (10).

Il documento del Cremlino effettua un preciso ragguaglio a proposito dello scudo missilistico che gli USA intenderebbero installare in taluni stati ex-sovietici, definito senza mezzi termini una “minaccia alla stabilità globale” e una violazione “dell’equilibrio delle forze in campo nucleare” (11), categorie all’interno delle quali rientrano la militarizzazione dello spazio cosmico e l’installazione di sistemi strategici non nucleari di armi ad alta precisione.

Una parte sostanziale della nuova dottrina militare russa è dedicata, altresì, alle armi nucleari: questa tipologia di armamenti rimarrà il decisivo fattore di prevenzione dei conflitti militari. La nuova dottrina ammette la possibilità di trasformazione di un conflitto militare ordinario in nucleare, pertanto la Russia si riserverebbe – conformemente alla dottrina del 2010 – il diritto di usare l’arma atomica per neutralizzare l’eventuale uso della forza contro di essa e/o contro i suoi alleati, così come nel caso di “aggressione contro la Russia con armi convenzionali, che minacci l’esistenza stessa dello Stato” (12).

Parallelamente alla dottrina militare, la Federazione Russa ha approvato anche i “Fondamenti della politica statale nel campo del contenimento nucleare”, valevole sino al 2020. Interpretando l’anzidetto documento, il vice segretario del Consiglio di Sicurezza del Paese (ex capo di Stato Maggiore, Generale Juriji Baluevsky) ha asserito che Mosca intende sviluppare tutte le tre componenti della sua triade nucleare difensiva: terreste, marittima ed aerea. L’arma nucleare e i suoi vettori rimangono per il colosso eurasiatico una garanzia dello sviluppo sicuro, della stabilità e del contenimento strategico (13).

Il documento che contiene le linee guida per la Sicurezza Strategica Nazionale (Nss) di medio periodo – pubblicato nel maggio 2009 – si prefigge nello specifico l’obiettivo di controbilanciare la NATO con altre alleanze. In particolare con la OTSC (che raggruppa le repubbliche ex sovietiche), la CSI (comunità dell’ex URSS), l’EurAsEc (comunità economica eurasiatica), la SCO (l’Organizzazione per la Sicurezza di Shanghai, che include la Cina, oltre ad alcune potenze emergenti in qualità di membri osservatori – India, Iran, Mongolia, Pakistan). L’NSS non esclude neppure una possibile partnership con l’Alleanza Atlantica ma, vista l’eterna fase di stallo in cui grava l’unico strumento di raccordo (Consiglio NATO-Russia), suggerisce altri interlocutori occidentali come l’Unione Europea (14).

 

(1) Cit. Bruno Bongiovanni, Storia della guerra fredda, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 26

(2) Per una interpretazione del mondo attuale sulla base delle teorie classiche della geopolitica, si veda: Daniele Scalea, La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali, Fuoco Edizioni, Roma, 2010; Carlo Jean, Geopolitica del caos. Attualità e prospettive, Franco Angeli, Collana “Centro Studi di Geopolitica Economica”, 2007

(3) Cfr. Stefano Grazioli, Lo scudo stellare tra la Russia e la NATO, “East Side Report”, 12/07/2011 (http://esreport.wordpress.com/2011/07/12/lo-scudo-tra-mosca-e-nato/)

(4) Cfr. Fulvio Attinà (a cura di), La politica di sicurezza e difesa dell’Unione Europea. Il cammino europeo dopo il trattato di Amsterdam, Artistic & Publishing Company (collana) CeMISS, Roma, 2001, pp. 200-201

(5) Cfr. The Strategic Concept of Alliance, Nato Handbook (http://www.nato.int/docu/handbook/2001/hb0203.htm)

(6) Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York, 1997

(7) Docente a Princeton, specializzato presso l’Arab Bureau di Oxford, uno dei vivai più esclusivi della geopolitica inglese. Fu anche un ufficiale dei servizi segreti britannici e svolse un ruolo fondamentale come professore, guru e mentore per due generazioni di orientalisti, accademici, esperti dei servizi segreti Usa e britannici, membri di think tank e un assortimento di neo-conservatori

(8) Bernard Lewis, Rethinking the Middle East, in “Foreign Affairs”, Fall 1992, pp. 116-117

(9) Cfr. Bernard Lewis, The roots of muslim rage, in “The Atlantic”, September 1990 (http://www.theatlantic.com/magazine/archive/1990/09/the-roots-of-muslim-rage/4643/). Nell’articolo Lewis spiegava come la “rabbia musulmana” stesse portando “niente di meno che ad uno scontro di civiltà – reazione forse irrazionale, ma certamente storica, di un antico rivale contro l’eredità giudeo-cristiana”

(10) Cfr. Andrea Bogi, La dottrina militare russa: tra vecchie inimicizie e nuove prospettive, “Eurasia online”, 16/02/2010 (http://www.eurasia-rivista.org/la-dottrina-militare-russa-tra-vecchie-inimicizie-e-nuove-prospettive/3237/)

(11) Cfr. The Military Doctrine of the Russian Federation, “The School of Russian and Asian Studies”, 20/02/2010 (http://www.sras.org/military_doctrine_russian_federation_2010)

(12) Ibidem

(13) Cfr. La nuova Dottrina Militare della Russia, ”La Voce della Russia”, 06/02/2010 (http://italian.ruvr.ru/2010/02/06/4593855.html)

(14) Cfr. Stefano Magni, Per Mosca una nuova dottrina, ma la strategia militare di sempre, “LOccidentale”, 22/05/2010 (http://www.loccidentale.it/articolo/dottrina+militare.0091135)

 

* Alessio Stilo, dottore in Scienze Politiche (Università di Messina). Laureando magistrale in Relazioni Internazionali con una tesi sperimentale sulla nuova politica estera turca. Caporedattore del magazine online “LaSpecula”, collabora con il think tank “Geopolitica.info”

 

Il ritorno di Putin segna un mutamento strategico della Russia

$
0
0

Fonte: Réseau Voltaire

L’annuncio che il presidente russo Dmitrij Medvedev e il Primo Ministro Vladimir Putin pianificano il cambio di posizione a marzo, è stato dipinto dalla stampa internazionale come un affare personale tra i due. Per l’analista messicano Alfredo Jalife, ridurre la politica russa a queste due figure è una manovra dei mass media per nascondere ciò che è realmente in gioco: il recupero della sovranità energetica russa e il suo riavvicinamento militare con i paesi BRICS, soprattutto la Cina.

 

Il ritorno del primo ministro Vladimir Putin – grande zar dell’energia – a candidato alla presidenza segna l’irrigidimento della posizione geostrategica della Russia nei confronti del disfacimento del capitalismo selvaggio e delle minacce di una nuova guerra mondiale da parte dei circuiti finanziari israelo-anglo-statunitensi.

Tale irrigidimento era prevedibile dopo gli innumerevoli affronti fatti contro la Russia e la Cina da parte di ciò che resta dell’”Occidente” economicamente paralizzato: la conquista del petrolio della Libia, l’installazione di un sistema di difesa missilistico NATO nell’”estero vicino” russo, la provocatoria vendita di armi degli Stati Uniti a Taiwan; le prossime guerre per il petrolio e il gas del statunitense Africom, come ha candidamente dichiarato Johnny Carson, Assistente Segretario di Stato [1].

La scandalosa campagna di disinformazione da parte dell’oligopolio mediatico israelo-anglo-statunitense (es. il duo Rothschild-Murdoch tramite Fox News e Sky News) escogita un racconto fantastico che parla di uno scontro tra il presidente uscente Medvedev e l’intrattabile Primo Ministro Putin, con i sentori di una guerra civile e una nuova balcanizzazione della Russia.

La campagna si spinge fino ad ostentare sfacciatamente la sua scelta: Medvedev, i “modernisti” e i filo-occidentali disposti ad aprire il succulento mercato petrolifero alle multinazionali della NATO, contro lo sciovinista e anacronistico Putin, una ex “spia” del KGB assetato di potere autocratico.

Ricorrere a tale grossolana caricatura delle relazioni delle forze interne della Russia e fedele ai suoi interessi petroliferi, le mendaci corporations mediatiche aziendalistiche hanno tentato di distorcere la realtà che oggi le esplode in faccia.

Nessuno sostiene che il tandem Putin-Medvedev (in questo ordine) sia inevitabile o che simbolizzi l’aquila russa a due teste, ma è innegabile che questo paese – una superpotenza nucleare geostrategica pari agli Stati Uniti, che miracolosamente nasce dalla malinconia geopolitica del 1991, quando Eltsin-Gorbaciov vi furono inghiottiti, ha fatto il suo ritorno fin dal 2000, grazie alla leadership di Putin.

E’ Putin che ha progettato la resurrezione geostrategica della Russia, grazie soprattutto al recupero delle sue riserve di idrocarburi. La grande nazione russa è perfettamente consapevole di questo. Se le loro reazioni furiose hanno una qualche indicazione, i circuiti finanziari della plutocrazia neoliberista oligarchica della Gran Bretagna, il cui massimo portavoce è la tripletta Financial Times/Economist/BBC (come ha riconosciuto Jeremy Browne, ministro del gabinetto Cameron), hanno reagito con veemenza contro il ritorno al potere di Putin, in quanto danneggia i loro interessi geopolitici in Eurasia.

Basti citare i più recenti titoli nichilisti di The Economist, che non s’è morsa la lingua dalla capitale di un paese che era stata appena data alle fiamme dai suoi giovani affamati e senza lavoro: “La Russia e il suo scontento”, “Il ritorno di Putin al Cremlino segna la fine di quattro anni di farsa. La vera questione è come rimarrà al potere.” “Il ritorno di Putin è un male per la Russia.” “Il circo delle elezioni russe.” “La Russia oggi è stagnante e senza speranza.” Mi limiterò a confutare l’ultimo titolo: Putin-Medvedev, la Russia è in forma assai meglio della decadente Gran Bretagna, in caduta libera.

Sono rimasto profondamente colpito dalla blanda (finora) reazione del New York Times, forse per via del perezagruzka (reset) delle relazioni USA-Russia e la sorprendente, anche se molto recente “alleanza affaristica” di un importante accordo geostrategico raggiungere tra Exxon-Mobil e Rosneft [2] per l’esplorazione degli idrocarburi nella regione artica, che ha messo da parte la britannica BP – un presunto asset fisso della Rothschild Bank e leader dei predatori del Golfo del Messico – di concerto con la sua partner “perforatrice“: la criminale (letteralmente) Halliburton and Schlumberger.

Non è cosa da poco per la Exxon-Mobil esplorare il Mar di Kara (Artico), vicino alle coste russe [3]. Alexander Rahr, esperto di Russia della German Foreign Policy Association (DGPA) di Berlino, ha detto al giornale tedesco Bildzeitung [4] che “Putin è stata una buona cosa (sic) per la Russia.” Perciò, se è “cattivo” per la Gran Bretagna, è “buono” per la Germania?

Rahr ha commentato che il germanofilo Putin (parla un fluente tedesco) “vuole penetrare l’Occidente attraverso la Germania“, mentre “l’alternativa a Putin sarebbero i nazionalisti anti-occidentali“. Infatti, le “prospettive occidentali” per Gran Bretagna e Germania sono diametralmente opposte.

Il giorno prima dell’inaugurazione di un terzo mandato per Putin, il ministro della difesa russo Anatolij Serdjukov ha ospitato a Mosca Guo Boxiong, Vice Presidente della potente Commissione Militare Centrale del Partito comunista cinese [5].

Ancor più importante, dopo essere stato proclamato candidato alla presidenza, Putin ha annunciato un viaggio in Cina, per ampliare il potenziale geostrategico e per rafforzare le relazioni bilaterali.

Ciò che richiama l’attenzione è che Stratfor [6], il portale di disinformazione globale texano-israeliano, avrebbe riferito del ritorno di Putin con una mitezza eccessiva: “Una forte preoccupazione per l’influente istituzione dei servizi di sicurezza russi, è che Medvedev è considerato internazionalmente un capo debole (sic) rispetto al suo predecessore. Putin non è interessato (supersic!) alla presidenza, a meno che non sia necessario al fine di ripristinare la percezione di un Cremlino più assertivo“.

Se la “democrazia” è la quintessenza del potere popolare, allota Putin non aderisce solo alle regole della Costituzione russa ma, meglio ancora, è ancora più “popolare” dei suoi rivali “occidentali“, in un momento estremamente critico per il mondo, in cui i concetti idealistici della filosofia politica si stanno rapidamente erodendo.

Il premier russo vanta un massiccio sostegno pubblico all’80 per cento che, di sicuro, nessun leader della NATO può pretendere (che costantemente schiamazzano di suffragi universali per gli altri, ma non per se stessi), a partire dal sempre più vacuo Obama (ostaggio dei “13 banchieri di Wall Street“, Simon Johnson dixit), passando per Sarkozy (il “conquistatore del petrolio della Libia“, che fu orribilmente martoriato nelle elezioni senatoriali dal Partito socialista), e giù fino al pusillanime leader britannico David Cameron, che non sa dove nascondersi nel fuoco incrociato (letteralmente) urbanistico e finanziario del suo paese.

Mentre Obama, totalmente prigioniero e castrato dai bankster di Wall Street, partecipa alla distruzione del mondo – dal salvataggio dei banchieri insolventi, sempre arroganti, e non dei cittadini – Putin cerca di ristabilire l’equilibrio del mondo, andato perso durante la sfortunata fase dell’unipolarismo degli Stati Uniti, in armonia con la Cina (per estensione: BRICS tra cui il Sud Africa), per riorganizzare il mondo da una prospettiva multipolare.

Ci riuscirà?

 

Note:

 

[1] Annual Air&Space Conference and Technology Exposition, 19-21 settembre 2011.

[2] The Independent, 31 agosto, 2011

[3] the9billion.com, 1 Settembre 2011

[4] 26 Settembre 2011

[5] Xinhua, 23 settembre 2011

[6] 24 Settembre 2011

 

(Traduzione di Alessandro Lattanzio – http://aurorasito.wordpress.com/ )

 

 

Capire le rivolte arabe

$
0
0

Si è tenuto sabato 8 ottobre 2011 alle ore 16.00, a Modena presso la Sala Conferenze della Circoscrizione Centro Storico in Piazzale Redecocca 1, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe.

Sono intervenuti come relatori: Pietro Longo (co-autore, redattore di “Eurasia”) e Daniele Scalea (co-autore, segretario scientifico dell’IsAG, redattore di “Eurasia”).

L’organizzazione è stata a cura di “Pensieri in Azione” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). L’evento rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.

VIDEO DELL’EVENTO



Viewing all 153 articles
Browse latest View live