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Channel: Cristina Kirchner – Pagina 148 – eurasia-rivista.org

Straordinario successo del seminario geopolitico

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Fonte: “Stampa Sud

 

Trinitapoli, 22 novembre 2011. 

Oltre novanta persone tra accademici, imprenditori, professionisti, giornalisti e studenti universitari, sabato scorso hanno preso parte al convegno di geopolitica intitolato “La prospettiva Eurasiatica. Le rivolte arabe”, presentato dal Prof. Tiberio Graziani direttore di “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” e presidente dell’“IsAG – Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie”. L’evento, che ha avuto luogo in un palazzo antico di Trinitapoli,  su invito  della padrona di casa  Maria Antonietta Piscitelli, organizzatrice del seminario, nonché  giornalista ed  esperta di cerimoniale e protocollo nazionale e internazionale, ha riscosso particolare successo sia per lo spessore e l’attualità dei contenuti  sia per l’atmosfera di convivialità che hanno  favorito il dibattito  tra relatore e partecipanti.  Tiberio Graziani, è relatore abituale ai convegni internazionali del Forum Pubblico Mondiale – Dialogo di Civiltà (WPF – Dialogue of Civilizations). Ha insegnato per anni nelle università di Perugia e l’Aquila. Ha tenuto corsi per l’ICE (Istituto per il Commercio Estero) in varie nazioni, tra cui Uzbekistan, Cina, India, Libia, Argentina. Dopo un breve intervento di saluto ai partecipanti della dott.ssa Piscitelli, il presidente Graziani ha inquadrato geopoliticamente i recenti fenomeni di rivolta e di conflitti in Nord Africa e Vicino e Medio Oriente – quell’area che gli Statunitensi hanno ribattezzato “Grande Medio Oriente”. Si tratta, secondo Graziani, di una fascia frammentata e vulnerabile attraverso cui la potenza, principalmente aero-marittima, degli USA cerca di penetrare in profondità nel continente eurasiatico. Alla luce di questo prisma geopolitico, si sono analizzati i casi specifici della Libia, della Tunisia, dell’Egitto, della Siria, dell’Iraq e dell’Iran. Il seminario si è concluso con piena soddisfazione dei presenti, con una cena a buffet,  ricca di sapori e colori invitanti,  offerta dall’organizzatrice dell’evento. I selezionatissimi partecipanti, prima del commiato si sono congratulati con Tiberio Graziani per l’importanza  dei temi trattati,  e con la padrona di casa Maria Antonietta Piscitelli per aver saputo coniugare cultura e gastronomia,  in un ambiente privato, elegantemente curato,  che non aveva nulla da invidiare alle sedi istituzionali dove di prassi hanno luogo  eventi di tale spessore intellettuale.
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Con lo Spirito Chollima

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Marco Bagozzi, Con lo Spirito Chollima, 156 pagine 14,00 €

12 € per i membri della Korean Friendship Association e gli abbonati di “Eurasia”
Sconto 40% per chi ordina più di 5 libri

Sommario del libro:
Prefazione di Paolo Piu (Segretario Organizzativo KFA – Italia); Introduzione; Le origini; Un cammino lungo 55 anni; Albo d’oro; La formula del campionato coreano; Le esperienze dei calciatori coreani all’estero ; Kim Yong-Ha, un coreano sulla panchina di Cuba; Lo sport e l’Unità coreana; Appendice Foto; Sitografia, filmografia e bibliografia consultata e consigliata.

L’introduzione:

Quando Michel Platini dichiara “In ogni squadra di calcio si vede una cultura, una mentalità” non sbaglia. In particolare sono le squadre nazionali a rappresentare sul prato verde i vizi e le virtù di un Popolo, di una Nazione, di uno Stato.
Non è un’eccezione la nazionale della Repubblica Popolare Democratica di Corea : le strategie tattiche calcistiche con cui si è presentata nelle sue due apparizioni alla massima manifestazione calcistica, i Mondiali 1966 e 2010, rappresentano una sorta di paradigma dei due periodi in cui, in linea di massima, è divisibile la storia della nazione asiatica.
La nazionale giunta in Inghilterra rappresenta uno stato in pieno spirito rivoluzionario. Uno dei cosiddetti “popoli giovani”, spinto da un’indipendenza acquisita da poco, da una guerra contro l’Imperialismo in cui si è difeso con onore («un conflitto che, pur se non vinto, non poteva neppure dirsi perduto»1), da un’economia di scambio con gli altri paesi del blocco socialista che poteva offrire una vita più che dignitosa, dall’orgoglio di rappresentare un sistema nuovo. Era un paese “all’attacco”, spregiudicato, sbarazzino. E la nazionale di calcio si presenta in Inghilterra con questa mentalità: calcio totale, grande corsa, pochi fronzoli, tutti all’attacco. Sorprende, come vedremo, il mondo e si fa precorritrice di un nuovo modo di concepire il calcio, rivoluzionario rispetto la stantia tattica dell’”occidente borghese”.
Dopo 54 anni la RPDC si ripresenta alla ribalta mondiale. E si presenta con una strategia tattica completamente opposta. Conquista la qualificazione, infatti, grazie ad una difesa di ferro, ad un bunker inespugnabile. Subisce solo 7 gol nelle 16 partite di qualificazione (di cui 2 totalmente ininfluenti nel play off contro la Mongolia, totale 9-2). E, a conferma di quanto detto sopra, la strategia difensiva rappresenta la mentalità dello stato coreano, dopo il crollo del blocco socialista. La RPDC è l’ultimo paese asiatico caratterizzato da un socialismo intransigente. La vicina Cina si è lanciata nel confronto con il resto del mondo, Laos e Vietnam adottano ormai politiche tutt’altro che socialiste, Cuba, Bielorussia, Angola sono paesi lontani: ecco perché, oggi, la Corea Popolare si difende, rafforzando il suo esercito, mobilitando il popolo nella costruzione autarchica e patriottica del suo socialismo. E così come la difesa messa in campo dal mister Kim Jong-Hun è una difesa caratterizzata da grande ordine e disciplina, anche il più acerrimo nemico del socialismo coreano non può non ammettere che la caratteristica più evidente di Pyongyang e delle altre città è proprio l’ordine.
In Corea, come in tutti i paesi di stampo socialista, lo sport e in questo caso il calcio è da leggere come fattore di educazione e di formazione, a differenza di quanto vediamo nello sport “occidentale” (nelle Americhe e in Europa, particolarmente) in cui il fattore spettacolare e agonistico è preponderante.

1.Maurizio Riotto, Storia della Corea, ed. Bompiani, pag. 282

 
Per ordinare il libro scrivere una mail a calciocorea@gmail.com

Modalità di pagamento:
Bonifico Bancario: IBAN IT 97 U 03075 02200 CC0010292530 intestato a Marco Bagozzi
Transazione con paypal a marcobagozzi@yahoo.it

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Anzio, giovedì 24 novembre 2011 presentazione del libro “101 Storie dell’Islam”

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Giovedì 24 novembre alle ore 17.00, presso la Sala Consiliare di Villa Corsini Sarsina ad Anzio, sarà presentato il libro “101 Storie dell’Islam”-Casa Editrice Newton Compton.

All’iniziativa interverranno:

  • l’autore prof. Angelo Iacovella, docente universitario di Lingua e Letteratura Araba
  • il Sindaco di Anzio, Luciano Bruschini
  • il Consigliere Comunale, Roberta Cafà – coordinatrice regionale di Fed.Ar.Com che ha organizzato l’iniziativa con l’intendo di promuovere la conoscenza del complesso mondo islamico e dei suoi costumi.
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Difesa, sicurezza e diritto internazionale nel Mediterraneo (primo semestre)

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Si è svolto a Enna presso la locale università, nel mese di novembre 2011, la prima parte del ciclo seminariale Difesa, sicurezza e diritto internazionale nel Mediterraneo.
Le prime cinque lezioni del ciclo hanno riguardato: La prospettiva eurasiatica e il Mediterraneo (docente: Tiberio Graziani, data: 7 novembre), La cerniera mediterraneo-centrasiatica (docente: Tiberio Graziani, data: 8 novembre), La guerra di Libia e il diritto internazionale (docente: Paolo Bargiacchi, data: 9 novembre), Introduzione al diritto islamico e dei paesi musulmani (docente: Pietro Longo, data: 16 novembre), L’emergenza Lampedusa tra diritto e politica europea (docente: Paolo Bargiacchi, data: 23 novembre).
Il ciclo seminariale è organizzato dalla Cattedra di Diritto Internazionale della Facoltà di Scienze economiche e giuridiche dell’Università “Kore” di Enna e dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

 

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“Hannah antisemita”

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Presentazione editoriale:

Il rapporto tra gli ebrei e gli altri popoli è sempre stato problematico. Un contrasto che spesso nella storia ha avuto esiti drammatici, dei quali quello in epoca nazista è stato solo l’ultimo.
L’opinione corrente vuole che tali attriti nascano dalla “banalità” del male, dall’opportunismo politico, dall’odio, dalla patologia psichica degli aggressori, dalla loro necessità di un collante sociale e di un nemico comune.
Questo è quello che siamo abituati ad ascoltare da decenni. Ma, chiediamoci, al di là degli esiti violenti in cui spesso è sfociata, la contrapposizione ha profonde motivazioni culturali? Esistono delle cause reali, che risalgono al comportamento degli ebrei (o meglio, di certi ebrei), alla visione del mondo ebraica, le quali danno origine ai cosiddetti “comportamenti antisemiti”?
Di un fatto bisogna dar conto: più che una religione, quella ebraica è una filosofia, tanto forte ed originale da essere protagonista (se nel bene o nel male dipende dal punto di osservazione), nella storia dell’umanità. E ciò è avvenuto nonostante l’esiguità degli ebrei stessi.
Oggi, nonostante passino i decenni, il concetto di antisemitismo è sempre più centrale sia come categoria ideologica che, purtroppo, come accusa anche giuridica. “Giornate del ricordo”, innumerevoli e costose iniziative di commemorazione e approfondimento, progetti scolastici, musei, mostre “per non dimenticare”, si uniscono a più deleterie leggi contro la libertà di pensiero ed opinione.
Ma cosa significa davvero “antisemitismo” e qual’è la sua origine? Oggi è possibile e doveroso, a sessant’anni dalla Shoah, riflettere in maniera serena e imparziale su questo tema.
Oggi è ritenuto antisemita colui che nutre dei pregiudizi verso gli ebrei, ma sono davvero pregiudizi?
Questo libro si propone di prendere in esame, uno per uno, analiticamente, i cosiddetti pregiudizi antisemiti, per saggiarne la consistenza, per porli al vaglio della riflessione storica e filosofica.
Gli ebrei sono attaccati al denaro? Fanno lobby? Governano l’economia globale? Dettano la politica estera degli Stati che li ospitano? Condizionano l’opinione pubblica? Sono gli artefici delle più sanguinarie rivoluzioni della storia? Si considerano superiori agli altri?
Più che riportando dati di attualità e liste di nomi e cariche, ai quali un navigatore attento della rete può accedere, questo testo fa luce su questi ed altri interrogativi prendendo in esame il pensiero filosofico, la radice dei fatti. I protagonisti di “Hannah l’antisemita” sono quindi esclusivamente i maggiori esponenti dell’intellettualità ebraica: Hannah Arendt, Sigmund Freud, Theodor Adorno, Gershom Scholem, Ernst Bloch, Gyorgi Lukacs…
Dalle loro parole emerge un quadro strabiliante che in qualche modo, in maniera politicamente scorretta, stravolge l’idea che oggi domina nelle nostre scuole, nei media, nella politica, nell’opinione comune del cittadino.
L’ “esclusivismo ebraico”, l’incrollabile fede nella propria superiorità, lungi da essere un elemento tipico del popolo eletto, è un atteggiamento comune a tutte le culture del passato. Se la storia è ciclica ed eterna contrapposizione tra forze ed istanze differenti, non è nella volontà di dominio ebraica che va posto l’accento, perché tale volontà è comune, ma sulla sua teorizzazione prima e sulla sua modalità di realizzazione poi. Tale modalità, come Fukujama suggerisce, sembra aver spezzato a proprio favore la suddetta ciclicità della lotta, giungendo alla “fine della storia”. E’ da questo topos, che “Hannah l’antisemita” approfondisce, che nascono i formidabili attriti tra l’ebraismo e altre culture.

Ordini:

ordini.blog@gmail.com

Informazioni:

http://hannahantisemita.blogspot.com/

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L’Autunno egiziano

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Esiste la Primavera egiziana? Forse ciò che è accaduto in Egitto è stata, piuttosto, la solita rivolta che porterà a un nuovo regime assolutistico. Il concetto di rivolta è associato nel mondo vicino-orientale all’idea di cambiamento, perché non sembra esisterebbe altra forma per sostituire i vertici del potere. Democrazia e forme democratiche di elezione appaiono ancora lontane. Il massacro dei copti è un segnale di questo fenomeno consuetudinario che si manifesta da molti decenni: maliziosamente, però, esso viene ignorato dalla comunità politica internazionale, la quale preferisce curare in Egitto i propri interessi economici e geopolitici. Una visione ottimista nei confronti degli avvenimenti egiziani, quindi, sembra impossibile: ecco perché sembra poco adeguato parlare di Primavera egiziana.

 

Non è possibile fare un elogio della cosiddetta Primavera egiziana, anzi sarebbe un errore chiamarla così. Vale lo stesso per quella tunisina (sebbene le votazioni del 23 ottobre 2011 lascino sperare in una svolta definitivamente democratica), per quella libica (che nonostante la caduta di Sirte e l’uccisione di Muʿammar al-Qadhdhāfī, tuttavia, deve ancora dimostrare di essere tale) e per quella yemenita e siriana che ancora stentano a realizzarsi. La Primavera egiziana, e in generale quella araba, è osannata come una rivoluzione dai media, dall’opinione pubblica internazionale, ma soprattutto dalle popolazioni stesse che la vivono, eppure sfugge la grande differenza fra i risultati di una rivoluzione e quelli di una rivolta: una rivoluzione porta ad un cambiamento drastico, una trasformazione notevole che non riguarda solo al-kibar, cioè i “pezzi grossi”, la classe politica, ma colpisce anche le fondamenta della comunità “rivoluzionata” e le sue strutture sociali, politiche, economiche e culturali (e anche religiose). Rivoluzione è stata quella iraniana, nella quale una concomitanza di fattoricome sviluppo economico di tipo capitalistico, debolezza politica della monarchia, contesto internazionale favorevole e creazione di simboli su cui l’opposizione è riuscita ad aggregare le masse -, ha potuto imporre un nuovo modello di Stato (quello islamico-teocratico), con un nuovo modo di vivere, e un nuovo modo di relazionarsi con l’estero. Escludendo l’atto rivoluzionario in sé che ha portato alla caduta della monarchia, la fase successiva (la rivoluzione sociale, politica e culturale) non è stata una rivoluzione proposta dal basso, ma imposta da un gruppo di leaders intraprendenti.

Inoltre, come ci sottolinea James L. Gelvin, «dalla Rivoluzione francese in poi, i movimenti rivoluzionari hanno lottato per il potere allo scopo di realizzare una visione utopica di una nuova società basata su un’ideologia modernizzatrice». 1

La rivolta, invece, conduce solo a un cambiamento della classe politica dirigente. Quindi la Primavera araba è “solo” una grande rivolta: infatti, sebbene, come sostengono le «teorie congiunturali-multicausali», vi siano stati tanti fattori che hanno portato al movimento popolare (crisi economica, diffusione dell’uso di internet e, particolarmente, del Web 2.0, situazione favorevole a livello internazionale, simboli comuni che hanno dato compattezza all’onda rivoltosa, debolezza del leader rispetto al contesto internazionale, rafforzamento dell’opposizione), alla rivolta araba manca l’ideologia, manca cioè quel tentativo di cambiare culturalmente, socialmente e anche politicamente ed economicamente il Paese. E’ stato un mero cambiamento di al-kibar. A meno che tale ideologia non emerga in seguito per esempio sulla base di un certo fondamentalismo islamico.

 

Meccanismi di presunta Primavera

 

È vero che nella società egiziana sembrano intravedersi forme democratiche, come le elezioni dei sindaci e di rappresentanze. Ma sebbene Ugo Tramballi sostenga che «gli egiziani scelgono i loro rappresentanti e l’antica paura del potere si trasforma in fiducia»,2 lo studio della storia insegna, invece, ad essere molto più cauti in tal senso. Infatti, forse tutto ciò rischia di essere solo un’illusione e lo stesso Tramballi afferma che «oggi in Egitto è in corso un processo degenerativo in concorrenza con uno creativo». 3

Forse quello che viene definito da Fred Halliday il «narcisismo regionale»4 dei popoli arabi, una versione vicino-orientale dell’eccezionalismo statunitense, ha contribuito a creare nella popolazione egiziana e di conseguenza nella percezione internazionale degli avvenimenti egiziani una sorta di amplificazione impropria della rivolta.

E’ stato raro o, per una visione pessimistica, non è mai accaduto che una rivolta in un paese autoritario abbia portato immediatamente alla democrazia. Ne sono chiari esempi le vicende storico-politiche di molti paesi africani mediterranei e sub-sahariani, ma anche del Vicino Oriente, dove la rivolta da sempre è stato unico strumento per un cambio di potere.

Se si prende in considerazione la Siria, nella sua seppur breve storia nazionale, si possono contare circa venti colpi di stato, ognuno conclusosi in un regime autoritario, e, solo l’ascesa al potere di Ḥāfiẓ al-Asad nel 1971 (cui è succeduto nel 2000 il figlio, attraverso elezioni discutibili per quanto riguarda la loro democraticità), ha dato ad un paio di generazioni siriane la possibilità di non conoscere colpi di stato.

Perché con la Primavera araba non dovrebbe accadere lo stesso? Sebbene non con la stessa frequenza siriana, anche il popolo egiziano negli ultimi decenni ha visto come unico mezzo per un cambiamento ai vertici del potere la rivolta con il conseguente colpo di Stato.

Anche il tanto amato Gamāl ʿAbd al-Nāṣer, ha preso il potere con una rivolta: anche lui, sebbene non esattamente come sta avvenendo adesso, faceva parte di un’onda ribelle che ha cacciato via re Fārūq I.

Nel 1952 ha inizio la rivolta, nel 1953 diventa presidente della Repubblica egiziana Muhammad Naguib e nel 1954, con un colpo di “mano“, Nasser prende il potere per oltre 14 anni. È stata anche quella una Primavera egiziana? O no? Eppure sebbene i soggetti siano diversi, almeno nei presupposti e negli avvenimenti iniziali sembra essere simile alla Primavera egiziana odierna. Che cosa ci può far sperare che la situazione evolva in modo diverso? Non certo il desiderio nella popolazione di avere forme di rappresentanza: questo c’è sempre stato ed è naturale nell’uomo sociale, ma poi sarà il regime di turno a soffocarla: basti ricordare il comportamento di Mubārak contro i suoi oppositori e contro ogni forma di rappresentanza esterna al partito unico. In questo momento è troppo presto per soffocare gli animi ribelli: i riflettori internazionali sono ancora tutti accesi sull’Egitto (e sull’Africa mediterranea), e bisognerà attendere che si affievolisca l’interesse dell’opinione pubblica internazionale e dei suoi mass media, per iniziare gli “aggiustamenti strutturali” che porteranno alla piena funzionalità del nuovo regime.

 

Segnali dal massacro copto

Ciò che è accaduto contro la comunità copta è solo un segnale d’allarme tragico, pur se flebile, sfuggito al controllo del “governo di transizione”. Il segnale è arrivato tuttavia alle agenzie di informazione occidentali, sebbene il grande progetto-tentativo del nuovo “governo di transizione” avesse previsto di mettere a tacere la verità e di mostrare, invece, all’opinione pubblica mondiale un diffuso ottimismo tra la popolazione riguardo all’’operato e alle buone intenzioni del regime che si sta strutturando.

La comunità copta, fino ad adesso protetta indirettamente e inconsapevolmente dall’assolutismo laico di Mubārak, adesso dovrà fare i conti con un “ordine nuovo” che verosimilmente non ha alcun interesse a difendere le minoranze, tanto più se di tipo religioso.

Ormai è un dato di fatto che le frange estremiste pseudo-islamiche usino la religione come collante e fonte di consenso con l’unico obiettivo di consolidare un nuovo potere: queste frange estremiste sono, infatti, libere di agire e influire sulla politica, non essendoci più protezione e sicurezza per chi è socialmente debole minoranza. Questo vale particolarmente per i copti, ma vale anche per tutte le minoranze, per tutti i gruppi “non-culturalmente-musulmani” della società e, in generale, per tutta la popolazione civile egiziana.

Se poi si osserva anche come gli USA, di fronte alla notizia del massacro copto e ai tentativi di insabbiamento del “governo di transizione”, preferiscano non opporsi e come gli altri Stati occidentali preferiscano coltivare indolentemente i propri interessi in Egitto, senza alzare la voce; allora si deve concludere che quella egiziana non dovrebbe essere chiamata una Primavera, ma il solito vecchio Autunno di sempre, una rivolta che ha cambiato solo i nomi di chi governerà assolutisticamente l’Egitto per i prossimi anni.

Se si considera, infine, come l’unica vera condanna al massacro sia stata quella del papa Benedetto XVI, non in qualità di capo di Stato, ma di capo religioso e difensore dei valori umani e morali, allora le domande, su quali siano le intenzioni degli attori statuali internazionali se la situazione in Egitto dovesse degenerare in regime, sembrano trovare, già da questi primi segnali di autoritarismo violento, una chiara risposta: il ruolo della comunità internazionale (USA, UE e attori internazionali più influenti) sarà quello di mediatrice-approfittatrice che oscilla tra la difesa dei diritti umani e il dialogo col regime per l’ottenimento di concessioni vantaggiose di tipo economico e geopolitico.

In tale stato di cose la rivolta rischia di divenire l’inizio di decenni grigi per la popolazione che aveva posto grandi speranze nella caduta di Mubārak.

Unica nota positiva in un tale scenario è che i riflettori mediatici rimarranno sicuramente accesi ancora per un po’ sull’Egitto, così come sul resto dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente; ma tutto ciò potrà forse soltanto rinviare questo ulteriore Autunno egiziano.

 

* Gabriele Roccaro, studente magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche presso la facoltà di scienze politiche “R. Ruffilli” (Università di Bologna).

 

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

 

 

1 Vedi James L. Gelvin, “The Modern Middle East. A History”, Oxford University Press, Inc., New York 2008, trad. it. Storia del Medio Oriente moderno”, Einaudi, Torino 2009, p. 365.

2 Vedi: http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/slow-news/2011/10/stereotipi-degitto.html

3 Vedi: http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/slow-news/2011/10/stereotipi-degitto.html

4 Vedi Fred Halliday, “The Middle East in International Relations. Power, politics and ideology”, Cambridge University Press, 2005, trad. it. “Il Medio Oriente. Potenza, politica e ideologia”, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 439.

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Crisi economica e campagna elettorale: gli ‘Obamiani’ alle strette

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Alla vigilia della caduta del governo Berlusconi, il Times, celebre testata britannica, additava l’attuale ex Primo Ministro italiano come l’uomo alla guida dell’economia più pericolosa al mondo. Gli Stati Uniti hanno dato il loro placet a questo approccio, tentando di spostare l’attenzione dai loro gravi problemi economici a quelli europei. Tuttavia, dopo le deboli speranze sul raggiungimento di un accordo fra Democratici e Repubblicani sul deficit, è arrivata la notizia che il “Super-committee” istituito ad hoc ha fallito.

 

Che la crisi economica mondiale, esplosa nel 2008 ma già latente da tempo, provenga da oltreoceano è dato sul quale tutti si trovano concordi. Che la crisi economica sia stata causata da istituti di credito, che hanno speculato e intasato letteralmente il mercato finanziario di titoli tossici, è altrettanto assodato. Che Obama, nei suoi già 3 anni al potere, non sia stato in grado né di risollevare l’economia degli Stati Uniti, né di attuare riforme degne di nota e men che meno utili al Paese, è cosa sotto gli occhi di tutti.

 

La crisi economica del 2008 esplose e venne a galla con il disastro finanziario causato dagli istituti di credito negli USA, e saltò agli occhi non solo per la conseguente bancarotta di banche come la Lehman Brothers, ma anche per il fatto che molti cittadini si erano ritrovati da un momento all’altro impossibilitati a pagare il mutuo della propria abitazione, vedendosela pignorata. Il dramma della gente comune in prima pagina aveva toccato molti. Al presidente Obama si poneva una grande sfida dinanzi: cercare di risollevare le sorti della nazione, varare misure che fungessero da volano per l’economia e agire affinché la disoccupazione dilagata nel giro di pochi mesi subisse un freno.

 

Le cronache di mesi orsono ci testimoniano che, dal 2009 a oggi, gli Stati Uniti non hanno avuto una ripresa né economica né in termini di occupazione. Se ciò non bastasse, solo qualche mese fa si era palesato l’ingente problema del deficit in procinto di raggiungere il tetto massimo consentito dalla legislazione nazionale. In agosto, dopo affannati tentativi di smorzare sia toni sia la preoccupazione in seno ai mercati finanziari, si era riusciti a raggiungere un accordo bipartisan e a rimandare la decisione sul default, grazie alla costituzione di un “Super-committee” formato da 6 rappresentanti dei Repubblicani e altrettanti Democratici.

 

Milleduecento miliardi di dollari. Questo è il numero che ogni statunitense dovrebbe tenere sempre a mente; questo è ciò che ci dà la misura del disastro finanziario dell’unica Superpotenza attualmente conosciuta. Il Paese è chiamato, da qui a dieci anni, a riportare il proprio deficit sotto i livelli di guardia, ma non si è trovato alcun accordo sulle modalità. Se da un lato i Democrats non vogliono cedere a tagli ai programmi di assistenza, dall’altro i Repubblicani ritengono inaccettabile un nuovo giro di vite sulle tasse, che impatterebbero maggiormente sulle fasce più agiate dalla popolazione. Secondo ciò che riporta Euronews, “il fallimento della super-commissione non implica alcun rischio di default, ma è un segnale inquietante per le agenzie di rating: Fitch si riserva di valutare la situazione a fine mese, mentre Moody’s e Standard and Poors non vedono per ora conseguenze sul rating americano. Fallito l’accordo, scatteranno tagli di spesa automatici a partire dal gennaio 2013”.

 

Politica ed economia sono legate così strettamente da poter essere viste come due facce della stessa medaglia. Ecco perché il presidente in carica Obama sta tentando di portare avanti una campagna politico-mediatica che lo aiuti a colmare quella impopolarità dovuta, evidentemente, a un’incapacità di fondo di riuscire a far “funzionare le cose”. Se solo il mese scorso vari rappresentanti della comunità di colore, fra cui speaker radiofonici e addirittura esponenti religiosi, tentavano di riportare a galla lo spirito dei “colored” affinché continuassero a sostenere il “fratello” Obama, ora assistiamo a un ennesimo e differente approccio nella lunga via alla popolarità.

Non potendo ricorrere a esempi concreti di successo della propria politica, il presidente nordamericano attacca i Repubblicani sul mancato raggiungimento di un accordo. La strategia che sta attuando è sicuramente intelligente, anche se non di altrettanto certa utilità. Durante i vari interventi e discorsi in giro per la nazione, Obama ha definito i propri avversari politici degli “ipocriti”, politici che hanno fatto voto di servire il bene della patria ma che vogliono solo tutelare gli interessi di pochi. Questa è un’argomentazione che potrebbe, forse, trovare terreno fertile fra i tanti elettori che hanno perso il lavoro o che vivono sulla propria pelle le ristrettezze economiche frutto della crisi. D’altro canto, ripetere che i Democratici sono fermamente contrari ai tagli ai programmi di assistenza non può che andare positivamente ad aggiungersi al nuovo approccio per riguadagnare consensi.

 

Non si può certo contestare a Obama che manchi d’inventiva, almeno per ciò che riguarda la sua “caccia al voto”, tuttavia il mancato accordo, i tagli automatici che ne deriveranno e la crescita della ricchezza interna in ribasso dello 0,5% non regalano un quadro positivo e incoraggiante per i Democratici. Se in Europa, a fronte della crisi, alcuni governi hanno dovuto cedere il passo ad altri, credo che sia totalmente plausibile continuare a prospettare una sempre più netta perdita di consensi degli “Obamiani”. Se il presidente in carica riuscirà a fare il Miracolo, forse avrà qualche possibilità di essere rieletto. Ma i miracoli, si sa, sono duri a venire.

 

*Eleonora Peruccacci è laureata in relazioni internazionali (Università di Perugia) ed è ricercatrice dell’ISAG

 

Su Eurasia da leggere anche:

 

http://www.eurasia-rivista.org/usa-is-payments-default-the-answer/10361/

 

http://www.eurasia-rivista.org/usa-obama-alle-prese-con-un-deficit-problematico/9218/

 

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Brasile: un futuro da scegliere

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Il biennio 2010/2011, ancora in fase di conclusione, ha rappresentato per lo Stato brasiliano un vero e proprio punto di non ritorno. Un biennio in cui oltre a consolidare la propria politica interna, senza risentire eccessivamente del passaggio Lula-Rousseff, l’attore brasiliano è stato capace di confermare, nonché di incrementare, il suo ruolo di protagonista all’interno dello scenario mondiale. A determinare questa evoluzione, tutta una serie di eventi che hanno definitivamente indicato il Brasile come un possibile leader futuro in grado di mutare gli assetti di un eventuale nuovo ordine internazionale.

 

Ad un soffio dal successo

 

L’evento simbolo di questi ultimi due anni e che senza ombra di dubbio avrebbe meritato il primo premio nella categoria “affari esteri” ,è l’ormai noto accordo concluso con Iran e Turchia riguardo la famigerata questione nucleare iraniana.
Non è nostra intenzione concentrarci sui dettagli dell’intesa (già ampiamente descritti in altre sedi da altrettanti analisti), e guardiamo piuttosto, senza avere pretese di verità assoluta, a quelle che sono state le conseguenze in ambito internazionale di tali decisioni.
Innanzitutto, e non occorre un esperto di geopolitica per dirlo, l’accordo ha dimostrato, sempre se fosse ancora necessario, l’ennesima prova di debolezza/impotenza di Washington in uno scacchiere in cui sempre più pedine finiscono col trasformarsi in regine. Inoltre, vedendo quanto è accaduto e tutt’ora accade nel vicino e medio oriente sembra che gli avvenimenti non siano del tutto scollegati fra loro. Se poi si analizzano le varie reazioni di numerose capitali sudamericane, Brasilia inclusa, riguardo la situazione libica, quella in Siria, quella in Bahrein e via dicendo, ecco che i processi decisionali della Casa Bianca risultano essere molto più chiari, così come risulta essere chiara la direzione che il Brasile ed altre potenze hanno deciso di intraprendere.
L’ennesima prova di forza per dimostrare di essere ancora in grado di controllare le sorti del globo? Forse. Fatto sta che l’area in questione è stata abbondantemente destabilizzata, e la NATO (Stati Uniti d’America) si è assicurata nuovi punti strategici in grado di contrastare l’azione di Teheran e dei suoi alleati.

In secondo luogo, con l’accordo Brasile-Iran-Turchia si è ulteriormente rafforzato quel legame storico che la regione sudamericana stringe con i popoli dell’Africa e dell’Oriente (Cina inclusa).

Il sostegno alla Repubblica Islamica dell’allora presidente brasiliano Lula, seppur come mediatore, ha senz’altro incentivato tutti quei Paesi cosiddetti “non-allineati” ad affacciarsi con maggiore sicurezza verso le coste del Sud del continente americano.

Infine, ovvero, il risultato ovvio di quanto detto finora, con la mediazione esercitata il Brasile ha notevolmente contribuito a bilanciare quel tanto amato “equilibrio di potenza” nell’ordine internazionale.

Emerich De Vattel definiva l’equilibrio di potenza come “una disposizione delle cose, mediante la quale veruna potenza non trovasi in istato di predominare assolutamente e d’impor la legge ad altrui”¹. Definizione che rispecchia a pieno l’azione di politica estera di Brasilia. Cambiare le carte in tavola, questo è l’intento. Creare un ordine internazionale complesso che sia veramente tale, dove a prendere le decisioni non siano sempre i soliti noti capaci di decidere le sorti della maggioranza. Questo l’obiettivo di Lula prima, e della Rousseff ora. Un obiettivo di possibile realizzazione. Il percorso intrapreso sulla questione iraniana ne è un chiaro esempio.
La controfirma a quanto appena detto è stata posta qualche settimana fa con agli accordi presi dal Governo Rousseff in ambito di tecnologia militare, accordi che rientrano all’interno del “Programma di Sviluppo dei Sottomarini” (PROSUB). Dopo le intese raggiunte con la Francia durante la presidenza Lula per la realizzazione di quattro sottomarini convenzionali ed uno nucleare è stato da poco raggiunto un nuovo accordo grazie al quale entro il 2048 verranno fabbricati ben sei sottomarini nucleari e diciannove sottomarini convenzionali.

Con l’innovazione della tecnologia nucleare brasiliana, il Paese rientra definitivamente in quella stretta cerchia di Stati in grado di produrre sottomarini nucleari. Ad affiancarlo solo USA, Russia, Francia, Inghilterra e Cina².
Inutile aggiungere che anche in questo caso, l’avanzamento tecnologico nucleare raggiunto dal Brasile non fa altro che migliorare proprio quell’equilibrio di potenza poc’anzi citato. Ossia la mutua deterrenza nucleare³ come veniva definita da Hedley Bull.

Il pieno controllo di alcune risorse energetiche come quella nucleare, ma non solo, è da ritenersi necessario per garantire un vero multipolarismo fra gli Stati; sviluppare l’energia nucleare è inoltre necessario anche per non lasciare il monopolio nelle mani di Washington.

È pacifico che se il Brasile ha deciso di agire in un determinato modo non è solo per raggiungere un maggiore equilibrio di potenza ma ovviamente anche per un proprio interesse personale, tuttavia, al momento sembra essere un comportamento diverso da quello delle passate amministrazioni USA, un comportamento che mira prima di tutto a voler fornire un vero e proprio nuovo modello di riferimento che si distacchi da quello “occidentale” e funga da luce di speranza anche per tutti gli altri Paesi che credono che proprio quel modello “occidentale” non sia più un esempio da seguire.

Tutte queste parole avrebbero avuto ancor più senso nel momento in cui il triplice accordo fosse stato concretamente portato in essere. Le successive sanzioni inflitte nei confronti di Tehran, votate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 9 giugno 2010, hanno infatti decretato la bocciatura della mediazione turco-brasiliana.

Non andremo a vedere i dettagli delle sanzioni ne tantomeno gli sviluppi sulla questione Iran.
Quello che davvero importa è il fallito tentativo di negoziazione da parte di Brasilia. Un tentativo che poteva tramutarsi in qualcosa di più sostanzioso ma che gli interessi di Russia e Cina lo hanno lasciato sgretolare.
Si resta tuttavia fiduciosi su quanto affermato riguardo il nuovo equilibrio di potenza, consci del fatto che il presentarsi futuro di situazioni analoghe possa portare a risultati da finale da partita.

Questa pazza economia⁴

 

Il ruolo innovatore dello Stato brasiliano sotto il profilo politico non può dirsi altrettanto tale sotto quello economico. Aspetti che sono strettamente correlati fra di loro e che un eventuale malfunzionamento, anche di uno solo dei due, avrebbe senza alcun dubbio compromesso l’ascesa del Brasile.
Il perché della prima affermazione sarà spiegato più avanti.
Gli accordi presi durante il governo Lula ed ora quelli presi dal suo successore politico sono molteplici, difficili da quantificare, sia all’interno della regione sudamericana sia ovviamente all’esterno. Così come sono numerose le adesioni da parte dello stesso Brasile ai vari organismi di integrazione regionale (MERCOSUR su tutti) e interregionale (BRICS su tutti) in grado di stimolare e supportare uno sviluppo economico dentro e fuori l’area sudamericana.

I risultati ottenuti in campo economico fino ad oggi sono frutto di un lungo lavoro che vede innanzitutto lo Stato brasiliano raggiungere una posizione di primato nei confronti degli altri Paesi dell’America Indiolatina. Un’egemonia economica, quella brasiliana, condivisa per molto tempo con lo Stato argentino ma che durante i mandati di Lula ha raggiunto un definitivo status dominante.

Tutto ha un prezzo però, così, se da un lato il potere economico dello Stato sudamericano ha aiutato e continua ad aiutare la regione Indiolatina a liberarsi dall’oppressione filo-imperialista della Casa Bianca, dall’altro lato ha imposto e continua ad imporre importanti decisioni per tutti i suoi vicini di casa.

Ma seguiamo un ordine logico.

Le realtà economiche che agiscono all’interno (ma anche all’esterno) della regione sudamericana sono essenzialmente rappresentate da due grandi blocchi. Da una parte quello formato dal “North American Free Trade Agreement” (NAFTA) e dalla “Free Trade Area of the Americas” (FTAA), dall’altra il blocco costituito dagli organismi regionali del “Mercado Común del Sur” (MERCOSUR), dalla “Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – Tratado de Comercio de los Pueblos” ( ALBA-TCP) e dalla “Comunidad Andina Nacional” (CAN). Entrambi i blocchi hanno come punto di riferimento altri due organismi regionali che sono rispettivamente la “Oraganization of American States” (OAS), con a capo gli Stati Uniti, e la “Unión de Naciones Suramericanas” (UNASUR), in cui a primeggiare è proprio il Brasile.

Il tutto rischia, dunque, di trasformarsi in un unico scontro bipolare in cui gli interessi e le esigenze degli altri Paesi (salvo quelli in grado di risolvere autonomamente i proprio bisogni) rischiano di passare brutalmente in secondo piano.

Quello che infatti sta pian piano prendendo corpo all’interno del Sudamerica, e qui si motiva l’affermazione iniziale, è un meccanismo alquanto perverso e fuorviante da quella che dovrebbe essere una vera integrazione regionale.

Per liberarsi dall’influenza degli Stati Uniti si rischia di rimanere soggiogati da un altro attore, il Brasile appunto, che invece di cooperare, in molti casi, intraprende in materia economica processi decisionali in completa autonomia, senza preoccuparsi di quello che dovrebbe essere un vero spirito integrativo e dimenticando spesso che la base solida della svolta politica dell’America Indiolatina di questi ultimi anni è stata dettata a suon di consensi popolari. E che consensi! Se l’elettorato ne risente, se il cittadino medio vede peggiorare le proprie condizioni a costo di un’integrazione fasulla, la stessa operazione di distacco da Washington non andrà a buon fine.

A sottolineare questo atteggiamento pseudo imperialista del Palácio do Planalto è in primo luogo l’avanzo delle sue grandi imprese multinazionali, specializzate nel recupero di risorse naturali, e in particolar modo il loro disinteresse pressoché totale verso le necessità del popolo brasiliano.
Processo (il recupero di risorse naturali) che copre tutta la filiera produttiva, dall’estrazione all’immissione sul mercato regionale ed extra regionale. Gruppi come Petrobras, Vale, Votorantim e Odebrecht hanno il controllo in settori quali quello energetico, petrolifero, minerario, etc. non solo all’interno del Brasile ma anche nell’intera area sudamericana, e in alcuni casi, come nel caso Petrobras, sono riconosciuti nei rispettivi settori come dei veri leader mondiali.

La Petrobras, secondo fonti della PFC Energy, risultava a fine 2010 la terza compagnia energetica al mondo, così come la Vale risulta essere il maggiore esportatore di ferro su scala globale, rappresentando la seconda compagnia mineraria al mondo. La Odebrecht a sua volta controlla la Braskem, ossia, la compagnia petrolchimica più grande di tutto il Sudamerica, quinta nel ranking mondiale per grandezza e diciassettesima per fatturato.

A rendere possibile tutto ciò due grandi protagonisti: uno politico e uno finanziario.

Quello politico è rappresentato da una costola dell’UNASUR, ossia, dalla “Iniziativa per l’Integrazione dell’Infrastruttura Regionale Sudamericana” (IIRSA). Come obiettivo principale la pianificazione e lo sviluppo di progetti per il miglioramento delle infrastrutture regionali di trasporto, energia e telecomunicazioni.

Oltre a poter contare sul sostegno economico del “Banco Interamericano de Desarollo” (BID), della Corporación Andina de Fomento (CAF) e del “Fondo Financiario para el Desarollo de la Cuenca del Plata” (FONPLATA), l’IIRSA si avvale dell’altro protagonista, quello finanziario.

Si parla del “Banco Nacional de Desarollo Económico y Social” (BNDES), ovvero, la maggiore banca brasiliana di finanziamento di tutta l’America Indiolatina, nonché la più grande banca di sviluppo dell’intero pianeta. È proprio grazie al BNDES, banca collegata direttamente al Ministero brasiliano dello sviluppo dell’industria e del commercio estero che l’IIRSA finanzia i suoi progetti di infrastruttura. La stessa banca che permette i maggiori flussi di capitale brasiliano all’estero.

Come già anticipato però, l’azione economica brasiliana non converte il lavoro dei brasiliani (così come quello dei loro vicini, dato che il Brasile controlla una percentuale importante delle principali fonti di ricchezza degli altri Paesi della regione: basti pensare agli idrocarburi in Bolivia, all’allevamento e alla pastorizia in Uruguay, all’energia proveniente dalla diga di Itaipù in Paraguay, alle miniere in Perù, ma anche ad importanti settori dell’industria argentina, oggi assorbiti da grandi imprese brasiliane) in vantaggi concreti per il loro vivere quotidiano.

Per lo meno così dimostrano alcuni fatti.

Il Brasile è attualmente uno dei principali esportatori di carne bovina al mondo, tuttavia centinaia di migliaia di brasiliani soffrono di malnutrizione. Circa il 75% dei guadagni delle maggiori ditte di costruzione brasiliane provengono da progetti realizzati fuori dai confini nazionali, in cui sono incluse le stesse opere proposte dall’IIRSA, allo stesso tempo il sistema di trasporto delle grandi metropoli offre ancora un servizio di scarsa qualità. Il programma di buoni “Bolso Familia”, adottato dal governo nell’ambito della sua politica sociale e finalizzato alla riduzione della povertà risulta essere tutt’ora poco efficiente a lungo termine, dal momento che se da una parte agisce con azioni concrete (i buoni alle famiglie) combattendo dunque gli effetti della povertà, dall’altra ignora quelle che sono le cause della povertà stessa, risolvendo il problema solo temporaneamente.

 

Amazzonia mon amour

 

Prima di tirare qualche conclusione analizziamo molto brevemente un ultimo aspetto, un aspetto squisitamente geopolitico.

Storicamente, in Brasile, nonostante alcuni esempi fossero già comparsi in precedenza, un vero e proprio dibattito geopolitico si ha a partire dagli anni ’50, grazie sopratutto alle teorie formulate dal generale Golbery do Conto e Silva. Il fulcro del lavori, in quel caso, si focalizzò sull’enorme area geografica dell’Amazzonia, regione in cui era ancora incerta una reale sovranità da parte dello Stato brasiliano.

Il controllo dell’Amazzonia è ancora oggi una delle principali priorità in termini di sicurezza ma anche ovviamente in termini di guadagno, data l’abbondanza di risorse naturali presenti nel territorio. L’enorme area (più di sette milioni di km²) è per circa il 65% territorio brasiliano, un’altra importante percentuale è condivisa dal Perù, mentre il rimanente è diviso tra Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guayana, Suriname e Guayana francese.

Controllo che a quanto p

are non è di sola priorità brasiliana; interessante a riguardo, l’analisi proposta qualche tempo fa dallo scrittore argentino Atilio Boron.

Secondo lo scrittore, in occasione dell’ultima visita di Obama in Brasile, dove da una parte iniziavano i bombardamenti in Libia e dall’altra lo staff della Casa Bianca tentava di chiudere affari con la nuova amministrazione Rousseff, l’obiettivo che con l’incontro bilaterale si cercava di raggiungere, era un possibile avanzamento all’interno della regione brasiliana, mirando proprio alla sproporzionata distesa amazzonica. Il tutto camuffato da accordi puramente economici che permetterebbero a Washington di posizionarsi definitivamente in suolo brasiliano e collocare così nuovi punti di controllo nella regione sudamericana, poco importa che poi questi punti siano mascherati da piattaforme petrolifere.

Sempre secondo Boron, il controllo dell’Amazzonia permetterebbe di concentrarsi sul secondo obiettivo della Casa Bianca: ostacolare quella coordinazione economica e politica espressa, come già sottolineato in precedenza, dal triangolo MERCOSUR-ALBA-CAN, senza dimenticare la funzione di collante svolta dall’UNASUR, così determinante da far naufragare la FTAA e da contrastare le cospirazioni golpiste e secessioniste in Bolivia (2008) ed Ecuador (2010).

lo scrittore argentino evidenzia come la presenza in Brasile dello Stato nordamericano andrebbe a completare un quadro già ben definito, in cui, con l’Amazzonia come ipotetico centro, si collocano a Nord-Ovest le basi USA in Colombia, ad Ovest le basi in Perù, ad Est la base congiunta con la Francia in Guayana francese e a Sud le basi situate in Paraguay.

 

Conclusioni

 

Il Brasile ha ottenuto in questi anni risultati invidiabili, sia all’interno del proprio Stato che nelle relazioni politico-economiche con l’esterno. Un Paese che uscito, come d’altronde gran parte dell’America Indiolatina, da un lungo periodo di violenta dittatura è stato in grado di rilanciare la sua immagine di attore internazionale sotto ogni tipo di ambito.

L’epoca Lula ha consolidato definitivamente questa rinascita portando il Paese all’interno di quel circolo di Stati capaci di cambiare realmente le sorti dell’ordine internazionale.

Dal suo canto, la Rousseff non sembra voler arretrare sulle tendenze raggiunte con la passata presidenza, ne tantomeno sembra voler abbandonare uno degli obiettivi principali auspicati da Brasilia: emancipare lo Stato brasiliano dalla potenza statunitense, in modo da potere creare quel modello di cui si parlava precedentemente. Per questa ragione, pur di non concedere ulteriori spazi a Washington all’interno della regione sudamericana (vedi appunto l’Amazzonia), l’amministrazione Rousseff potrebbe decidere di continuare a preferire gli accordi con Pechino, tanto in ambito energetico quanto in quello nucleare (tra l’altro gli USA di Obama rischiano di perdere, dopo l’elezione di Humala in Perù, un altro importante tassello strategico nella regione; ma questa è un’altra storia).

Restando in chiave di rapporti esteri, la sfida futura sarà proprio quella di rinforzare tutti quegli organismi interregionali, BRICS in primis, in grado di offrire una vera alternativa al modello “occidentale”. A tal proposito il ruolo del Brasile è stato fino a questo punto determinante, soprattutto da un punto di vista politico.

Rendere il BRICS, oltre ad una grande opportunità economica, anche un reale soggetto politico?

Può darsi, anche se gli interessi personali di Cina e Russia potrebbero scontrarsi in più di qualche occasione con gli interessi collegiali del gruppo dei cinque, le sanzioni 2010 imposte all’Iran ne sono un chiaro esempio.

Infine, la tanto discussa economia. Lo Stato brasiliano, economicamente parlando, ha reso molto al suo Paese, così come all’intera regione sudamericana. Tuttavia, prima di arrivare a situazioni poco vantaggiose per entrambi (il Paese e la regione), occorre raggiungere un maggiore equilibrio riguardo quelli che sono gli assetti interni al Brasile, ma anche riguardo gli assetti interni alla regione stessa.

Nel primo caso, il governo Rousseff dovrà cercare di fornire risposte più efficienti sull’eterna questione della povertà; allo stesso tempo dovrà cercare di ottimizzare il lavoro delle numerose multinazionali brasiliane anche verso lo stesso Brasile. È giusto investire all’estero ma sarebbe un controsenso se per lavori interni non si possa fare affidamento sulle proprie stesse industrie.

Nel secondo caso si hanno due problemi da risolvere nell’immediato.

Il primo problema si chiama MERCOSUR, dove il peso degli altri Stati, salvo in parte l’Argentina, è praticamente l’equivalente di un peso piuma. Ovvio che essendo una potenza maggiore, il Brasile abbia anche un peso diverso da un Uruguay, tanto per fare un esempio. Il dislivello raggiunto però è diventato troppo evidente ed ecco perché in molti casi si preferisce l’azione di ALBA piuttosto che quella del Mercato Comune.
Il secondo problema ha invece una valenza che va oltre le singole responsabilità del Brasile ma riguarda lo scontro fra il gruppo NAFTA e la triade già nominata MERCOSUR-ALBA-CAN. Problema che almeno per ora sembra non essere di troppo conto.
Forse questa è la prima volta nella storia dell’America Indiolatina che la maggioranza dei suoi Paesi e dei suoi popoli sono convinti fino in fondo di potersi emancipare totalmente dall’ombra sempre presente di Washington e della sua amministrazione di turno.


 

*Stefano Pistore (Università dell’Aquila, contribuisce frequentemente al sito di “Eurasia”)

 

1. E. de Vettel, Il diritto delle genti, ovvero Principi della legge naturale applicati alla condotta e agli affari delle nazioni e dei sovrani, Tipografia Fratelli Masi e Comp., Bologna 1804-1805, Libro III, cap 3, sez. 47, p. 33.
2. Per approfondire leggere
“Un momento estratégico para Sudamérica”, Raúl Zibechi, La Jornada.
3. Hedley Bull,
La Società Anarchica. L’ordine nella politica mondiale, Vita e Pensiero, Milano 2006, cap. 5, pp. 137-148.
4. Cfr. Mathias Luce, “
El subimperialismo brasileño en bolivia y américa latina”.
5. Per approfondire leggere
“Histoire de la géopolitique”, Pascal Lorot, Economica 1995.
6. Atilio A. Boron,
“¡Es la Amazonía, estúpido!”.

 

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Cipro. L’isola dell’unione che non c’è

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Vantando un’importante posizione strategica nel Mar Mediterraneo, Cipro è stata da sempre contesa sin dall’Età antica. Durante gli ultimi due secoli, a contendersi il dominio dell’isola sono state le due principali comunità della popolazione, ovvero quella greco-cipriota e quella turco-cipriota, sostenute rispettivamente da Grecia e Turchia. Il 1974 è stato l’anno di svolta: a seguito dell’occupazione militare della zona settentrionale da parte della Turchia, si costituirono due Stati, ma quello turco-cipriota non è ancora riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal 2000, i due Stati ciprioti tentano di risolvere le questioni che li separano, come la demarcazione delle acque territoriali e il trattamento delle rispettive minoranze, condizionati comunque dalle scelte dei governi di Atene ed Ankara.

 

 

Crocevia del Mediterraneo

Cipro è una delle principali isole del Mar Mediterraneo: al di là delle dimensioni, che le consentono essere la terza isola dello stesso mare, Cipro vanta un’importante posizione strategica che, assieme alle proprie risorse naturali, le ha permesso di ricoprire un ruolo di primo piano nella storia. L’isola, storicamente e culturalmente europea ma geograficamente appartenente al Medio Oriente, presenta i caratteri tipici dell’area mediterranea, rivelandosi anche un’importante meta geologica. La storia di Cipro passa dal dominio greco-romano alle lotte tra Venezia e Impero turco-ottomano per aggiudicarsi il potere sull’isola e dalla spartizione del territorio cipriota tra greci e turchi fino ai recenti tentativi di riunificazione.

 

Dall’indipendenza alla divisione

L’istituzione dello Stato greco, avvenuta nel XIX secolo, provocò le insistenti richieste da parte della popolazione greco-cipriota di annettere l’isola di Cipro alla Grecia, dato il sentimento di comune storia culturale e religiosa. Alla fine del XIX, dopo l’inaugurazione del Canale di Suez, il Regno Unito si interessò particolarmente all’isola di Cipro, data la sua adeguata posizione strategica per il controllo del canale: nel 1878, a seguito della Conferenza di Cipro, il Regno Unito otteneva l’amministrazione dell’isola, che divenne definitivamente una colonia britannica nel 1925. Durante gli anni successivi, la popolazione greco-cipriota non abbandonava il desiderio di annettere l’isola alla Grecia (énosis), mentre la popolazione turco-cipriota preferiva la separazione (taksim). Raggiunta l’indipendenza dal Regno Unito nel 1960, si costituirono le condizioni tali da favorire uno scontro indiretto fra la Grecia e la Turchia per la definizione del nuovo Stato cipriota. Infatti, nonostante l’adozione di equilibrate misure costituzionali, l’attrito tra greco-ciprioti e turco-ciprioti sfociò definitivamente nella spartizione dell’isola tra Grecia e Turchia. Quest’ultima occupò militarmente l’area settentrionale di Cipro, provvedendo immediatamente a istituire una nuova entità statale, nota come la Repubblica Turca di Cipro del Nord, ed espellendo dal nuovo Stato la popolazione greco-cipriota. L’Organizzazione delle Nazioni Unite tentò di avviare le negoziazioni fra i greci e i turchi, ma l’unico risultato fu l’istituzione della “zona cuscinetto” tra le due parti territoriali. Va precisato che la dichiarazione d’indipendenza della Repubblica Turca di Cipro del Nord non è stata riconosciuta giuridicamente valida dal Consiglio di Sicurezza della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite. Nonostante ciò, i turco-ciprioti si dichiararono comunque indipendenti, non riconoscendo l’altra entità statale dell’isola, ovvero la Repubblica di Cipro, che rappresenta la popolazione greco-cipriota. Durante i primi anni del XXI secolo, il Segretario Generale dell’O.N.U., Kofi Annan, intraprese una nuova serie di negoziati per la riunificazione dell’isola. Tali negoziati consentirono, nel 2004, la proposta di un piano di unificazione territoriale, che fu sostenuto dall’Assemblea Generale dell’O.N.U., dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti: sebbene fosse stato accettato dallo Stato turco-cipriota, il piano fu respinto da quello greco-cipriota che, nel frattempo, era divenuto membro dell’Unione Europea.

 

I recenti tentativi di conciliazione

La vittoria alle elezioni politiche greco-cipriote di Dimitri Christofias (2008) e a quelle greche di George Papandreou (2009, ora defenestrato) hanno permesso di sperare in una proficua collaborazione con la Turchia. Oltre alla disponibilità del nuovo Presidente dello Stato turco-cipriota, Dervish Eroglu, a riprendere i negoziati con il governo greco-cipriota, la Turchia ha avanzato la proposta di istituire un Alto Consiglio di cooperazione tra il governo greco e quello turco, con il compito di affrontare e risolvere in modo definitivo tutto il contenzioso bilaterale che separa da decenni i due Paesi. Nel frattempo, la principale assente alle trattative è stata l’Unione Europa che, finora, non è apparsa in grado di proporre una politica adeguatamente risolutiva. Tuttavia, aver permesso l’ammissione di un “quasi Stato”  fra i propri membri, si sta rivelando un difficile ostacolo da risolvere. L’attuale mancata risoluzione della questione cipriota ha diminuito le possibilità di adesione della Turchia all’Unione Europea e, inoltre, ha consentito che i forti interessi “neo-coloniali” del Regno Unito e, soprattutto, quelli strategici degli Stati Uniti, interessati alla posizione strategica dell’Isola dal punto di vista militare ed energetico, e della Russia, continuassero a dettare l’agenda dell’isola. Con la fine della Guerra Fredda, l’importanza di Cipro per gli Stati Uniti è aumentata, viste le nuove sfide sia globali che regionali e, altrettanto si può dire per la Russia dal momento che l’isola non solo è vicina alle aree di crisi del Caucaso e dei Balcani, ma è anche uno strategico punto di appoggio in tutta l’area Mediorientale. [1]

 

La soluzione passa per Ankara

Sebbene gli Stati Uniti sostengano l’adesione della Turchia all’Unione Europea, con l’obiettivo di rendere la Turchia a tutti gli effetti parte dell’Occidente, ad impedire che ciò accada è stata anche la forte ostilità pregiudiziale di Paesi come la Francia, che preferiscono istituire un partenariato con il Mediterraneo piuttosto che accettare l’adesione di uno Stato povero e musulmano nell’Unione Europea. I rapporti tra la Turchia e le istituzioni europee si sono recentemente complicati: la Turchia ha infatti sollecitato il governo greco-cipriota ad interrompere i lavori preparatori per le esplorazioni petrolifere attorno all’isola, affermando che, in caso contrario, navi da guerra turche potrebbero presidiare le prospezioni petrolifere sottomarine, sulla base di un accordo siglato con la Repubblica turca di Cipro Nord. Secondo la Turchia, i proventi dell’estrazione di gas e petrolio spettano anche ai turco-ciprioti che vivono nel Nord dell’isola. A seguito della controversia sulle trivellazioni, il governo turco ha annunciato che, qualora nel 2012 fosse assegnata a Cipro la presidenza di turno del Consiglio dell’U.E., sarebbe pronto a sospendere le proprie relazioni con l’Unione Europea. [2]

Mentre appare più adeguata l’ipotesi di risoluzione tramite un ampliamento dei negoziati, coinvolgendo la Turchia, la Grecia e l’Unione Europea, il Segretariato e il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., oltre ai due Stati ciprioti, al momento, il ruolo internazionale dello Stato turco potrebbe stravolgere qualsiasi previsione: secondo l’analista Semih Idiz, oltre al sostegno economico e militare allo Stato turco-cipriota, la Turchia vanta, rispetto a venti anni fa,  un’autorità internazionale, dovuta particolarmente alla posizione seria e coerente assunta nel tentativo di risoluzione della questione cipriota.

 

 

 

* Giacomo Morabito, dottore in Scienze delle Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Messina)

 

 

 

Note:

[1] (G. Natali, Cipro tra Europa e Medio Oriente, temi.repubblica.it/limes – 02/07/2007)

[2] (Autore anonimo, Cipro, disputa petrolio: Ankara minaccia invio navi da guerra, www.peacereporter.net – 19/09/2011)

 

 

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Bruno Amoroso: EURO IN BILICO. Una Recensione

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Un saggio diretto alla comprensione dell’attuale crisi partendo dal suo principale fautore: il sistema finanziario occidentale.

I edizione: Ottobre 2011

Pagine: 128

Prezzo: 12,00 €

Edizione: RX  – LA TERRA VISTA DALLA TERRA – CASTELVECCHI EDITORE

Alberto Castelvecchi Editore s.r.l.

Via Isonzo, 34 – 00198 Roma (Italia)

 

Nel suo nuovo saggio, Amoroso, ci guida verso una lettura appropriata dell’attuale crisi economica occidentale. L’autore ci propone un’analisi storica, politica ed economica che trova le sue origini negli anni ’30 con la primi crisi economica statunitense. Proprio da tale periodo, e con maggior forza, successivamente al secondo conflitto mondiale, la finanza inizia la sua scalata verso il controllo dell’intera struttura economico-politica del pianeta. Pur incontrando diversi ostacoli – tra i quali l’impenetrabilità dell’area asiatica – riesce ad imporsi quale vera istituzione del Mondo Occidentale.

L’autore definisce il sistema finanziario quale “…metastasi dei sistemi economici e delle nostre società…” (pag.51) e pone l’accento sulla gravità del suo sviluppo sempre più capillare che va ad intaccare tutti i settori “redditizi” dell’economia. Strumento utile alla speculazione risulta essere il modello economico predominante: la Globalizzazione. Con tale modello si rende possibile la destabilizzazione e la denaturazione del “locale” in favore del “globale” e della semplificazione del sistema. Ciò permette un più agevole assorbimento da parte della lobby finanziaria – una ristretta cerchia di multinazionali fondate sulla speculazione, il mercato della droga e il sempre redditizio mercato delle armi – dei risparmi della società occidentale in nome del maggiore profitto.

Amoroso riporta alla nostra attenzione il motivo per cui fu concepito il denaro: semplificare gli scambi nella funzione economica

Merce-Denaro-Merce

E su come questa funzione si sia evoluta nel tempo sino ad arrivare all’attuale:

Denaro-Denaro

Che consente una speculazione sulla rendita e una restrizione dell’importanza del settore produttivo, a conseguenza  del quale si ha il collasso della piccola e media impresa e dei mercati regionali.

Ancor più interessante risulta l’analisi fatta da Amoroso sulla “necessità” del sistema finanziario di pilotare l’implementazione del progetto Unione Europea e della sua moneta unica. Tale realizzazione rientra nel progetto di “disarmo” delle Istituzioni locali (statali) dinanzi al processo di speculazione che avviene nei mercati finanziari. Il tutto riconducendo la crisi attuale da fallimento economico a grande successo della lobby della finanza globale.

L’unica risposta che le istituzioni hanno dato all’avanzata di multinazionali come la Goldman Sachs è stato un “scendere a patti con il diavolo” – Trattato di Maastricht (1992) e Gruppo di Lisbona (1997) le principali, ma non uniche tappe  che hanno ricondotto il sistema ad un cinico predatori vs prede dove queste ultime sono incarnate dai sistemi produttivi regionali, dalle piccole e medie imprese e, in fine, dai singoli risparmiatori d’Occidente. Il tutto viene agevolato dal controllo delle massime sfere istituzionali, mediante “soldati delle multinazionali” – per la Goldman Sachs due nomi su tutti: Mario Monti e Mario Draghi.

In fine Amoroso ci indica quella che potrebbe essere una soluzione – reale e non utopica – volta ad arginare e debellare il cancro finanziario dall’economia globale: lo scenario programmatico che fonda il suo punto di forza sulla regionalizzazione delle economie e sulla rivalutazione delle teorie keynesiane.

L’autore: Bruno Amoroso (nato l’11 Dicembre 1936) è docente emerito di Economia Internazionale e dello Sviluppo presso l’università Roskilde in Danimarca, coordina programmi di ricerca e cooperazione con i paesi dell’Asia e del Mediterraneo. Presiede il Centro Studi Federico Caffè e tra le sue pubblicazioni si annoverano: Europa e Mediterraneo (2000); Sistemi produttivi e di nuova formazione in 10 paesi della riva del sud del Mediterraneo (2002); Il futuro dell’Unione Europea: tra l’allargamento verso il Nord e il Mediterraneo  (2005); Costruzione europea e regione mediterranea (2007); Per il Bene Comune. Dallo Stato del Benessere alla Società del Benessere (2009).

 

*William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 

 

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