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Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo

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Proponiamo qui la registrazione video integrale dell’evento che ha inaugurato il Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia, la conferenza Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo tenutasi a Brescia sabato 17 settembre scorso. Sono intervenuti come relatori Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”), Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG e co-autore di Capire le rivolte arabe), Aldo Braccio (redattore di “Eurasia” e autore di Turchia, ponte d’Eurasia) e Stefano Vernole (redattore di “Eurasia” e saggista). L’organizzazione è stata a cura dell’IsAG e dell’associazione “Nuove Idee”. 

 

 

 


 


Il sacco d’Italia

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I recenti attacchi speculativi che hanno preso di mira l’Italia segnano una perfetta soluzione di continuità rispetto a ciò che accadde nei primi anni ’90, nei mesi a cavallo tra la disintegrazione della Prima Repubblica e l’ascesa dei sedicenti “tecnici”.

Tempi in cui l’allora direttore della CIA William Webster ebbe a sottolineare pubblicamente che dal momento che l’Unione Sovietica era crollata, “Gli alleati politici e militari dell’America sono ora i suoi rivali economici”.

Tra le righe di tale affermazione si celava un non troppo velato vaticinio rispetto a ciò che sarebbe accaduto all’Italia, un paese politicamente instabile e privo di solidità strutturale dotato però di un ingente patrimonio industriale.

La profezia si avverò infatti nel 1992, anno in cui i verificarono gli attentati che stroncarono le vite di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (e rispettive scorte), imperversò l’improvviso vortice giudiziario scatenato dal pool milanese di “Mani Pulite” che risucchiò tra le proprie spire un’intera classe politica nata, cresciuta ed invecchiata all’ombra del Muro di Berlino, la conseguente privatizzazione – che sarebbe più appropriato definire svendita – dell’intero patrimonio industriale e bancario di stato e il violentissimo attacco alla lira.

Tangentopoli

Il 17 febbraio 1992 l’arresto della pedina Mario Chiesa innescò un impressionante effetto domino, una reazione a catena di politici, imprenditori, faccendieri e uomini d’affari che si decisero improvvisamente a vuotare il sacco.

Emerse un desolante ma arcinoto quadro fatto di clientelismi, tangenti, bustarelle, connivenze, contiguità e quant’altro che portò alla decapitazione e al conseguente disfacimento dei due storici partiti di governo, Democrazia Cristiana (DC) e Partito Socialista Italiano (PSI), crollati sotto i colpi di un’agguerritissima magistratura (con il procuratore Antonio Di Pietro in prima linea) sponsorizzata dalla consueta stampa (“La Repubblica”, “La Stampa”, “Corriere della Sera”) di riferimento dei poteri forti che monitoravano il corso degli eventi.
Nel frattempo, una congrega di rinnegati del comunismo e di transfughi della DC (Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro ecc.) si attrezzava di tutto punto per “traghettare”, come Caronte, il paese in vista delle nuove elezioni, che in quel momento pareva dovessero celebrare il loro attesissimo successo.

Gli attentati

Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone saltò per aria assieme a sua moglie e agli uomini della sua scorta nei pressi di Capaci e cinquantasette giorni dopo la stessa sorte toccò a Paolo Borsellino, anch’egli in compagnia della scorta.

Entrambi avevano processato e fatto incarcerare il braccio armato di “Cosa Nostra”, ma stavano anche risalendo le vie impervie destinate ad approdare agli storici intrecci che sono sempre intercorsi tra mafia e settori dello stato, dell’economia, della finanza e che hanno costantemente e pesantemente influenzato la storia politica d’Italia.
La mafia ha sempre svolto un ruolo attivo nel determinare gli equilibri politici italiani fin dal giorno in cui gli Stati Uniti si erano serviti dell’appoggio logistico fornito dai “picciotti” locali per agevolare lo sbarco alleato in Sicilia avvenuto nel luglio del 1943.

Da quel momento in poi la mafia è sempre stata regolare interlocutrice per i governi di qualsiasi colore ed è più volte scesa in capo per risolvere a modo suo questioni suscettibili di intaccare gli interessi di alti esponenti delle istituzioni (come nel caso degli omicidi del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Mino Pecorelli).

Nella logica bipolare della Guerra Fredda la mafia (come Gladio) ha indossato le vesti di bastione dell’atlantismo utile a sventare i pericoli di slittamento “rosso” in Italia.

A questo specifico fattore si deve il supporto fornito dalla politica ai suoi adepti e il regolare coinvolgimento dell’intera organizzazione nei vari progetti di colpo di stato (golpe Borghese, piano Solo) tentati in Italia.

Una volta caduta l’Unione Sovietica, la mafia ha indubbiamente visto restringere la propria sfera di “competenze”, pur rimanendo un solido e fido alleato atlantico.

Il Britannia

Il 2 giugno 1992 il panfilo Britannia intento a trasportare la regina Elisabetta II e una nutrita schiera di finanzieri angloamericani (rappresentanti di Barclays, della Baring & Co., della Warburg, ecc.), gettò l’ancora al largo di Civitavecchia per permettere al gotha dell’industria e della finanza pubblica italiana di salire a bordo.
Salirono Beniamino Andreatta (ENI) e Riccardo Gallo (IRI), Mario Draghi (Direttore Generale del Tesoro) e Giovanni Barzoli (Ambroveneto), oltre ad altri illustri uomini d’affari.

Fatto più unico che raro che alti rappresentanti dell’industria e della finanza pubblica italiana si ritrovassero a bordo del panfilo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra a discutere coi loro potenziali acquirenti dei destini da riservare all’ingente patrimonio di stato, stimato in decine e decine di miliardi di dollari.

E’ obiettivamente presumibile che la trattativa si concluse con un accordo, dal momento che nell’arco di pochi anni la finanza anglosassone ebbe modo di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, come IRI, Enel, ENI, Telecom, Comit, Buitoni, Locatelli, Ferrarelle, Perugina, Galbani, Negroni.

I pochi giornali che si degnarono di sottrarre qualche angusto spazio a Tangentopoli per dedicarlo all’operazione in questione non esitarono comunque ad addurre deboli e inconsistenti legittimazioni all’operazione.
Furono tirati in ballo l’elevato debito pubblico e la necessità di aprire le frontiere ai mercati, ovvero motivazioni prive di alcun fondamento che non tardarono a rivelarsi come tali.

La privatizzazione delle aziende pubbliche consentì infatti all’erario di incassare la cifra di 198.000 miliardi di lire (8% del debito) a fronte dei 2.500.000 miliardi di lire di debito e comportò un accentramento di potere in mano a sparute oligarchie che andarono a formare veri e propri cartelli, destinati inesorabilmente a distruggere la concorrenza.

L’attacco alla lira

Nei giorni successivi alla riunione sul Britannia si insediò il governo presieduto da Giuliano Amato.

In puntuale corrispondenza dell’insediamento, l’agenzia di rating Moody’s decise di retrocedere drasticamente l’Italia in forza dei mancati tagli di bilancio e dell’ostinata politica assistenziale portata avanti dai passati governi.

Questa scelta improvvisa fu varata di punto in bianco nonostante i dati relativi al deficit fossero pressoché inalterati da un paio d’anni.
Amato corse immediatamente ai ripari, disponendo di colpo un cospicuo innalzamento dei tassi di interesse sui buoni del tesoro per evitare che i mercati si interrogassero, riflessivi come sono, sull’instabilità italiana e si abbandonassero alle più rapaci operazioni speculative.

All’epoca il dollaro galleggiava ai minimi storici sul marco tedesco mentre la lira arrancava nella disperata rincorsa ai parametri fissati dal Sistema Monetario Europeo (SME).

In questo desolante contesto, il governo Amato e Bankitalia decisero di comune accordo di accedere al credito illimitato concesso momentaneamente dalla Bundesbank, allo scopo di difendere la lira dalle torve manovre speculative internazionali senza ricorrere alla svalutazione.

La corpose iniezioni di denaro parvero però non frenare la pericolosissima inerzia innescatasi, cosa che spinse la Germania a chiudere i rubinetti finanziari abbandonando così la lira al suo destino.
La svalutazione si rivelò ben presto l’ultima carta da giocare e infatti la lira subì in breve tempo un deprezzamento del 7% e fu costretta ad uscire dallo SME.

Nei quattro anni successivi la valuta italiana fu svalutata del 30% rispetto al dollaro.

Dietro la colossale manovra speculativa si celavano i soliti noti della finanza internazionale, ovvero il gruppo Rotschild, le banche d’affari Goldman Sachs e Merrill Lynch e soprattutto il magnate popperiano George Soros, il quale usufruì del fiume di denaro anticipatogli dalla Goldman Sachs per l’acquisto all’estero di lire deprezzate da rivendere poi in Italia alla massima quotazione.

Si trattò di una tecnica consolidata cui il facoltoso uomo d’affari in questione ha ripetutamente fatto ricorso negli anni, quella di orchestrare crisi valutarie per mezzo dei propri ingenti fondi al fine di acquistare in dollari i capitali a prezzi minorati.

Della svalutazione della lira non beneficiarono tuttavia solo George Soros e le banche d’affari anglosassoni, ma tanti altri operatori della finanza che ebbero così la possibilità di approfittare dell’allora vantaggiosissima situazione di cambio lira – dollaro per accaparrarsi gran parte del patrimonio bancario e industriale di stato a prezzi oscenamente bassi.

Conclusioni

Le ricostruzioni dei fatti rese dai principali organi di informazione e le indagini condotte dalla magistratura sono tutte incardinate sulla tesi che non sia esistito alcun filo conduttore tra gli eventi destabilizzanti di cui è stato oggetto il paese.

Giornalisti e intellettuali assai in voga tentano ancora oggi di leggere la “stagione” di Tangentopoli come una semplice campagna giudiziaria volta a smantellare il sistema endemicamente corrotto che attanagliava l’Italia e attribuire gli attentati del 1992 all’esclusiva smania sanguinaria dei corleonesi assecondata da qualche settore, rigorosamente “deviato”, dello stato.

Della crociera del Britannia non si è invece mai parlato seriamente, quasi si trattasse di cronaca locale di quart’ordine.

Tuttavia, nel corso di un’intervista resa al quotidiano romano “Il Tempo” il 6 dicembre 1996, l’ex Ministro dell’Interno Vincenzo Scotti spiegò che nel febbraio 1992 i servizi segreti e il capo della polizia Vincenzo Parisi avevano redatto e fatto pervenire sulla sua scrivania un rapporto in cui erano sommariamente elencate e descritte le modalità di un imminente piano di destabilizzazione politico, sociale ed economico dell’Italia, orchestrato da svariate forze internazionali in combutta con alcune potenti lobby finanziarie.

Il piano in questione, secondo quanto affermato da Scotti, comprendeva attacchi diretti di varia natura ad alti rappresentanti delle istituzioni e al patrimonio industriale e bancario di stato.
Sbalorditivo come ogni singola tessera si inserisca perfettamente nel mosaico indicato da Scotti.

Una classe politica completamente screditata e conseguentemente sepolta sotto la campagna giudiziaria “Mani Pulite” portata avanti da una magistratura che ha agito con modalità decisamente discutibili e una tempistica assai sospetta e sotto la clamorosa impotenza dimostrata nei confronti della mafia, che mai come allora era parsa tanto potente.

Le colossali inadeguatezza della classe politica italiana portarono all’inevitabile esautorazione degli esponenti del cosiddetto “pentapartito” (DC, PLI, PSI, PSDI, PRI) retto sull’asse DC – PSI e alla loro sostituzione con i trasformisti del comunismo, che hanno a loro volta dato vita a governi i cui incarichi di punta sono regolarmente stati affidati a quegli stessi tecnocrati presenti alla crociera sul Britannia e ad altri ben noti elementi come Romano Prodi (ex senior advisor della Goldman Sachs), Carlo Azeglio Ciampi (lo strenuo “difensore” della lira), Tommaso Padoa Schioppa (membro attivo, oggi defunto, di Eurolandia) e Giuliano Amato (“dottor sottile”), personaggi sul cui operato e sulle cui “amicizie” urgerebbe più che mai far ampia luce.

Malgrado i risultati prodotti da questa linea politica siano sotto gli occhi di tutti, i tecnici (Mario Draghi in primis) continuano attualmente a godere di una popolarità e di un gradimento tanto invidiabile quanto discutibile.

Qualche riflessione al riguardo è stato fatta da Bettino Craxi, in un passo che è opportuno riportare per intero: “Sarebbe interessante riuscire a ricostruire, almeno in parte limitata, la lista dei maggiori soggetti, internazionali e nazionali, che parteciparono allora alla grande manovra speculativa.

E’ evidente che nelle acque della speculazione si mossero a proprio agio anche astuti squali della finanza italiana e forse anche banche nazionali, presumibilmente tutti bene informati di dove si sarebbe andati a finire.

Secondo notizie di stampa, uno degli operatori internazionali sarebbe stato il solito Soros, finanziere americano di larghe vedute e di grandi possibilità, quello che ebbe a dire che l’Italia era un “Boccone ghiotto”.
Speculando contro la lira, sempre secondo queste notizie, avrebbero realizzato in quattro e quattr’otto utili intorno ai 280 milioni di dollari, con un investimento di 50 milioni (…).

Tutto questo naturalmente è finito di corsa in cavalleria. Nessuno si è mai preoccupato di ricostruire la stravagante e singolarissima vicenda, e di chiederne conto agli autori che, con la loro condotta inadeguata, furono responsabili di un autentico disastro finanziario.
Alcuni di loro appartengono semmai al gruppo di quanti vediamo sempre, ancora oggi, candidati a tutto e circondati da aureole di olimpica sacralità.

Un brutto vezzo di un “Bel Paese”.
Uno di loro, che di quella assurda e inspiegabile strategia della sconfitta fu il principale responsabile [Ciampi], fu poco dopo persino premiato con la carica di presidente del Consiglio e ancora oggi è nientemeno che il ministro del Tesoro, che pontifica sul risanamento delle finanze pubbliche che, almeno in quel caso, certo non secondario, ha contribuito non poco a dilapidare.

Ma, come vediamo, quello che succede in Italia non succederebbe in nessuna democrazia e in nessuna società industriale avanzata del mondo”.

Craxi è scappato ad Hammamet per non finire in galera, ma i suoi rilievi vanno valutati con il metro della realtà e la realtà non si discosta di molto dalla sua sommaria descrizione.

Tuttavia i crimini commessi da noti esponenti del suo partito (e di altri partiti) hanno assolto quei politici che non avevano ricoperto alcun incarico di governo e conferito alla sedicente “sinistra” un prestigio assolutamente immeritato.

L’analisi delle responsabilità politiche ha così ceduto il campo al giudizio moralistico sulle virtù di alcuni e sui vizi degli altri.
Tutto il resto fu relegato in secondo piano.

Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

Turchia e Qatar: i nuovi leader regionali?

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Dopo la cosiddetta “Primavera Araba” che ha contagiando diversi paesi arabi, il Vicino Oriente sta vivendo la mancanza di un leader. Questa situazione permette alla Turchia e al Qatar di assumere un ruolo strategico, che alla fine potrebbe portare ad un conflitto politico tra i due ambiziosi stati.

La Turchia sogna i tempi degli Ottomani

È chiaro che quello che accade nel mondo arabo abbia influenzato la politica turca che da molto tempo cerca di riprendere il suo ruolo nel Vicino Oriente. Il grande sogno turco affrontava degli ostacoli rappresentati dal continuo ruolo strategico dell’Iran in Libano, in Siria e in Iraq, e dalla solida alleanza tra i due paesi Arabi più influenti: l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Ma l’attacco israeliano contro la nave turca Marvi Marmara nel maggio 2010 e l’inizio della rivoluzione tunisina nel 2011, hanno contribuito alla modifica della mappa geopolitica del Vicino Oriente aggiungendo nuovi attori desiderosi di ricoprire un ruolo di primo piano nella geopolitica vicino e mediorentale.

Il rifiuto di Israele di presentare le scuse al popolo turco, e l’inaspettato risultato della commissione Ballmer, che ha considerato legittimo l’embargo israeliano contro Gaza, affermando che quanto accaduto nel luglio 2010 contro la flotilla non è un atto terroristico e criminale come sostiene Ankara, ma un semplice uso eccessivo della forza, hanno portato il governo turco ad espellere l’ambasciatore Israeliano e a congelare i rapporti commerciali con Tel Aviv.

Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan ha inoltre annunciato l’inizio di una campagna legale presso il tribunale penale internazionale con l’obbiettivo di condannare i crimini israeliani.

L’azione turca nei confronti di Israele arriva dopo diversi tentativi da parte di Ankara di assicurarsi un ruolo strategico nella regione e di apparire come la salvatrice della democrazia, il frutto della “ Primavera Araba ” .

La domanda che ci si può porre è la seguente: riuscirà Ankara a riprendere il suo potere nel Vicino Oriente ?

Vi sono numerosi elementi che possono aiutare la diplomazia turca a riacquistare un ruolo importante nella regione:

a. L’attuale mancanza di un paese arabo leader. Tale mancanza è dovuta al fatto che l’Arabia Saudita sta affrontando un conflitto politico all’interno della famiglia reale; L’Egitto dopo la caduta del governo di Mubark è occupato a portare avanti le riforme interne; mentre la Siria sta affrontando una grave situazione interna.

b. La notevole ambizione dell’amministrazione turca che, dopo le fallite trattative con l’Unione Europea, ha preferito concentrarsi nel Vicino Oriente. Nel 2006 Ankara ha condannato il severo attacco israeliano contro il Libano, nel 2009 ha condannato l’attacco israeliano contro Gaza ed ha considerato l’embargo illegale e disumano.

c. La vittoria di Giustizia e Sviluppo, il partito “laico -Islamico” di Erdoğan, nelle ultime elezioni ha consolidato il suo potere e ha indebolito il potere dell’esercito considerato il primo alleato di Israele. Tutto ciò permette a quest’uomo di grande potere e alla sua squadra di realizzare il loro progetto sulla nuova Turchia ricca ed influente.

d. L’importanza strategica che gli Stati Uniti e l’Europa danno alla Turchia. Attraverso l’accoglimento della richiesta NATO di installare il “sistema radar di difesa”, il leader turco continua a giocare un ruolo fondamentale tra l’Occidente e il Vicino Oriente.

e. La crescita dell’economia turca che ha permesso al Paese di occupare il tredicesimo posto nell’economia mondiale.

Tutti questi sono elementi che possono aiutare la Turchia ad assumere un potere strategico specialmente dopo la rivoluzione sentimentale che sta portando avanti Erdoğan nel mondo arabo e islamico, una rivoluzione il cui obbiettivo è dire no a Tel Aviv.

Alla luce di quanto segue, sembra che la Turchia stia andando nella direzione giusta per conquistare il cuore del popolo arabo.

Non bisogna però sottovalutare ciò che stanno sottolineando gli analisti, ossia il fatto che gli Arabi non hanno dimenticato la sofferenza che hanno vissuto durante l’occupazione dell’impero Ottomano. La nomina della Turchia come leader nel mondo arabo e islamico, potrebbe affrontare delle difficoltà rappresentate dalla futura ripresa dell’Egitto e della Siria e dall’attuale ruolo che sta assumendo un nuovo stato ambizioso, il Qatar.

Il Qatar alla ricerca di un ruolo strategico

Il Qatar che ha conquistato una fama internazionale nel settore commerciale e del Gas, l’anno scorso ha voluto dimostrare la sua capacità di organizzare i mondiali del 2022. Con l’inizio delle “rivoluzioni” nel mondo arabo, il Qatar ha preso una posizione politica tramite la sua Al Jazeera, il più noto canale televisivo arabo.

Tale posizione ha creato nuovi amici e nuovi nemici all’Emiro che, come hanno riferito i quotidiani arabi, il mese scorso si è salvato da un attacco suicida nella capitale Ad Dawhah.

Cosa vuole il Qatar della “Primavera araba”? Questa è una domanda che ormai si pongono tutti sia nel mondo arabo che in Occidente. La risposta è chiara: il Qatar ambisce ad avere un ruolo strategico nella regione. Da anni il Qatar ha iniziato un programma politico per uscire dal gruppo dei paesi non influenti e attraverso tale piano vuole diventare un nuovo leader arabo.

L’emirato è stato il primo paese arabo ad ospitare il congresso mondiale per la ricostruzione della Libia, oltre ad essere stato l’unico componente della lega Araba ad avere preso parte alla guerra con i suoi aerei militari e ad aver finanziato i ribelli contro Gheddafi.

Il canale satellitare Al Jazeera, ha seguito gli eventi in Tunisia ed Egitto sin dal primo giorno, ed in Siria si considera il primo nemico mediatico del governo di Bashār al-Asad.

Al Jazeera che ha voluto proteggere le “rivoluzione arabe” e i diritti umani non ha reagito nello stesso modo quando è scoppiata la rivoluzione in Bahrein, alleato dell’Emiro e dell’Arabia Saudita. Tale comportamento ha messo a rischio la professionalità del canale e ha fatto sorgere dei dubbi sui reali obiettivi dell’emirato.

 

Gli elementi sopracitati, a cui si aggiunge il fatto che il paese non è stato ancora soggetto a manifestazioni, sono elementi che rafforzano la teoria secondo la quale il Qatar è alla ricerca di un nuovo ruolo strategico nella regione. Tale ruolo però si scontrerà alla fine con la volontà dell’Egitto di riprendere il suo ruolo e con il sempre più crescente ruolo politico di Ankara, fenomeno confermato dal fatto che nei giorni scorsi il primo ministro turco ha concluso la sua missione in Egitto, Tunisia e in Libia, aprendo un nuovo rapporto con i paesi della cosidetta “Primavera araba”.

*Hamze Jammoul, giurista Libanese, esperto nella gestione dei conflitti internazionali

Intervista a Marco Costa, autore di Soviet e Sobornost

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Marco Costa, SOVIET E SOBORNOST. Correnti spirituali nella Russia sovietica e postsovietica
Edizioni all’insegna del Veltro, 2011.
Pagine 94, € 10,00

Davide D’Amario: Perché un saggio sui rapporti tra bolscevismo e rivoluzione?

Marco Costa: Essenzialmente per confutare, o meglio arricchire, la complessità di un rapporto articolato, che nelle diverse fasi della storia sovietica non è stato per nulla univoco e lineare, contrariamente alla superficialità storiografica con cui il termine bolscevismo è solitamente bollato come fenomeno banalmente ateista ed anticlericale tout court.
E’ interessante vedere che il bolscevismo, che definisco come vero e proprio fenomeno “revisionista” del marxismo, proponga già a partire da Lenin e dal suo nucleo originario uno spettro di considerazioni che vanno ben al di là del semplificazionismo ateista.

Davide D’Amario: Kunacarskij, Gorkij, Bogdanov e “Costruttori di Dio”. Può spiegarne il mistero?

Marco Costa: Nessun mistero, piuttosto attenzione alle varie correnti di derivazione gnostico-spiritualista di cui anche vari esponenti del bolscevismo si nutrirono, come peraltro diversi movimenti rivoluzionari russi di fine epoca zarista in qualche modo si collocarono secondo una visione di “nuovo messianesimo”. In particolare Il rappresentante più insigne dell’esperienza dei cosiddetti “costruttori di Dio” è Anatolij Vasil’evic Lunacarskij, primo commissario del popolo alla Pubblica istruzione dopo l’ottobre del ‘17, propugnatore di una “religione senza dio”, nella quale questo venga plasmato dall’uomo stesso e il socialismo scientifico è “la quinta delle grandi religioni nate dall’ebraismo”.

Nella sua concezione, la religione è “l’insieme di quei sentimenti e di quelle idee che rendono l’uomo partecipe della vita dell’umanità e ne fanno un anello della catena tesa verso la vetta del superuomo, verso un’esistenza magnifica e potente, verso un organismo perfetto in cui vita e ragione celebrano la loro vittoria sugli elementi naturali. Per definire la posizione del socialismo rispetto agli altri sistemi religiosi, esso è la più religiosa di tutte le religioni e il vero socialista è un uomo profondamente religioso, l’uomo della religione del lavoro”. Di questo curioso movimento faceva anche parte Aleksandr Bogdanov, considerato da Lenin “il cervello numero uno” del partito bolscevico, che rappresentò effettivamente l’anello di congiunzione tra la tradizione del nascente cosmismo russo e il bolscevismo. Fondò assieme ad altri membri del partito il giornale “Vperod” (avanti), membri che ricopriranno incarichi importanti nel futuro rosso della Russia e che saranno impegnati, invece che nella costruzione di Dio, del regime comunista.

Bogdanov fu probabilmente il più entusiasta sostenitore della figura di Satana come “dio del proletariato”, profondamente convinto che il bolscevismo, una volta compiuta la Grande Rivoluzione, avrebbe sconfitto la morte. Scrisse numerosi romanzi fantascientifici, dei quali il più famoso è La stella rossa, in cui si narra la realizzazione del comunismo su Marte. La scelta di questo pianeta, oltre ad evidenti richiami cromatici al rosso del partito comunista, è vista da cabalisti e gnostici come significativa perché l’angelo di questo astro è Semele, spesso accostato a Satana. Gli abitanti di Marte assumono forme semi-demoniache, dall’aspetto ectoplasmatico e terrificante. Bogdanov descrisse questi esseri con una minuzia tale da far pensare a molti interpreti che fosse vittima di allucinazioni. Il sogno di una società egualitaria e onnipotente lo condusse all’idea secondo la quale il sangue di tutta l’umanità è un bene comune e deve essere ripartito tra tutti in dosi uguali. In questo gli umani avrebbero dovuto emulare i marziani, che immettendo il sangue nelle vene degli uni e degli altri riuscivano a vivere eternamente. Fondò a Mosca un Istituto per le trasfusioni del sangue con l’obiettivo di un’immortalità universale. Le continue trasfusioni lo portarono alla morte nel 1927. Quello de La stella rossa non è tuttavia l’unico esempio di collegamento visionario fra astri e rivoluzione. Aleksandr Cizevsky, scienziato e artista, amico del padre della cosmonautica Konstantin Ciolkovskij, aveva ipotizzato che ogni aspetto dell’attività biologica terrestre fosse influenzato in modo determinante dall’attività delle macchie solari e delle radiazioni cosmiche. In un simile scenario, dunque, non appare strano sentir affermare da un esimio bolscevico quale era Trotsky, seppur in modo ironico, che la nascita del Marxismo e i moti del 1948 erano legati alla scoperta di Nettuno (pianeta associato all’emergere degli ideali dall’inconscio) nell’orbita di Nettuno (considerato pianeta delle rivoluzioni).

Tali aspetti per così dire aneddotici, caratterizzarono significativamente la storia sovietica negli anni seguenti, basti pensare alla particolare attenzione che lo Stato riserverà alla scienza stellare ed alla cosmonautica, con le conquiste che ancora oggi tutti ricordano.

Davide D’Amario: Ateismo, morale e religione. Come venivano tradotti nell’azione del partito di Lenin?

Marco Costa: La posizione del marxismo sulla religione vennero approfondite da Lenin a cominciare dal saggio intitolato Socialismo e religione, pubblicato nel 1905 sul giornale Novaia Gizn.

La religione, intesa come “professione di fede”, viene vista come una forma di “oppressione spirituale” mediante la quale una classe borghese, predicando l’umiltà e la rassegnazione nel lavoro in cambio di una ricompensa celeste, sfrutta le fasce più deboli della popolazione. Lenin sottolinea il carattere “reazionario” che le religioni hanno sempre avuto nella storia e il ruolo consolatorio della ingiustizie della vita terrena. Di contro alle classi capitalistiche veniva insegnata la carità “offrendo così una facile giustificazione alla loro esistenza di sfruttatori”.

Il compito del proletariato doveva pertanto essere quello di dichiarare la fede un libera scelta della propria coscienza. Lo Stato doveva essere completamente separato dalla Chiesa e a quest’ultima non doveva essere concessa nessuna sovvenzione statale e nessun privilegio.

Ogni individuo poteva scegliere di seguire qualsiasi religione o di essere ateo, senza veder discriminati i propri diritti. Lenin riteneva di poter garantire una giustizia reale per tutti i cittadini imponendo l’uguaglianza sul terreno giuridico tra credenti ed atei, ma non si accorse che le differenze esistenti avrebbero causato delle forti discriminazioni sociali.

Il partito, a differenza dello Stato, avrebbe contribuito a vincere i vecchi pregiudizi della religione attuando una propaganda materialistica e scientifica che comprendesse necessariamente anche l’ateismo. In pratica Lenin voleva un partito capace di contrastare la religione non solo in campo pratico, ma anche ideologico e culturale, sempre evitando l’anticlericalismo. Sebbene l’ateismo fosse parte integrante della filosofia marxista, esso non fu dichiarato mai nel programma del partito bolscevico poiché l’ideologia spirituale veniva considerata un elemento di secondaria importanza rispetto alla lotta all’oppressione economica. Lenin tornò sull’argomento in un articolo del 1909 intitolato L’atteggiamento del partito operaio verso la religione, nel quale spiegò come tutte le organizzazioni religiose moderne dovessero essere trattate con indifferenza per ottenere dei vantaggi sul terreno politico. Qualsiasi concezione religiosa, per il marxismo, non doveva rischiare di divenire più importante della lotta di classe ma nemmeno esserne esclusa.

La sua funzione andava spiegata in rapporto ai problemi economici e sociali. Per recidere le radici profonde della fede, Lenin non riteneva necessaria la diffusione dell’ateismo quanto piuttosto il coinvolgimento del popolo nella questione della lotta di classe. Il non aver reso obbligatoria, nel programma di partito, l’adesione all’ateismo per i suoi militanti, generò diverse contraddizioni.

In pratica la libertà di culto, come quella di opinione, era concessa a condizione che il credente rinunciasse alla propaganda pubblica delle proprie convinzioni e restasse fedele alla linea politica del partito. Lenin chiarì la necessità dei socialdemocratici di mantenere un atteggiamento moderato nei confronti della religione per non cadere nelle dure contrapposizioni anticlericali che si erano già avute in Europa, sopratutto con i blanquisti e con Dühring, e per evitare che il socialismo corresse il rischio di essere subordinato alle questioni ecclesiastiche, distogliendo le masse dalla lotta politica.

Quando i bolscevichi andarono al potere in Russia, Lenin si preoccupò di chiarire la necessità del rispetto dei sentimenti religiosi per non causare il diffondersi del fanatismo. D’altro canto però volle chiarire che i giudizi sulla religione dovessero restare nella sfera privata di un individuo per non rischiare di trasformarsi in motivi di scontro politico. Il socialismo doveva rimanere un fenomeno integralmente laico. Lenin precisò: “l’idea di Dio non ha mai legato l’individuo alla società, ma, al contrario, essa ha sempre legato le classi oppresse con la fede nella divinità degli oppressori” ribadendo così il concetto che la lotta per l’emancipazione sociale sarebbe stata scatenata dallo sfruttamento economico e avrebbe unito credenti e non.

Perciò i marxisti dovevano raccogliere adesioni anche tra i fedeli e renderli consapevoli di come le organizzazioni religiose tradizionali avessero da sempre legittimato, a volte inconsapevolmente, l’oppressione materiale dei popoli.

Per Lenin il movimento comunista, pur se generalmente ateo, doveva possedere comunque una sua moralità concreta non astratta con la quale i proletari potessero rapportarsi nelle diverse situazioni. Egli, nel 1922, mitigando il suo approccio ideologico verso la religione, sottolineò per l’ultima volta l’importanza in un regime socialista di tenere conto della militanza religiosa e della presenza in essa dei “materialisti”. Riassumendo, potremmo dire che il leninismo sul piano civile si adoperò per la completa separazione tra Stato e Chiesa ortodossa, mentre sul piano strettamente ideologico confidava di redimere completamente, in favore della causa socialista, la coscienza della religiosità sincera del popolo russo. Stalin. Patriota e filo-ortodosso… Una forzatura o una scelta di comodo?

Nel 1940 Stalin, per motivare il popolo russo a battersi con tutte le forze contro l’invasore nazista, non fece leva esclusivamente sui valori del comunismo, ma su quelli della storia secolare della Santa Madre Rus’, chiamando a combattere per i destini millenari di una tradizione che allora come non mai veniva minacciata dall’esterno; in questo frangente il primo interlocutore fu per lui la Chiesa ortodossa. Nell’intuizione staliniana, il popolo non avrebbe combattuto esclusivamente per l’edificazione del socialismo, ma lo avrebbe fatto anzitutto per difendere la patria in pericolo.

La Chiesa ortodossa, capace di mobilitare un numero altissimo di cittadini, venne ‘resuscitata’ da Stalin per convogliarne le rinnovate energie contro la follia hitleriana.

Così, nel 1943 fu permessa ed anzi sostenuta l’elezione di un nuovo Patriarca, il metropolita di Leningrado Aleksij, e venne rimessa in moto l’intera vita della Chiesa ortodossa, che tornò al suo livello pre-rivoluzionario. “Il prezzo che la Chiesa dovette pagare per la tolleranza relativa di cui beneficiò prima dell’era Chruščëv”, come spiegò tra gli altri Dimitrij Pospelovskij, “fu il suo sostegno totale alla politica estera sovietica attraverso (la condanna de)gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali”.

Sicuramente i fattori furono concomitanti ed in qualche misura speculari: da un lato la saggezza realistica di disinnescare ogni possibile contropotere intestino alla società sovietica nella sua fase di maggior pericolo; dall’altro una conversione alle ragioni profonde, identitarie e tradizionali che Stalin volle mobilitare nella costruzione di un rapporto ormai stabile con le gerarchie ortodosse; non dimentichiamo che se si sviscerano i testi filosofici del giovane Stalin, lo sdoganamento del patriottismo è l’estremo compimento di una coerenza anzitutto analitica, che si pone quale esperimento rispetto al marxismo più strettamente economicista degli albori come forma di marxismo dai “caratteri russi”.

Come non ricordare le pagine di Principi del Leninismo, dove Josif Stalin definisce il leninismo “il marxismo dell’epoca dell’Imperialismo e della Rivoluzione proletaria”. Tocca infatti al fondatore dell’Unione Sovietica, già negli scritti antecedenti la prima Guerra Mondiale, tracciare e teorizzare la teoria comunista nell’epoca delle lotte anticoloniali e antimperialiste, ponendo in primo piano la cosiddetta questione nazionale. In questo senso questione nazionale e questione religiosa si pongono non esclusivamente come cedimenti dello stalinismo ma estremo compimento dei suoi presupposti ideologici.

Davide D’Amario: Nella fase post-stalinista e poi post-sovietica come si colloca la religione?

Marco Costa: In epoca poststaliniana, Kruscev prima e Breznev in seguito allentarono nuovamente i rapporti con la Chiesa Ortodossa, barcamenandosi tra diffidenze e tolleranza reciproca; quello che ho trovato più interessante, è stato vedere come paradossalmente sia stato nella fase tardo e post sovietica il vero rifiorire di tutte le istanze ortodosse e “tradizionaliste” nel mondo comunista russo. Solo qualche breve episodio.

Al di là delle posizioni strettamente ideologiche programmatiche sostenute dal Kprf, peraltro non affatto riconducibili esclusivamente alla questione nazional-patriottica, credo che diversi episodi corroborino la tesi secondo cui l’attuale dirigenza comunista russa erede diretta del vecchio Pcus abbia intessuto un robusto legame con l’impostazione dello stalinismo rispetto alla questione religiosa; viene anzitutto alla mente la polemica di oltre un paio di anni fa – certamente provocatoria e per molti versi paradigmatica – della richiesta ufficiale redatta dalla direzione del Kprf ed indirizzata alle massime autorità ortodosse finalizzata all’ottenimento della santificazione di Josif Stalin. “Ci rivolgeremo alla Chiesa con la richiesta di canonizzare colui che riunì le terre russe, che sconfisse i nemici della patria, che creò il grande minimo sociale, che fu l’eroe e il padre dei popoli”, sostenne il dirigente comunista Malinkovich. Che poi minacciò: “Se la Chiesa si rifiutasse, allora al suo interno comparirà, non senza la partecipazione delle forze patriottiche, una tendenza di rinnovamento, una chiesa ortodossa popolare orientata in modo sociale, intollerante nei confronti dell’opulenza e dell’ostentata religiosità dei burocrati.

Sarà questa chiesa rinnovata a canonizzare il grande Stalin, primo passo dell’unione del movimento di liberazione nazionale e dell’ortodossia popolare. Alla fine del XXI secolo le icone con l’immagine del Santo Josif Stalin compariranno in ogni casa ortodossa”. Non solamente una provocazione finalizzata alla notorietà, ma più attentamente la rivendicazione e il tentativo di riappropriazione della figura del Vozd anche in chiave patriottico religiosa, anche e soprattutto alla luce del fatto che per quasi due settimane Stalin rimase in testa alla classifica del progetto tv “Il nome della Russia”, il sondaggio popolare Internet che si sarebbe concluso a Natale dello stesso anno con la proclamazione del personaggio storico russo più rappresentativo, che proprio sulla figura di Stalin vide il maggior gradimento dei russi, ma successivamente a temporanei oscuramenti del sondaggio. “Nessuna manipolazione del signor Ljubimov (il direttore del sondaggio) può nascondere la sacrosanta verità – ha scritto Malinkovich – Stalin è il nome più popolare della Russia.

E, di fronte alla manifesta dichiarazione di inopportunità della richiesta arrivata dal Patriarcato, la risposta dei comunisti di Pietroburgo fu alquanto emblematica: “La posizione del Patriarcato è dettata dalla pressione delle autorità laiche, non riflette l’opinione di tutto il clero, soprattutto dei pope della grande maggioranza delle piccole città russe e della campagna”. Come dimenticare, del resto, il telegramma che la Chiesa ortodossa inviò a Stalin il 21 dicembre del 1949, in cui, tra le altre solenni manifestazioni di giubilo popolare, così il clero ortodosso ricordò di salutare la figura del Vozd: “Caro Josif Vissarionovich, nel giorno del suo 70esimo compleanno, le esprimiamo la nostra profonda riconoscenza. preghiamo per il rafforzamento del Suo vigore e benedicendo il Suo eroismo ce ne ispiriamo noi stessi”.

Altro episodio assai rappresentativo della sensibilità del Kprf rispetto all’ortodossia, venne manifestata dallo stesso Zjuganov all’indomani della scomparsa dell’ex presidente Boris Eltsin, reo di avere usurpato fraudolentemente la possibile vittoria dello stesso leader comunista nelle elezioni presidenziali del 1996; nonostante il clima di ovvia ed accanita ostilità da parte dei deputati della frazione del Kprf, i quali si rifiutarono di alzarsi dai propri posti oltre che di onorare la memoria di Eltsin e di partecipare alle cerimonie d’addio, da parte sua il leader dei comunisti russi, Ghennadij Ziuganov, si rifiutò di commentare la morte del suo rivale.

Ancora, nel corso della manifestazione organizzata dai comunisti russi per la memoria dei difensori della Costituzione sovietica – momento di solenne commemorazione delle centinaia di moscoviti che si sacrificarono per difendere il parlamento dal colpo di stato elstiniano del 4 ottobre del 1993 – al comizio rituale di Zjuganov nel quale si ricordava l’illegittimità dell’assalto condotto da Eltsin al palazzo del soviet supremo moscovita, fece seguito la celebrazione di una messa funebre ortodossa in ricordo delle vittime dell’assalto, in cui il pope così si espresse nella sua orazione: “Noi siamo venuti qui per dire a loro grazie. Grazie, ai loro genitori, ai loro cari perché li hanno educati ad essere dei veri cittadini del grande Stato sovietico. Quel Stato Sovietico che è stato sbranato e oggi, il suo corpo continua a far nutrire fede e speranza in tutti noi. Sono sicuro che noi ripristineremo il paese sovietico”.

L’elenco dei passaggi delle memorie dei comunisti che ambiscono a fondere spiritualità e patriottismo sarebbe ancora incredibilmente lungo nel percorso del Kprf e della galassia comunista post-sovietica.

Fonte: Rinascita, 15 settembre 2011

Hélène Carrère d’Encausse, La Russia tra due mondi

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Hélène Carrère d’Encausse
La Russia tra due mondi
Salerno Editrice, Roma 2011

L’opera

Bisogna aver paura della Russia? È questo l’interrogativo che si pone Hélène Carrère d’Encausse dopo la fine dell’URSS. A distanza di circa vent’anni la nuova Russia è una potenza riconosciuta, e questo è stato l’obiettivo che ha orientato l’azione di Vladimir Putin fin dal 2000.
Divisa tra Europa e Asia essa incontra e si scontra dovunque con la potenza americana impegnata a escluderla dalla scena internazionale.
La grande studiosa francese presenta questo agile, documentatissimo e aggiornato saggio sulla politica russa, per una piena comprensione delle ragioni della globalizzazione che oggi viviamo.

L’autore
Storica della Russia, Hélène Carrère d’Encausse, dal 1991 è membro dell’Accademia di Francia. Conosciuta e apprezzata in tutto il mondo,tra i suoi scritti tradotti in italiano ricordiamo: Nicola II, Lenin, Caterina La Grande.

Traduzione di Elena Cerchiari

settembre 2011
Piccoli saggi – 50
pp. 240 € 15,00
ISBN 978-88-8402-728-3

Salerno Editrice, Via Valadier 52, Roma, Tel. 06-3608.201.
indirizzo: info@salernoeditrice.it

L’Ucraina sospesa tra Est e Ovest

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Introduzione

Le cronache delle relazioni russo-ucraine dello scorso decennio si soffermano con regolarità sulle questioni energetiche. Attraverso l’Ucraina passano i più importanti condotti che trasportano gli idrocarburi russi (e centroasiatici) in Europa. Fino all’apertura del Nord Stream dello scorso 6 Settembre, la via ucraina di creazione sovietica rappresentava l’unico percorso per le forniture di petrolio e gas, tanto desiderate dai clienti europei di Mosca.

Dopo l’avvento di Putin al Cremlino e, ancor di più, dopo la “Rivoluzione arancione” in Ucraina, si sono succedute due crisi sulle forniture di gas, nel 2006 e nel 2009 – se ne prevede una terza durante il prossimo inverno. Il ruolo di Gazprom e dei suoi sussidiari è fondamentale nel rapporto tra Mosca e Kiev. Tuttavia, per giudicare in maniera distaccata e obiettiva, bisogna fare un passo indietro nel tempo e un passo in alto sui gradini della scala di astrazione. Come vedremo, è necessario prendere in considerazione la situazione politica interna, le politiche speculari di Unione Europea e Federazione Russa nel loro “vicino estero” e il ruolo degli Stati Uniti.

 

Arancione sbiadito

L’arresto di Yulia Tymoshenko sembra chiudere la fenomenologia involutiva della c.d. “Rivoluzione arancione” ucraina cominciata nel 2004. La vittoria elettorale del duo Yushchenko-Tymoshenko fu accolta con grande soddisfazione dai circuiti politici occidentali, che ancora fremevano per la “Rivoluzione delle rose” georgiana. Si credeva allora che la moltitudine che affollava le piazze di Kiev fosse un segnale dell’emancipazione ucraina dalla transizione post-sovietica e che potesse ingenerare un avvicinamento alle istituzioni e alle pratiche occidentali.

Era il periodo di “massima assenza” russa dallo spazio ex-sovietico: Mosca stava ancora leccandosi le ferite economiche della crisi del 1998 e le ferite, quelle vere, della seconda guerra di Cecenia. Tra 2003 e 2004, però, il potere di Putin al Cremlino si consolidò permettendogli di riconsiderare le tesi della nostalgia post-sovietica.

La riconquista del “vicino estero” passava per una rinnovata influenza economica e politica oltreconfine. L’Ucraina era designata come uno degli obbiettivi principali, non solo perché nel suo territorio si snodavano i condotti che convogliavano gli idrocarburi russi verso l’Europa, ma anche per affinità linguistiche e culturali, e per soddisfare la mai sopita volontà di potenza russa.

Le rivoluzioni colorate vengono spesso considerate una risposta alla pressione russa degli anni Novanta per la riconquista dell’influenza sul “vicino estero”. Aleksandr Solženicyn e Andranik Migranyan pubblicarono scritti molto forti[i] sul near abroad (termine inglese con il quale si traduce l’espressione russa blizhnee zarubezh’e, letteralmente, “immediato oltreconfine”). Ma Yeltsin e il ministro degli affari esteri, Andrej Kozyrev, non risposero a tali iniziative, preoccupati com’erano di risolvere i problemi domestici l’uno e i rapporti con l’Occidente l’altro. Con l’avvento di Primakov al Ministero degli Affari Esteri nel 1996 la Comunità degli Stati Indipendenti entrò nei fatti tra le priorità di Mosca.

Decisiva sarebbe stata l’elezione di Vladimir Putin, a cui Yeltsin aveva dato il vantaggio di preparare la celebrazione elettorale nominandolo Primo Ministro ad interim alla fine del 1999. Una volta consolidato il suo potere e insediato uomini di fiducia nei ministeri più importanti e all’interno del personale del Cremlino, Putin cominciò a fare la voce grossa con l’Ucraina che, diventata “arancione”, voleva rinegoziare i contratti per le forniture energetiche e intensificare il dialogo con UE e NATO. Questo clima portò alla prima crisi del gas (2006), contribuì ad raffreddare ulteriormente i rapporti tra Russia ed Occidente durante la guerra georgiana in Ossezia del Sud (2008) ed infine riaccese la seconda crisi del gas (2009).

Quest’ultima rappresenta la circostanza del reato della Tymoshenko che, secondo l’accusa, avrebbe facilitato la ripresa delle forniture di gas durante la crisi del 2009, procurando un danno economico al suo paese e non ottemperando alle procedure necessarie per il raggiungimento di un accordo. L’abuso d’ufficio si concretizzò con il negoziato tra il Primo Ministro ucraino e l’omologo russo, Vladimir Putin, che diede luogo a un accordo che garantiva gli approvvigionamenti dietro la maggiorazione del prezzo del gas naturale fornito. Allora, l’Unione Europea esercitò una forte pressione per il raggiungimento dell’accordo, che tuttavia non seguì l’iter parlamentare, come previsto dalla legislazione ucraina. L’attuale Primo Ministro Mykola Azarov ritiene la Tymoshenko responsabile per la crisi e per le negative ripercussioni economiche causate.

Una terza crisi potrebbe verificarsi qualora il tiro alla fune sui prezzi continuasse. Anche il filorusso Yanukovich, per conquistare il favore della popolazione dopo l’affaire Tymoshenko e per marcare il suo nuovo approccio alle relazioni con Mosca, sta provando a rinegoziare al ribasso i contratti di fornitura del gas. Sarà un compito indubbiamente difficile, visto che Gazprom ha forzato la firma di contratti take or pay attraverso i suoi sussidiari ucraini. Alla luce di tali contratti, l’Ucraina deve ottemperare alla richiesta del prezzo stabilito dalla Russia e non può comprimere la sua domanda, visto che il pagamento viene effettuato sul volume stabilito, non su quello effettivamente consumato. Il tentativo di Yanukovich di ridurre il prezzo di un terzo potrebbe essere anche un modo per mostrare i muscoli dopo le critiche del Cremlino sugli ultimi sviluppi nella politica interna ucraina.

 

Russia e Ucraina: due strane gemelle

Da almeno un decennio, la Russia sta provando a riportare sotto la propria influenza il suo vicino. Per ottenere il risultato, Mosca ha utilizzato mezzi economici e culturali, ma nessuno strumento si è rivelato tanto efficace quanto l’arma energetica. Quello russo-ucraino è appunto uno dei casi paradigmatici (anche se rimane uno dei pochi) che vede l’utilizzo dell’energia quale strumento di proiezione del potere statale. La nazionalizzazione di gran parte del settore dall’inizio del decennio (Gazprom, Rosneft) e la garanzia del monopolio sull’export per Gazprom (con la conseguente emarginazione di Itera, la compagnia russa più forte in Ucraina negli anni 2000) hanno aiutato a far coincidere gli interessi industriali ed economici con quelli governativi. Le “oligarchie” che si muovevano in maniera indipendente negli anni Novanta sono state smantellate (su tutti, si veda il caso Yukos) e la concentrazione industriale nel settore energetico ha creato una struttura di “potere verticale” che collega direttamente i giacimenti e le pipelines alle stanze del Cremlino.

Non del tutto originali sono le radici dell’ascesa al potere della Tymoshenko. Anche in Ucraina, infatti, la liberalizzazione dell’economia, la transizione democratica, e l’apertura ai mercati occidentali avevano lasciato spazio ad individui e piccoli gruppi imprenditoriali che conoscevano bene il sistema di potere. Questi si arricchirono rapidamente e lottizzarono interi settori dell’economia ucraina. Insieme al marito Oleksandr, di cui acquisì il cognome, la “principessa del gas”[ii] era alla guida di una grande compagnia energetica formatasi dalle ceneri dell’impalcatura statale (The Ukranian Petrol Corporation). In seguito, fu nominata presidente della United Energy Systems of Ukraine (Yedinye Energeticheskie Sistemy Ukrainy), che si occupava principalmente delle importazioni di gas dalla Russia. Le sue crescenti ambizioni politiche, insieme alla sua posizione privilegiata nell’economia ucraina, portarono la donna più influente in Ucraina, originaria di Dnipropetrovsk, ad occupare il posto di Ministro dell’Energia per qualche mese durante il primo governo Yushchenko, sotto la presidenza Kuchma.

L’energia è il mezzo principale utilizzato da Mosca per esercitare la propria influenza, ma è anche quello che l’Occidente usa per strumentalizzare la vicenda, fregiando l’Ucraina di uno sviluppo democratico che ancora non si è concretizzato e tacciando la Russia di comportamento scorretto. Tuttavia, sono proprio le agenzie economiche occidentali che spingono per l’abbattimento dei sussidi alle esportazioni, senza i quali l’Ucraina non potrebbe permettersi le forniture che le arrivano da Est. Entrambi i Paesi hanno vissuto due storie molto simili dalla caduta dell’Unione Sovietica e, pur perseguendo a volte obiettivi dissimili, si sono comportate in maniera speculare: la gestione “verticale” dei rapporti politici, la privatizzazione poco trasparente e l’incertezza del diritto ne sono esempi chiari.

 

L’Occidente nel gioco geopolitico sull’Ucraina

Il comportamento dell’Occidente nei confronti dei due paesi è stato altrettanto altalenante: agli applausi per le politiche di liberalizzazione post-sovietica sono succeduti gli sguardi accigliati verso l’accentramento del potere e la mancanza di trasparenza. L’Unione Europea ha mantenuto un comportamento ambivalente nei confronti di Kiev, evidente quando si considera la dimensione del Partenariato orientale (Eastern Partnership) che ha subito numerosi cambiamenti di rotta specie a cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo secolo. Ultimamente, l’UE ha ritardato le sue considerazioni sull’arresto della Tymoshenko e sulla questione della rinegoziazione dei contratti energetici, a testimonianza della difficoltà di Bruxelles di portare avanti una politica estera coerente nell’area post-sovietica che non confligga con gli interessi particolari degli Stati membri.

I circoli culturali europei si sono espressi – anche loro con un po’ di ritardo – sulla vicenda Tymoshenko. Una lettera apparsa sul Corriere della Sera a firma di intellettuali e politici del vecchio continente (e non solo[iii]) chiede che l’Ucraina ritorni sulla via democratica che era stata imboccata dopo le dimostrazioni del 2004. L’elenco degli abusi che l’amministrazione Yanukovich favorirebbe è molto pesante. Forse però il tono usato è duro anche perché le aspettative per un’Ucraina democratica e “occidentale” sono state disattese, in primis dagli stessi protagonisti della Rivoluzione arancione.

Gli Stati Uniti avevano scommesso sull’Ucraina quale testa di ponte della NATO per contrastare il rigurgito egemonico post-sovietico di Mosca verso lo spazio della CSI. La firma del Partenariato per la Pace (Partnership for Peace) nel febbraio 1994 con l’Ucraina funse da viatico per tutti gli altri nuovi Stati indipendenti. Ma questo, che doveva essere il primo passo verso l’inclusione dello spazio ex-sovietico nell’area del Patto Atlantico, non diede luogo ad evoluzioni sostanziali: l’ultimo grave errore dei quartieri generali di Bruxelles (e dell’amministrazione G.W. Bush) è stato quello di illudere Ucraina e Georgia al meeting di Bucarest del 2008 che si sarebbe configurata la possibilità di accelerare l’ingresso di Kiev e Tbilisi nella NATO. Tale atteggiamento poco lungimirante rappresentò la miccia che portò allo scontro militare dell’Agosto 2008 tra Georgia e Russia sul territorio delle regioni indipendentiste di Abkhazia e Ossezia del Sud.

Il racconto delle relazioni tra NATO ed Ucraina non è il tema principale di questo articolo, ma vale la pena sottolineare che esse sono state in linea con l’atteggiamento ostile statunitense verso la Russia di Putin, le cui mire egemoniche verso il “vicino estero” sono state progressivamente arginate, almeno fino al periodo del reset (fine 2009).

 

Conclusione

Un altro passo indietro forse aiuterebbe ancora di più l’osservatore di oggi, perso tra le dozzine di cognomi e luoghi che caratterizzano l’Ucraina. La divisione della popolazione ucraina lungo le sponde del Dnepr è geograficamente quasi perfetta: a ovest, la parte filopolacca, che fa riferimento a Leopoli e simpatizza per l’UE; a est, la parte filorussa, che ha radici comuni con Mosca.

Gli anni bui di Kuchma avevano favorito l’emergere di oligarchie economiche che sfruttavano con perizia i legami quasi ambivalenti che l’ex presidente intesseva ora con Mosca (Trattato di Amicizia del 1997, esteso di altri dieci anni nel 2008), ora con Washington e Bruxelles (PfP NATO del 1994, MAP NATO del 2002). Anche queste oligarchie nacquero nel solco della divisione demografica ucraina[iv]. È importante comprendere come anche oggi il Dnepr rappresenti la frontiera tra due nazioni di frontiera dal destino comune[v].

Lo sforzo occidentale per portare l’Ucraina dentro la rosa dei “Paesi amici” ha spinto fortemente per la Rivoluzione arancione e sembra che gli ultimi eventi (la sconfitta della Tymoshenko alle elezioni nel 2010 e il recente arresto) siano la testimonianza della sconfitta della strategia di democratizzazione a tappe forzate consigliata da Brzezinski[vi].

D’altra parte, l’atteggiamento egemonico russo nei confronti di Kiev si adatta alle contingenze economiche e politiche avvicinando e poi scartando i protagonisti dei processi governativi ucraini.

I problemi di quella che veniva chiamata “Piccola Russia” (Malorossiya) ai tempi di Gogol’, forse non sono poi tanto “piccoli” e anche qualora non riguardino gli interessi energetici europei, rimangono geopoliticamente rilevanti.

 

* Paolo Sorbello ha ottenuto la Laurea Specialistica in Scienze Internazionali e Diplomatiche dall’Università di Bologna (sede di Forlì). La sua tesi di ricerca è stata successivamente pubblicata da Lambert Academic Publishing con il titolo “The Role of Energy in Russian Foreign Policy towards Kazakhstan” (Giugno 2011). L’autore ha condotto i suoi studi presso istituzioni accademiche in Spagna, Russia e negli Stati Uniti. Ha lavorato presso importanti istituti di ricerca negli Stati Uniti e attualmente collabora con il centro di ricerca IECOB pubblicando articoli e approfondimenti su tematiche inerenti alla geopolitica dell’energia.


[i] Andranik Migranyan, “Rossiya i blizhnee zarubezh’e”, Nezavisimaya Gazeta, 12 e 18 gennaio 1994 (in russo) e Aleksandr Solženicyn, Rebuilding Russia, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1991.

[ii] Piero Sinatti, “L’Ucraina in bilico tra Russia e Occidente”, Limes, n. 3, 2008, p. 228.

[iii] “Il Paese è al bivio tra democrazia e autocrazia: l’Europa alzi la voce”, lettera firmata da André Gluksmann, Vaclav Havel, Michael Novak, Yohei Sasakawa, Karel Schwarzenberg, Desmond Tutu, Richard von Weizsäcker e Grigory Yavlinsky, apparsa in traduzione italiana sul Corriere della Sera di domenica 4 settembre 2011 a pagina 19.

[iv] Donato Bianchi, La Russia nel mondo multipolare, Lotta Comunista, Milano, 2008.

[v] Ucraina infatti si traduce come “frontiera esterna” o “periferia estrema”.

[vi] Jean-Marie Chauvier, “Elezioni in Ucraina: fallimento della “rivoluzione arancione”, Eurasia, 15 febbraio 2010, http://www.eurasia-rivista.org/elezioni-in-ucraina-fallimento-della-rivoluzione-arancione/3076/

Qousque tandem…

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Una brevissima premessa

Il 30 agosto ero alla Farnesina, il ministero degli Esteri, per partecipare alla manifestazione in favore della Libia di Gheddafi, devastata da un intervento criminale di “volenterosi” della Nato. In quella occasione, Tiberio Graziani mi ha invitato a scrivere “qualcosa” sull’iniziativa palestinese del 23 settembre alle Nazioni Unite. L’ho messo al corrente di un mio voluminoso saggio del dicembre 2010, incentrato sulla colonizzazione sionista in Palestina, in particolare a Gerusalemme-Est, che ripercorreva i precedenti del tema propostomi. Convinto come ero (e sono) dell’estrema attualità di quel lavoro cui avevo dedicato diversi mesi, gli ho proposto di ripubblicarlo, facendolo precedere da alcune considerazioni sull’attuale iniziativa dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e sulla situazione mediorientale. La gentilezza di Tiberio è notoria e questo articolo costituisce il mio contributo attuale, cui farà seguito il saggio “E Gerusalemme-Est … agonizza !”.

L’iniziativa dell’ANP palestinese

Il paragrafo conclusivo del saggio appena citato era dedicato alla ricostruzione, soltanto per l’anno 2010, del balletto israelo-statunitense, con accompagnamento palestinese, sul “processo di pace”. Per farlo, mi ero servito della collezione di la Repubblica, dal 16 marzo al 9 novembre. Questo balletto si ripete ormai da più di diciotto anni, una generazione nel mondo arabo! Partivo dalla fine. Dal 9 novembre.
“Nuovi insediamenti a Gerusalemme ‘Così Israele distrugge i negoziati’. Sì a 1.300 alloggi mentre Netanyahu è negli USA. Protestano i palestinesi”.
Questo il lungo titolo a pagina 19. E di seguito riportavo l’articolo di Fabio Sciuto, inviato di la Repubblica a Gerusalemme.
“Con un tempismo destinato a mettere ancora più in chiaro qual è lo stato delle relazioni fra Stati Uniti e Israele, ieri la commissione per l’edilizia del ministero dell’Interno ha pubblicato il bando per la costruzione di mille e trecento nuove abitazioni a Gerusalemme-Est, contravvenendo alla esplicita richiesta di Washington di congelare i nuovi insediamenti per favorire il riavvio dei negoziati di pace con l’ANP. L’annuncio è venuto proprio mentre il premier israeliano Netanyahu è in visita in America ed è stato subito bollato come ‘molto deludente’ dal dipartimento di Stato USA. Immediata anche la reazione dei palestinesi che, per bocca del negoziatore Saeb Erekat, hanno accusato Netanyahu di voler ‘distruggere’ i colloqui.
La politica coloniale israeliana rappresenta, al momento, la principale ragione dello stop forzato ai negoziati di pace tra israeliani e palestinesi che non riprenderanno la trattativa se prima non ci sarà il blocco delle nuove costruzioni. E lo stallo del negoziato – dopo tante energie spese – è frustrante per l’Amministrazione Obama. Il programma approvato ieri dal comitato per l’edilizia della municipalità di Gerusalemme prevede la costruzione di 978 appartamenti a Har Homa e di altre 320 unità a Ramot, quartiere ebraico sempre nel settore est della città.
Nei primi mesi dell’anno, la pubblicazione di un altro piano per la costruzione di 1.600 alloggi a Gerusalemme-Est, avvenne durante una visita del vice presidente Usa Joe Biden che aveva l’intento di ricucire i tesi rapporti fra Israele e Stati Uniti per il rifiuto israeliano di attuare una moratoria degli insediamenti. Il fatto fu giudicato uno sgarbo diplomatico e causò una seria crisi fra i due paesi. Anche questa volta la pubblicazione del piano ha di fatto coinciso con l’incontro che Netanyahu ha avuto domenica sera con Biden a New Orleans. Incontro nel quale il premier è tornato a incalzare l’Amministrazione Usa per una opposizione più dura sull’Iran e il suo programma nucleare. Per Netanyahu ‘l’unico modo per assicurarsi che l’Iran non ottenga armi nucleari è una credibile minaccia militare’, affermazione sulla quale Biden ha glissato limitandosi a sottolineare che le attuali sanzioni contro Teheran hanno un ‘impatto misurabile’, diversamente da un’azione militare che potrebbe avere esiti devastanti in tutto il Medio Oriente”.
Ho fatto ricorso ad una così lunga “autocitazione” (di fatto una citazione da La Repubblica del 9 novembre 2010), per evidenziare come dall’articolo di Fabio Sciuto emergesse un dialogo fra sordi, con un premier israeliano all’attacco di un Obama in forte crisi di credibilità e battuto alle elezioni di medio termine. E le cose tra Netanyahu e Obama stanno ora più o meno allo stesso modo.
Veniamo ora all’iniziativa palestinese che punta ad un riconoscimento unilaterale da parte dell’Assemblea dell’ONU di uno Stato palestinese (almeno in veste di osservatore), dal momento che a tutt’oggi, alle Nazioni Unite esiste una presenza palestinese definita come entità. Altra cosa sarebbe porre lo stesso problema al Consiglio di Sicurezza, ma in tal caso, invece che a una votazione, si andrebbe incontro ad un quasi certo veto statunitense. Ma non anticipiamo.
Per i più giovani, (pensate che le trattative per la nascita dello Stato palestinese sono cominciate nel settembre 1993!), ricorderò al volo pochissime cose, ma essenziali.
1) Il 27 novembre 1947, propose la creazione, in Palestina di due Stati: uno ebraico (56% del territorio al 33% degli abitanti), ed uno arabo (43% del territorio al 66% degli abitanti) e di un territorio sotto l’egida dell’ONU (Gerusalemme e Betlemme). I palestinesi non accettarono questa espropriazione. Seguì una guerra che portò lo Stato d’Israele ad impadronirsi del 78% del territorio e di parte di Gerusalemme, la Giordania del 21.5 (la Cisgiordania e l’altra parte di Gerusalemme) e l’Egitto dello 0.5 (la striscia di Gaza). Ai palestinesi toccò una pulizia etnica che coinvolse oltre 750.000 di loro.
2) Nel giugno del 1967 Israele (guerra dei sei giorni) si impadronì con la forza dei territori in mano a Giordania ed Egitto il residuo 22% della Palestina storica), conquistando inoltre il Sinai egiziano e le alture del Golan siriane. In un colpo solo, il piccolo Davide trasformò il suo Stato in uno Stato cinque volte più grande di quello stabilito dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1947. Certo … con l’aiuto di dio!
3) Tutti i territori conquistati nella guerra dei sei giorni furono dichiarati dalla risoluzione 242 dell’ONU dello stesso anno, territori illegalmente occupati e dunque da restituire. Lo Stato d’Israele ha sempre ignorato la 242, votata, (è bene ricordarlo) all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU !
4) In seguito, l’Egitto ha firmato un accordo di pace con Israele nel 1978 e nel 1982 ha recuperato il Sinai. Tutto il resto, in particolare i territori palestinesi illegalmente occupati, sono rimasti in mano israeliana che ha provveduto ad avviare una massiccia campagna di colonizzazione che ancora continua.
5) Nel settembre 1993, gli Accordi di Oslo che spostavano ad una trattativa bilaterale la soluzione del problema israelo-palestinese e dunque ad un patto leonino, quello che era invece un problema di diritto internazionale e che andava perciò risolto in sede ONU, la stessa sede che aveva dato vita alla nascita dello Stato d’Israele. Va detto che l’ONU non si è mai premurata di dare senso alla Risoluzione 181 (27 novembre 1947) facendo nascere anche il secondo Stato progettato. E così, nel 1993, i poveri palestinesi si trovarono a dover trattare con lo strapotente Stato israeliano e il suo padrino, gli USA, divenuti nel frattempo, con l’implosione dell’impero sovietico, i padroni del mondo.
Gli Accordi di Oslo prevedevano una trattativa bilaterale che doveva (avrebbe dovuto) portare, nell’arco di cinque anni, alla nascita dello Stato palestinese. E successo di tutto, e sono passati 18 anni, salvo che la nascita dello Stato palestinese, e né USA né Unione Europea si sono preoccupati mai di nulla! E stato allestito addirittura uno stonatissimo quartetto (USA, Russia, Unione Europea, ONU) per “risolvere” il problema, ma niente di niente! Ora, di fronte ad uno stallo evidente per tutto il mondo, l’ANP ha deciso di rivolgersi all’ONU, e il 23 settembre Mahmud Abbas presenterà al segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon la richiesta di ammissione della Palestina all’ONU come stato membro. Il segretario generale sottoporrà la richiesta al Consiglio di Sicurezza dove occorrono almeno 9 voti su 15 e nessun veto per l’approvazione.
Ma subito, tutti in coro, molti i belati in questo coro, europei e italiani in particolare (Frattini in testa !), hanno ripreso il tema della necessità della trattativa. Occorre trovare un accordo dicono, non si può procedere per fatti compiuti, ignorando ipocritamente che la storia dello Stato d’Israele è storia di fatti compiuti, tutti all’insegna della negazione del diritto internazionale ! E si sono fatti forti i tentativi affinché l’ANP receda dalla sua decisione.
Finora, 18 settembre 2011, non sembra essere questa l’intenzione dell’ANP, dimostratasi nel tempo assai acquiescente alla volontà (e ai ricatti) dello Stato d’Israele e degli USA. Infatti è di venerdì 16 la dichiarazione di Abu Mazen (nome di battaglia di Mahmud Abbas), presidente dell’ANP: “Vogliamo un seggio all’ONU e il pieno riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 con Gerusalemme-Est come capitale”.
Una tale richiesta mette in discussione tutta la politica israeliana dei 44 anni d’occupazione, l’abbandono della trattativa a due e il ritorno al diritto internazionale. Vediamo perché.
In primo luogo, viene apertamente messa in discussione la colonizzazione in Cisgiordania, dal momento che i 350.000 coloni si trovano proprio nei territori occupati illegalmente e lo Stato palestinese potrebbe, una volta avuto accesso alla Corte penale internazionale dell’Aja, ricorrere proprio a questa Corte per il comportamento d’Israele. Se si tiene conto poi che i coloni costituiscono un ampio serbatoio di voti per il Likud, il partito del primo ministro Netanyahu, ci si può rendere conto bene del perché Israele stia facendo di tutto per dissuadere Abu Mazen. E’ arrivato addirittura a dichiarare (evidente segno di disperazione), di essere disposto a un innalzamento dello status dell’ANP all’ONU, a patto che non sia equiparato a quello di uno Stato! Io chiedo uno Stato e tu che mi offri ? Uno status ! E poi, a che titolo ? O lo Stato d’Israele gestisce la volontà dell’Assemblea generale dell’ONU ? In realtà la proposta israeliana tende a far sì che la Palestina non acceda a tutte le istituzioni dell’ONU (Unicef, Fao, Unesco e, guarda un po’, la Corte di cui abbiamo appena parlato, che ha già ampiamente condannato il Muro della Vergogna e dell’apartheid, costruito da Israele per sottrarre terre ai palestinesi e trasformare la Cisgiordania in una serie di bantustan).
In secondo luogo, si dovrebbe tornare al consesso internazionale e al diritto internazionale per risolvere il problema, entrambi decisamente più favorevoli alla Palestina. Il consesso internazionale lo sarebbe da un punto di vista quantitativo, visto che sono più di 120 gli Stati favorevoli alla Palestina, mentre il diritto internazionale lo sarebbe da un punto di vista qualitativo, essendo questo decisamente più consono di una trattativa privata, di quel patto leonino cui ho già accennato, per difendere i diritti del popolo palestinese.
In terzo luogo infine, è l’unico modo per evidenziare il ricatto USA e tentare di sfuggirgli, mostrando che non si può essere schiavi dei 550 milioni di dollari l’anno, che l’Amministrazione statunitense versa all’ANP. Si potrà obiettare che sarebbe assai difficile se non impossibile per l’ANP tirare avanti, con quel codazzo di corrotti che si tira dietro !
Ed ora passiamo, con un po’ di suspense, alla situazione mediorientale, che delineerò soltanto, in stretta correlazione con l’iniziativa palestinese.

La situazione mediorientale

Del quadro mediorientale mi sono già occupato qualche giorno fa sempre su questo sito, in un articolo dal titolo Due bandiere. Qui mi limiterò ai rapporti Egitto-Israele e Turchia-Israele.
Cominciamo dall’Egitto. Estremamente soddisfatto di come teneva a bada l’Egitto da 32 anni, lo Stato d’Israele si è subito preoccupato della primavera arabo-egiziana. L’accordo di lunga durata con Mubarak veniva messo in discussione e la Fratellanza musulmana, tenutasi fuori dalla rivolta di febbraio, avrebbe potuto in un secondo tempo contestare gli accordi di pace Egitto-Israele. E non soltanto questi, dal momento che, nei confronti di Hamas e della striscia di Gaza, dal 2005 in poi c’è stata una vera e propria complicità israelo-egiziana nello strozzare più di un milione e mezzo di persone, costrette in uno spazio di circa 380 chilometri quadrati. Ho usato la parola strozzare a ragione. La striscia di Gaza stenta a respirare non potendo rifornirsi di nulla in forma legale, con l’Egitto che controllava fino al maggio scorso il confine sud mentre Israele controlla tutto il resto, compreso il mare della zona del mondo a più alta densità demografica.
Caduto Mubarak, diciamo meglio scivolato in una barella, sembrava che le preoccupazioni israeliane fossero esagerate, ma qualche cosa era successo. Ad esempio è venuto meno, o almeno si è ridotto l’assedio della Striscia da parte egiziana. Ma ecco che, il 19 agosto, cinque guardie di frontiera egiziane vengono uccise dalle forze speciali israeliane. La protesta è immediata, si moltiplicano le richieste, di espulsione dell’ambasciatore israeliano, di cancellazione degli accordi di pace (Camp David 1978) e di punizione degli autori dell’assassinio di frontiera. Poi, il venerdì 9 settembre, dopo un sit-in pacifico in piazza Tahrir per protestare contro la giunta militare c’è l’attacco all’ambasciata israeliana. Israele ha perduto il più forte alleato nel mondo arabo.
E veniamo alla Turchia. Per chi conosce un po’ di storia, è noto che fra arabi e turchi non sono mai corsi buoni rapporti, soprattutto dopo la Prima guerra mondiale. In quel frangente infatti, gli arabi, nella figura dello sceriffo della Mecca Hussein, si allearono ai britannici con la speranza (sottoscritta in una corrispondenza Hussein-Mc Mahon) di poter dar vita alla nazione araba. Ora è noto che gli arabi facevano parte dell’Impero ottomano e dunque si schierarono con i nemici dell’Impero, che si era alleato con la Germania. Acqua passata ?. Fino a qualche tempo fa, no ! E nessuno si era perciò meravigliato dell’accordo strategico Israele-Turchia del 1999 che aveva visto allearsi i due più forti eserciti del Medio Oriente, sia contro il mondo sunnita che il mondo sciita.
Col tempo le cose erano già un po’ mutate, ma il netto cambiamento si è avuto il 31 maggio 2010, quando la Freedom flotilla, che recava aiuti umanitari ai palestinesi, rinchiusi in quel carcere a cielo aperto che è Gaza, venne assaltata dalla flotta israeliana, in acque internazionali. Risultato: nove morti tra i passeggeri della Mavi Marmara, la nave turca che guidava il convoglio.
La Turchia aveva chiesto da subito le scuse dello Stato d’Israele, che le ha rifiutate il 24 agosto 2011. Pochi giorni dopo, La Turchia, ribadendo l’illegalità dell’azione delle forze speciali in acque internazionali del 31 maggio 2010, espelle l’ambasciatore israeliano e sospende tutti gli accordi militari con Israele. Da questo momento in poi è un susseguirsi di dichiarazioni di Erdogan, primo ministro turco, in particolare prima di recarsi al Cairo (13 settembre), tra cui:
“Israele non solo agisce con crudeltà nella Striscia di Gaza, ma anche con la irresponsabilità di un bambino viziato”.
Ora, va sottolineato che la Turchia è una nazione-chiave nella geopolitica del Mediterraneo. Una nazione che da sola ha un potere bellico decisamente superiore a quello d’Israele ed una popolazione 10 volte più numerosa. E’ un paese musulmano ed europeo e si definisce laico. Erdogan, il suo premier, non è arabo ma è convinto (e punta a convincere) che anche altri paesi del Medio Oriente farebbero bene a definirsi laici. Sembra proprio essere il leader necessario nel Medio Oriente, che può puntare ad un’alleanza Turchia-Egitto-Iran. E così, Israele ha perduto l’alleato più importante del Medio Oriente. Se si pensa che nella docile Giordania Israele ha provveduto ad evacuare l’ambasciata, sembra proprio che stia facendo di tutto per stravolgere in pochi giorni un equilibrio che durava da decenni !
Lascio ai lettori volenterosi di trarre le conclusioni a partire dall’esito della giornata del 23 settembre all’ONU. E da un assai probabile veto degli USA. Qualora ci fosse, certamente il povero Obama dovrà fare la sua fatica per sostenere la sua faccia tosta verso il mondo islamico !
Ma proprio in chiusura voglio lasciarmi con allegria con i miei lettori. Sentite questa, raccolta in chiusura di un dotto articolo di Antonio Cassese su la Repubblica del 15 settembre 2011, dal titolo “Solo una tappa ma fondamentale”. Cito: “…Ma Abbas sarebbe saggio se chiedesse il riconoscimento come Stato solo per la Cisgiordania (compresa Gerusalemme-Est), e non anche per la Striscia di Gaza, che è gestita da Hamas, un’organizzazione considerata terroristica dagli USA e da Israele, e con cui lo stesso Abbas è ai ferri corti. Questa soluzione potrebbe evitare di inasprire Israele e gli americani, e porre le basi per il riavvio del processo di pace” !
Che vuoi che siano un milione mezzo di palestinesi, se in questo modo si evita di inasprire Israele ?! Ma Cassese sei sicuro di avere la testa a posto o addirittura, di averla ?

E Gerusalemme-Est … agonizza!
(dicembre 2010)
di Giancarlo Paciello

1. Premessa
2. La colonizzazione dei territori occupati
3. Lo studio sulla colonizzazione di Gerusalemme-Est
4. La documentazione UE su Gerusalemme-Est
5. L’insabbiamento della documentazione
6. Conclusioni

1. Premessa

Era mia intenzione affrontare in questo saggio la colonizzazione di Gerusalemme-Est, senza per questo dimenticare la violenta e sempre operante colonizzazione, da parte degli israeliani, di tutta la Cisgiordania. E avevo anche deciso di non prendere in considerazione tutto il rumore propagandistico che si nasconde dietro le due formule ormai stantie (e soprattutto false!) “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati” dal momento che, vuote entrambe ormai, e da tempo, di contenuto, avrebbero finito col nascondere nella sostanza la barbarie che si sta consumando in Palestina da parte dello Stato d’Israele nei confronti di un popolo da quarantatré anni (!?) sotto occupazione militare.
Ma non ci sono riuscito! Troppo forte il rumore, troppo deformante la lettura dei fatti reali per non dover premettere qualcosa. L’ultima goccia, per un vaso che è traboccato almeno da 12 anni, è rappresentata da un evento molto recente, del 10 ottobre: l’approvazione della legge sul giuramento di fedeltà da parte del governo israeliano, avvenuto mentre riprendono le costruzioni di abitazioni nelle colonie, del tutto illegittime (sia le costruzioni sia le colonie!), e mentre, alla base della trattativa ripresa con l’ANP, Netanyahu ha posto il riconoscimento, da parte dei palestinesi, dello stato d’Israele come stato ebraico!
Ecco cosa ne pensa Gideon Levy, di quest’ultima goccia. L’articolo, apparso sul numero 868 (15-21 ottobre 2010) di Internazionale dal titolo assai significativo “La Repubblica ebraica d’Israele” è tratto da Haaretz, un coraggioso giornale progressista israeliano:
“Segnatevi la data. Il 10 ottobre è il giorno in cui Israele ha cambiato natura. E magari cambierà addirittura nome e si chiamerà ‘Repubblica ebraica d’Israele’, come la Repubblica islamica dell’Iran. D’accordo: la legge sul giuramento di fedeltà che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto approvare al governo e ora vuol far votare dal parlamento riguarda, o almeno così dice, solo i nuovi cittadini israeliani non ebrei.
Ma in realtà avrà effetti sul destino di tutti. Perché d’ora in poi vivremo in un nuovo paese etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista. E chi pensa che la cosa non lo riguardi si sbaglia. Già, perché in Israele c’è una maggioranza silenziosa che accetta tutto questo con un’allarmante apatia. Invece chiunque creda che dopo l’approvazione di questa legge il mondo continuerà a considerare Israele come una qualsiasi democrazia non ha capito cos’è questa legge: è un nuovo grave danno all’immagine d’Israele.
Il premier Netanyahu ha dimostrato di essere come Avigdor Lieberman, il suo ministro degli esteri e leader del partito di estrema destra Yisrael Beitenu. Il parttito laburista ha dimostrato di essere solo uno zerbino. E Israele ha mostrato la sua indifferenza. La diga è crollata, minacciando di annegare ogni traccia di democrazia, fino al punto in cui forse finiremo per ritrovarci in uno stato ebraico, la cui natura nessuno capisce veramente, ma che di sicuro non sarà democratico.
Si prevede che la Knesset, nella sua sessione invernale, discuta un’altra ventina di disegni di legge anti-democratici. L’Associazione per i diritti civili in Israele ha appena pubblicato una lista nera di provvedimenti che comprende: una legge sul giuramento di fedeltà per i parlamentari, una legge sul giuramento di fedeltà per i produttori cinematografici, una legge sul giuramento di fedeltà per le associazioni senza fini di lucro. E ancora: un provvedimento che vieta ogni proposta di boicottaggio e un provvedimento sulla revoca della cittadinanza. Siamo di fronte a un pericoloso balletto maccartista, da parte di parlamentari ignoranti che non hanno capito cos’è la democrazia.
Non è difficile giudicare il duo Netanyahu-Lieberman: sono due fanatici nazionalisti, quindi nessuno può pretendere che capiscano che democrazia non significa solo potere della maggioranza, ma anche – anzi soprattutto – diritti delle minoranze. E’ molto più difficile da capire, invece, l’inerzia dei cittadini. Le piazze di tutte le città israeliane avrebbero dovuto riempirsi di persone che rifiutano di vivere in un paese dove la minoranza è oppressa da leggi severissime come quella che le obbligherebbe a prestare un falso giuramento di fedeltà ad uno stato ebraico. E invece quasi nessuno sembra pensare che la cosa lo riguardi. E’ sbalorditivo.
Ci siamo dedicati per decenni al futile dibattito su cosa significhi essere ebrei. Un interrogativo che a quanto pare ci impegnerà ancora per molto tempo. Cos’è infatti lo “stato della nazione ebraica”? Appartiene forse agli ebrei della diaspora più che ai cittadini arabi d’Israele? E i cittadini arabi potranno decidere delle sue sorti, così che la nostra si possa chiamare ancora democrazia? Cosa caratterizza l’ebraicità? Le festività? Le prescrizioni alimentari della kasherut? L’aumento del peso politico dell’establishment religioso, come se non fosse già sufficiente a distorcere la democrazia?
L’introduzione di un giuramento di fedeltà allo stato ebraico ne deciderà il destino. E rischia di trasformare Israele in una teocrazia simile all’Arabia Saudita. E’ vero: per il momento giurare fedeltà allo stato ebraico è solo uno slogan ridicolo, e non esistono tre ebrei che riescano a mettersi d’accordo su come dovrebbe essere uno stato ebraico. Ma la storia ci ha insegnato che la strada per l’inferno può essere lastricata anche di slogan inutili. Nel frattempo, la nuova legge non farà altro che aggravare il senso di estraneità degli arabi israeliani e finirà per alienare le simpatie nei confronti d’Israele di settori ancora più vasti dell’opinione pubblica mondiale.Ecco cosa succede quando non si ha piena fiducia nella strada intrapresa. Solo questa sfiducia può indurre a presentare proposte di legge perverse come quella approvata il 10 ottobre.
Il Canada non sente il bisogno di che i suoi cittadini giurino fedeltà allo stato canadese, né lo richiedono altri paesi. Solo Israele. Questa decisione è stata pensata per provocare di nuovo la minoranza araba e spingerla a dimostrare ancora più distacco dal paese, così che un bel giorno venga finalmente il momento di disfarsene. Oppure per affossare la prospettiva di un accordo di pace con i palestinesi. Comunque sia, lo stato ebraico – come diceva Theodor Herzl – fu fondato nel primo congresso sionista, che si svolse a Basilea nel 1897. Il 10 ottobre invece è stata fondata l’oscurantista Repubblica ebraica d’Israele”.
Un articolo dignitosissimo che, se sottoscritto al 50% dalla classe politica italiana (di destra e di sinistra, centrista o radicale) mi riempirebbe veramente di gioia, ma temo che dovrò continuare a soffrire! Alla sordità della nostra classe politica si è contrapposto in questo frangente, un documento del Sinodo del Medio Oriente del 18 ottobre 2010.
Gli scopi del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente sono stati ribaditi dal relatore generale dell’assemblea, Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti, che ha tenuto la ‘Relatio post disceptationem’ nella quale ha riassunto quanto emerso negli interventi dei padri sinodali la scorsa settimana. “Confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità e rinnovare la comunione ecclesiale per offrire ai cristiani le ragioni della loro presenza, per confermarli nella loro missione di rimanere testimoni di Cristo”.
Naguib ha passato in rassegna la situazione dei cristiani in Medio Oriente evidenziando la necessità dell’essere missionari, e parlando di “laicità positiva”, ha ribadito che la “religione non deve essere politicizzata né lo Stato prevalere sulla religione. E’ richiesta una presenza di qualità perché possa avere un impatto efficace sulla società. Ciò che conta non è il numero di persone nella Chiesa ma che queste vivano la fede e servano onestamente il bene comune”.
“Per assicurare la sua credibilità evangelica – ha rimarcato il Relatore – la Chiesa deve trovare i modi per garantire la trasparenza nella gestione del denaro”.
Ripercorrendo le principali sfide che i cristiani devono affrontare, tra le quali i conflitti politici nella regione, il patriarca Naguib “pur condannando la violenza da dovunque provenga ed invocando una soluzione giusta e durevole del conflitto israelo-palestinese”, ha espresso la solidarietà del Sinodo al popolo palestinese, “la cui situazione attuale favorisce il fondamentalismo. Chiediamo alla politica mondiale di tener sufficientemente conto della drammatica situazione dei cristiani in Iraq. I cristiani devono favorire la democrazia, la giustizia, la pace e la laicità positiva. Le Chiese in Occidente sono pregate di non schierarsi per gli uni dimenticando il punto di vista degli altri”.
Nella Relatio il Sinodo condanna anche “l’avanzata dell’Islam politico che colpisce i cristiani nel mondo arabo” poiché “vuole imporre un modello di vita islamico a volte con la violenza e ciò costituisce una minaccia per tutti” e la limitazione dell’applicazione di diritti quali la libertà religiosa e di coscienza che comporta anche, ha ricordato il patriarca, “il diritto all’annuncio della propria fede”. Conseguenza delle crisi politiche, del fondamentalismo, della restrizione delle libertà è l’emigrazione, che pur essendo “un diritto naturale”, interpella la Chiesa che “ha il dovere di incoraggiare i suoi fedeli a rimanere evitando “qualsiasi discorso disfattista”. […] “Le nostre chiese rifiutano l’antisemitismo e l’antiebraismo”: riafferma il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente.
“Le difficoltà dei rapporti fra i popoli arabi ed il popolo ebreo sono dovute piuttosto alla situazione politica conflittuale. Noi distinguiamo tra realtà politica e religiosa. I cristiani hanno la missione di essere artefici di riconciliazione e di pace, basate sulla giustizia per entrambe le parti” ribadisce il testo che, parlando di dialogo interreligioso, ricorda le iniziative pastorali di dialogo con l’ebraismo, come ad esempio “la preghiera in comune a partire dai Salmi, la lettura e meditazione dei testi biblici”.
Per il Sinodo il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani “è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro”. E riprende le parole di Benedetto XVI a Colonia (2005) per riaffermare l’importanza del dialogo islamo-cristiano.
“Le ragioni per intessere rapporti con i musulmani sono molteplici, sono tutti connazionali, condividono stessa cultura e lingua, le stesse gioie e sofferenze. Fin dalla sua nascita l’Islam ha trovato radici comuni con Cristianesimo ed Ebraismo. Il contatto con i musulmani può rendere i cristiani più attaccati alla loro fede”. Per il Sinodo vanno, tuttavia, “affrontati e chiariti i pregiudizi ereditati dalla storia dei conflitti. Nel dialogo sono importanti l’incontro, la comprensione reciproca. Prima di scontrarci su cosa ci separa, incontriamoci su ciò che ci unisce, specie per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore”.
“Serve – si legge nella Relatio – una nuova fase di apertura, sincerità e onestà. Dobbiamo affrontare serenamente e oggettivamente i temi riguardanti l’identità dell’uomo, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità. La libertà religiosa è alla base dei rapporti sani tra musulmani e cristiani. Dovrebbe essere un tema prioritario nel dialogo interreligioso”.

2. La colonizzazione dei territori occupati

Dopo questa corposa premessa, entrerò nel merito dell’argomento che intendo trattare in questo che temo ormai non possa costituire un piccolo saggio. Partirò con il fornire l’elenco dei testi su cui ho basato questo lavoro. Sostanzialmente quattro, senza ovviamente citare quanto personalmente ho scritto in precedenza sull’argomento. Un volume dal titolo “Palestine, la depossession d’un territoire”, realizzato da Pierre Blanc, Jean-Paul Chagnollaud e Sid Ahmed Souiah, per la casa editrice L’Harmattan, del 2007, “Jerusalem le rapport occulté”, con sottotitolo Rapports 2005 et 2008 des diplomates de l’Union Européenne en poste a Jerusalem, con la presentazione di René Backmann, delle edizioni Salvator del 2009, “Gaza, le livre noir” che raccoglie rapporti e documenti di diverse associazioni, a cura di Reporters sans frontières, del 2009, il numero di Limes “Il buio oltre Gaza” del gennaio 2009 e il quaderno speciale di Limes del luglio 2010.
Il primo di questi testi mi è servito per sviluppare il paragrafo numero 3, il secondo per sviluppare i paragrafi 4 e 5 e gli altri due costituiscono un riferimento importante rispetto agli eventi riguardanti Gaza e il terrorismo di Stato israeliano, che avrei voluto trattare ma che ho deciso di non scrivere per le ragioni indicate all’inizio delle conclusioni.
In questo paragrafo ripercorrerò, sia pure sinteticamente, la colonizzazione dei territori occupati che ho trattato diffusamente sia in “Quale processo di pace?” del 1998, che ne “La nuova Intifada” del 2001. Sostanzialmente, cercherò di rendere ragione del perché, in un territorio totalmente abitato da palestinesi, quali la Cisgiordania e la striscia di Gaza, prima della guerra del 1967, fatta eccezione per Gerusalemme Ovest, si sia ormai giunti ad una presenza israeliana tra le 500.000 e le 550.000 persone, Gerusalemme Ovest inclusa.
Intendo inoltre mettere in evidenza un’esasperazione di lunga durata per il popolo palestinese, dovuta ad un articolato quanto iniquo sistema “legale” di sottrazione del territorio da parte dello Stato d’Israele, a danno dei palestinesi. Dopo aver analizzato le forme “legali” dell’espropriazione della terra, già in uso del resto dal 1948, procederò a quantificarla, a partire dal 1967. E, per quanto riguarda in particolare la colonizzazione di Gerusalemme-Est, sarà il testo di Chagnollaud a precisarla nei minimi particolari.
Occorre in ogni caso non dimenticare mai che si è trattato (e si tratta) di un processo di colonizzazione in piena regola, con un suo armamentario specifico di confische di terre, di distruzioni di case e di abbattimento di alberi, con la requisizione della terra, per motivi di sicurezza, come chiave di volta. Il mio timore è che oggi questo processo possa sfociare in una seconda e più feroce pulizia etnica. Si, è proprio ad una seconda Nakba che penso, quando vedo l’opera dell’esercito israeliano, sempre più vicino alla logica dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, la costruzione del Muro e quel carcere a cielo aperto, rappresentato dall’intera striscia di Gaza! Ho trattato con dovizia di particolari ne “La colonizzazione sionista della Palestina” i vari aspetti dello spossessamento dei palestinesi da parte dei sionisti prima e dello Stato d’Israele poi, ma ritengo importante riassumerne gli aspetti essenziali.

Le forme “legali” per l’appropriazione delle terre.

Dopo il 1967, è passata sotto il controllo israeliano, fra terre demaniali confiscate, recintate e soggette ad acquisto forzato, e terreni di privati, “neutralizzati” e resi indisponibili per lo sviluppo urbanistico palestinese, più del 55% della Cisgiordania. Ciò è avvenuto attraverso tre procedure fondamentali: l’assenza, l’acquisto di terre e l’esproprio. Ma prima di tutto, voglio analizzare l’elemento dominante nella requisizione delle terre:

La sicurezza

Si tratta del noto vessillo agitato, da sempre, dallo Stato d’Israele (e anche da altri, sia chiaro!), divenuto in Italia la bandiera dell’improntitudine. Le autorità israeliane hanno sempre sostenuto che le requisizioni di terre per la costruzione di colonie, (o per qualsiasi altro motivo), sono effettuate nel pieno rispetto della legalità. Cosa che si spiega facilmente, pensando al ruolo che la nozione di stato di diritto occupa sia nell’ideologia dominante sia nella realtà del sistema politico di questo paese. E poi, portare un dibattito di questo tipo sul terreno giuridico permette di superare più facilmente i problemi difficili ed imbarazzanti circa la vera natura di queste appropriazioni coprendole della neutralità apparente e della rispettabilità formale della norma giuridica.
Conviene perciò cercare di capire meglio cosa nasconde la nozione di legalità. Partendo, come criterio di differenziazione, da come vengono prodotte le norme, occorre distinguere la legalità internazionale e quella interna. Per definizione, la legalità internazionale esiste al di fuori di ogni Stato preso separatamente. Come qualsiasi altro attore del sistema internazionale, lo Stato d’Israele si trova in presenza di un complesso di regole giuridiche, che esiste indipendentemente da lui. Certamente, in qualche modo, può rifiutare di sottoscriverlo ma non avrà mai il controllo assoluto della sua elaborazione, ma gli resta, in ogni caso, il potere di interpretazione. Vediamo quali sono le tesi israeliane sulla Cisgiordania e Gaza, come sulla questione più specifica delle colonie.
In sostanza Israele, avanzando dei diritti legittimi sui territori occupati, sostiene di non occuparli (nel senso del diritto internazionale) ma soltanto di amministrarli in attesa di uno statuto definitivo da assegnare loro, al termine di un processo di negoziati. Le colonie poi, sempre secondo il governo israeliano, non contravvengono alla legalità internazionale, nonostante la posizione adottata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione del 1° marzo 1980, secondo la quale esse costituiscono “una flagrante violazione della Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra del 12 agosto 1949…”.
Altra cosa invece è la legalità interna che il governo può non solo interpretare, ma anche, e questa è la differenza fondamentale, creare come vuole, in funzione degli obiettivi politici che intende perseguire, a condizione tuttavia di tenere conto della giurisprudenza di una giurisdizione del tutto indipendente: la Corte Suprema d’Israele. La requisizione di terre nei territori occupati, ma non annessi, è avvenuta essenzialmente per motivi di sicurezza. La base giuridica di queste operazioni si trova nelle ordinanze promulgate dai britannici all’epoca del Mandato, e che sono rimaste in vigore dopo la creazione dello Stato d’Israele. In particolare l’articolo 125 delle Defence Emergency Regulations del 1945 che permette al Comandante regionale di vietare l’accesso in qualsiasi zona che si trovi sotto il suo controllo, per motivi di sicurezza.
Da allora, più nessuno può penetrarvi, senza aver ottenuto preliminarmente un’autorizzazione rilasciata dall’autorità competente. Queste pratiche non sembrerebbero in ogni caso contrarie al diritto internazionale, dal momento che, in questo ambito, le regole del diritto hanno soprattutto per obiettivo di proteggere l’interesse dello Stato occupato e quello dei singoli. Per questo vietano qualsiasi forma di sostituzione di proprietà e non ammettono che un uso provvisorio di esse. E dunque l’occupante non può essere che l’amministratore e l’usufruttuario dei beni dello Stato occupato. La confisca dei beni dei privati è rigorosamente proibita dall’articolo 46 del Regolamento dell’Aja (1907) che recita:
“L’onore e i diritti della famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata così come le convinzioni religiose devono essere rispettate”. Sono lecite soltanto le requisizioni poiché, entro certi limiti, rappresentano delle “prestazioni forzate in natura o servizi forzati, richiesti unicamente per i bisogni dell’esercito d’occupazione”.
Questo è un processo cominciato fin dai primi anni dell’occupazione; prima in forma occulta, trasformando l’installazione militare insensibilmente in insediamento civile. Poi, soprattutto dopo la guerra del 1973, in modo sempre più esplicito. Da quel momento in poi la colonizzazione è apparsa in tutta la sua forza e la sua ampiezza. Facciamo un passo indietro: sia la Gran Bretagna che la Giordania avevano avviato il censimento sistematico di tutti i titoli di proprietà. Ma questa operazione, indispensabile oltre che complessa, si basava sull’effettività del possesso e dell’uso, che ciascuno poteva provare in diversi modi. Proprio per questo, un tale processo, estremamente lento, era ben lungi dall’essere stato completato nel 1967, e dunque la più gran parte delle terre non era ancora stata censita. Uno dei primi provvedimenti delle autorità israeliane d’occupazione fu quello di bloccare brutalmente queste attività di censimento anche nei settori dove era praticamente terminato. Una decisione di una portata politica importantissima. A questo proposito Dany Rubistein, noto giornalista israeliano, su Davar del 20 marzo 1981, scrisse: “minore è il numero di beni immobili registrati al catasto e di terreni la cui proprietà è chiaramente definita, più numerose sono le aree suscettibili d’essere proclamate beni dello Stato”.

L’assenza

Alla conquista del 1967, seguì subito dopo l’insediamento di un governatore militare nei territori occupati. Il Comandante regionale (nome ufficiale del governatore), pubblicò, il 23 luglio 1967, l’ordinanza n° 58, riguardante lo statuto della proprietà degli assenti. Per questa ordinanza, l’assente rispondeva ad una definizione molto estensiva. Si trattava in sostanza di chi, allo scoppio della guerra, nel giugno 1967, aveva lasciato la Cisgiordania. Così era già avvenuto nel 1950, quando la Knesset, il parlamento israeliano, adottò un provvedimento della stessa natura per tutte le proprietà abbandonate nel 1948 dai palestinesi. Il governatore sosteneva che l’obiettivo dell’ordinanza fosse quello di proteggere i beni di coloro che erano stati costretti a fuggire allo scoppio della guerra.
Vediamo come funziona quest’ordinanza. Il Comandante regionale nomina un “Guardiano della proprietà abbandonata”, cui compete il ruolo di prendere in carico l’insieme di questi beni. All’inizio la semplice assenza del proprietario non basta per trasferire il controllo dei beni al Guardiano. È necessario anche che non ci sia nessun parente prossimo, un membro della famiglia ad esempio, in grado di assicurarne la gestione secondo il diritto vigente. Non si tratta dunque di un vero e proprio trasferimento di proprietà: il Guardiano agisce in qualità di depositario della proprietà dell’assente fino al suo ritorno e deve anche conservare per il proprietario, tutti i redditi eventuali che può aver realizzato, diminuiti delle spese di gestione. Se il proprietario ritorna, il Guardiano gli deve restituire l’esercizio di tutti i suoi diritti. Ma tra il dire e il fare…
Esistono due questioni di fondo, che portano ad una realtà sensibilmente diversa da quella del discorso giuridico ufficiale. Infatti il Guardiano dispone in pratica di un potere discrezionale per quanto riguarda l’uso dei beni abbandonati. Nessuna transazione è valida senza la sua autorizzazione e nessun articolo limita le sue possibilità d’azione. In tali condizioni, il ruolo effettivo del Guardiano è anche quello di contribuire con efficacia agli insediamenti israeliani soprattutto nella valle del Giordano dove si trovano numerosi beni abbandonati, dal momento che questo settore è stato il più coinvolto dall’esodo della popolazione nel 1967. Ed eccoci così ad uno dei problemi chiave del conflitto israelo-palestinese e cioè quello del Ritorno. E qui il cerchio si chiude. Il contadino palestinese che ha attraversato il Giordano nel 1967, si è “sistemato” provvisoriamente a qualche decina di chilometri dalle sue terre, ormai occupate da una colonia israeliana. È perciò considerato assente sul piano giuridico poiché gli è vietato l’attraversamento del Giordano in senso inverso. Vi sembra un problema giuridico? Ma nemmeno per sogno! Questo è il risultato di un rapporto di forze. Il responsabile delle colonie israeliane della valle del Giordano si esprime a questo proposito in modo molto chiaro:
“Qui, nella valle, noi lavoriamo su migliaia di dunum che appartengono – perché non dirlo? – a degli arabi. Arabi, per la maggior parte assenti, abitanti di Nablus o di Tubas… che sono fuggiti durante la guerra del 1967. Queste persone non possono tornare in Giudea-Samaria perché i loro nomi figurano su di una lista ai posti di frontiera sui ponti [sul Giordano]”. E così, questa legislazione ha generato situazioni kafkiane. Il caso classico? Un proprietario che, rientrato sulle sue terre senza autorizzazione, finisce davanti ad un tribunale, accusato d’effrazione di proprietà di un assente!

Gli acquisti di terre

Per affrontare quest’altra questione, è necessario distinguere fra le istituzioni ufficiali autorizzate ad effettuare transazioni fondiarie e i privati che all’inizio, fino al 1979, non ne avevano diritto. A partire dal 1967, l’amministrazione del demanio (Israel Land Administration, I.L.A.) e il Fondo Nazionale Ebraico (K.K.L.), hanno concepito ed attuato una politica sistematica di acquisti di terre nei territori occupati. Queste due istituzioni hanno potuto così acquistare importanti superfici, soprattutto nella regione di Gerusalemme. Le decisioni sugli acquisti vengono prese dai due direttori delle istituzioni appena citate, che definiscono le loro scelte in funzione di dati forniti da una rete d’informazioni molto estesa, riguardante diversi paesi stranieri, dove si trova la parte più consistente dei venditori potenziali. L’operazione viene condotta in porto tramite la società Hemnutah, la cui creazione risale all’epoca del Mandato britannico (1938) quando il suo compito era quello di favorire il trasferimento dei capitali degli ebrei tedeschi. Le transazioni vengono fatte nel più gran segreto non solo per evidenti ragioni politiche ma anche perché sono molto forti le minacce di rappresaglie nei confronti dei proprietari palestinesi. Fino al 1979, gli acquisti di terre da parte di privati erano vietati nonostante le molteplici pressioni esercitate sui vari governi.

L’esproprio

Non parliamo qui di un generico spossessamento ma di quello effettuato per motivi di interesse generale. È in questa prospettiva limitata che le autorità israeliane intendono collocarsi, quando sottolineano l’indispensabile rispetto dei principi fissati dal diritto internazionale. E così l’esproprio è lecito per la realizzazione di obiettivi di interesse pubblico nelle forme previste dal diritto locale e con la condizione del pagamento di un’indennità al proprietario. La legislazione giordana, relativa alla procedura d’esproprio, era stata concepita in modo da non limitare in alcun modo la sua attuazione. La nozione d’interesse pubblico viene definita dalla constatazione della volontà del potere politico. Un interesse pubblico è, a termini di legge, “qualsiasi interesse che il governo, con il consenso del Re, ha deciso di considerare come pubblico”. Le autorità israeliane ironizzano su questa formulazione per poi precisare che, nonostante l’ampiezza discrezionale, le autorità militari utilizzano la procedura d’esproprio in maniera molto restrittiva. (Quando si dice la democrazia!). E mettono in evidenza come tale procedura non sia mai stata impiegata per insediamenti civili nei territori occupati. Si è fatto ricorso ad essa, soltanto per servire l’interesse generale in senso stretto. Per la costruzione e l’ampliamento di strade o la costruzione di edifici pubblici, ad esempio!
Si ritrova perciò un dato evidente: in ogni situazione d’occupazione il diritto è sempre al servizio di una politica. Se la nozione stessa di Stato di diritto è centrale in Israele, essa non ha quasi più senso aldilà della linea verde. L’elemento dominante della colonizzazione sionista dopo la guerra del 1967 è caratterizzato proprio dal fatto di verificarsi in una società sotto occupazione e dunque completamente sottomessa all’arbitrio dello Stato d’Israele. In queste condizioni, l’occupazione non riguarda soltanto questo o quell’aspetto della vita quotidiana, ma è invece al centro di tutto, in tutti i settori d’attività. Costituisce un sistema globale coerente, che non lascia sfuggire nessun dettaglio al suo controllo, neppure il colore delle targhe delle automobili.
Dopo il 1967, strettamente connesso con il processo di colonizzazione continuò il processo di espropriazione della terra. In questo ambito è praticamente impossibile disporre di cifre precise. Bisogna distinguere fra terre coltivate e terre riservate alle colture o agli insediamenti futuri. Una fonte israeliana parla, per tutti i territori, di 118 chilometri quadrati (11.800 ettari, pari a 118.000 dunum) di terre ebraiche coltivate. La superficie delle terre confiscate, in vista di utilizzo futuro da parte dei coloni, sarebbe salita a 3.000 chilometri quadrati, di cui 1.200 sul Golan, e 1.800 in Cisgiordania, ovvero il 31,5% del suolo. Anche se fino al 1977 queste terre “redente” si trovavano soprattutto ad oriente, e si trattava di zone aride e spopolate, la violenza inflitta alla popolazione araba non era per questo meno severa: ad esempio, il livello dell’acqua si abbassò pericolosamente in alcuni villaggi arabi della valle del Giordano a causa della creazione di pozzi artesiani negli insediamenti israeliani vicini!
Evidenti gli effetti nefasti della colonizzazione israeliana sulla popolazione palestinese, i cui mezzi di sussistenza tradizionali erano progressivamente minacciati e che veniva sottoposta ad un processo di proletarizzazione. La perdita di terre coltivate spingeva infatti i contadini palestinesi ad abbandonare l’agricoltura e così molti di loro andavano a lavorare come manodopera non qualificata nell’economia israeliana. L’acquisto di terre assunse proporzioni ancora più allarmanti dopo il 1977, e riguardò molto di più campi e piantagioni palestinesi, esasperando la tendenza ad una compartimentazione dei centri di popolazione locale.
Se è vero che la colonizzazione non aveva raggiunto, nel 1977, proporzioni irreversibili, è altrettanto vero che nella pratica non c’è stato nessun aspetto della politica colonizzatrice successiva di Begin che non avesse avuto un precedente nel periodo laburista, in particolare nella sua ultima fase. Dopo il 1967, a tutto il 1985, passano sotto diretto controllo israeliano, fra terreni demaniali, confiscati, recintati, e soggetti ad acquisto forzato, un totale di 2.268.500 dunum, pari al 41% dell’intera Cisgiordania. Poiché le autorità israeliane “neutralizzano” altri 570.000 dunum, dichiarandoli indisponibili per lo sviluppo urbanistico palestinese, complessivamente l’area soggetta a requisizioni o restrizioni ammonta a 2.838.000 dunum pari al 52% della Cisgiordania. Nella striscia di Gaza, con la stessa logica, nascono 16 insediamenti ebraici. Nei primi dieci anni di occupazione nascono 24 insediamenti. Dopo ne sono sorti altri 118, distribuiti in modo da impedire qualsiasi futuro ritiro di Israele dalla Cisgiordania, se non dalla striscia di Gaza.

Numero di coloni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza

Insieme con gli insediamenti, è cresciuto il numero dei coloni. Dalla tabella si vede come questi siano passati da 1.182 nel 1972 a 27.500 nel 1983. Se si confrontano i dati del periodo 1967-77 con quelli relativi al periodo successivo (1977-1983), quando il Likud è al governo, appare evidente una rapida crescita del numero dei coloni che passano dai 5023 del 1977 ai 27.500 di cui si parlava prima. Il partito della “Grande Israele”, che punta ad una Palestina tutta ebraica si fa più forte e prepotente. Con l’avvento della destra al governo, sono nate in Israele due tesi. La prima punta ad utilizzare i territori come “materiale” di scambio, per la pace. La seconda, oltranzista, basandosi sulla potenza militare d’Israele e sull’incondizionato appoggio degli Stati Uniti (anche nel Medio Oriente la “guerra fredda” funziona!), intende appropriarsi di tutta la Palestina del Mandato, e oltre.
“La colonizzazione della terra d’Israele è un diritto e un aspetto determinante della sicurezza del paese che sarà difeso ed esteso”.
È ancora e sempre questo, uno degli obiettivi principali del programma di governo presentato l’8 giugno 1990. Il che significa che l’insediamento di colonie di popolamento, strumento essenziale della politica di colonizzazione, continuerà a svilupparsi, a danno dei palestinesi, con lo spossessamento continuo della loro terra. Il governo di Unità nazionale cade il 15 marzo 1990. Tre mesi dopo nasce un nuovo governo, diretto sempre da Shamir, con la partecipazione di tre formazioni di estrema destra. Si tratta del governo più a destra, più estremistico e più legato agli ambienti religiosi della storia d’Israele. Ariel Sharon, ministro degli Alloggi, dirige questa nuova tappa della colonizzazione. Fino a quel momento s’intende! Ma poiché il peggio non è mai morto, dopo la parentesi laburista, nel maggio 1996, nasce il governo Netanyahu. E poi il governo Barak e poi il governo Sharon e poi il governo Olmert …
Ufficialmente, non viene creato nessun nuovo insediamento, per tenere buoni gli Stati Uniti, ma i fatti sono diversi. Nascono nuove colonie ma questi insediamenti vengono mascherati da artifici amministrativi come dimostra il rapporto del Dipartimento di Stato: “[...] costruendo su quei siti che, da un punto di vista amministrativo, dipendono da un insediamento già esistente, anche se si trovano in realtà a distanza di chilometri. E così si vedono nascere cantieri in massa su località abbandonate da tempo, che ampliano i limiti di colonie già esistenti [...]. E così si capisce perché la presenza israeliana nei Territori occupati continua a crescere a un ritmo altissimo. In meno di due anni, Ariel, il secondo insediamento della Cisgiordania per dimensioni, mette in cantiere 1.400 appartamenti; il più grande, Ma’ale Adumim, vicino Gerusalemme, ne costruisce attualmente un migliaio” (“Report on Israeli Settlement Activity in the Occupied Territories”, consegnato al Congresso americano il 20 marzo 1991).
Nel 1991, circa 200.000 coloni risiedevano in circa 200 colonie (197.000 abitanti in circa 150 colonie in Cisgiordania, e di questi 120.000 insediati nella città di Gerusalemme-Est annessa nel 1967, e 3.000 nelle 15 colonie a Gaza). Secondo uno studio del Dipartimento di Stato americano del 20 marzo 1991, essi rappresentavano il 13% della popolazione totale dei territori occupati, mentre il 50% delle terre della Cisgiordania erano state confiscate per la colonizzazione. A Gaza, un terzo del territorio abitabile era riservato ai coloni. Il movimento cresce dopo il 1990, con 10.000 nuovi arrivati in un anno. La natura degli insediamenti è ancora più significativa, se si pensa che non si tratta più della creazione di piccole unità che raggruppano alcune centinaia di persone ma di veri e propri centri urbani, il più vicino possibile ai grandi agglomerati israeliani. Non si tratta più di modeste colonie a vocazione rurale. L’ambizione è quella di costruire delle cittadine.
E’ importante ricordare la classificazione ufficiale delle zone d’insediamento. Queste si dividono in tre settori, a seconda dell’importanza della domanda di abitazioni: forte, media o debole. La zona di forte domanda comprende tutti i luoghi situati al massimo a mezz’ora da Tel Aviv e a venti minuti da Gerusalemme. Quella di domanda media comprende, a parte la precedente, tutte le località situate al massimo a cinquanta minuti da Tel Aviv e a trentacinque da Gerusalemme. La terza infine comprende il resto della Cisgiordania. In funzione di questa divisione, i grandi progetti si trovano concentrati nella zona di forte domanda. E così al centro di questo settore viene costruito Ariel, il più vasto insieme urbano, concepito per accogliere più di 100.000 abitanti. L’obiettivo politico implicito è quello di fare di questa zona una specie di cerniera che fissi strettamente la Cisgiordania a Israele. Sono questi gli aspetti più importanti per cercare di capire il “senso” del processo di pace.
Riepilogando, nel periodo (1967-1977) i laburisti hanno dato la priorità assoluta a Gerusalemme. Si sono annessa non soltanto la parte araba della città, ma anche importanti superfici di terre prese dai villaggi dei dintorni per creare un vasto agglomerato urbano. All’interno di questi nuovi limiti, sono stati costruiti grandi insiemi di immobili riservati alla popolazione ebraica a Nord, a Est e a Sud (Ramot, Talpiot, Gilo…).In alcuni anni i rapporti demografici sono stati rivoluzionati con tutte le conseguenze sociologiche e politiche che si possono immaginare (nel 1976 le statistiche ufficiali parlano di una popolazione di 264.000 ebrei e di 92.000 arabi). Oltre a Gerusalemme, i governi laburisti hanno avuto tre priorità: la valle del Giordano, il Golan e il Sinai; queste tre regioni hanno una caratteristica comune: sono poco popolate; il Sinai perché è un deserto, le altre due perché la maggior parte degli abitanti che vi risiedevano sono fuggiti durante la guerra del 1967. Gli insediamenti realizzati nelle zone a forte densità di popolazione palestinese furono poco numerosi, il più significativo di questi fu quello di Kiriat Arba alle porte di Hebron.
A partire dal 1975, sotto il governo Rabin, il processo si è accelerato ed esteso. Oltre alle sue iniziative, il Primo Ministro lascia fare al Gush Emunim la cui politica consiste nel creare insediamenti dappertutto, in particolare al centro della Cisgiordania. Come a Sebastia (vicino Nablus), dove il Gush Emunim riesce a spuntarla nell’installazione importante che intendeva realizzare. Nel periodo (1977-1984), con il governo del Likud vengono realizzati numerosi insediamenti. Il suo governo sviluppa quelli esistenti e soprattutto ne crea di nuovi. A questo proposito la formulazione del suo programma è molto semplice: “il territorio di Cisgiordania e di Gaza appartiene al popolo ebraico, è quindi legittimo creare degli insediamenti che dovranno permettere l’installazione di centinaia di migliaia di Ebrei”. Tuttavia, a causa dei negoziati avviati a Camp David, questa politica non troverà immediata applicazione sul terreno, si dovrà attendere il 1980 e soprattutto il 1981, data in cui Begin vince per la seconda volta le elezioni legislative, perché il processo di colonizzazione conosca una spettacolare accelerazione.
Con il Likud ormai la priorità delle priorità è la Cisgiordania (la Giudea e la Samaria); mentre i laburisti, in dieci anni, avevano creato una decina di siti, il governo del Likud ne costruisce più di una cinquantina in cinque anni. Se alla fine del 1976, c’erano circa 5.000 abitanti ebrei in Cisgiordania (senza contare Gerusalemme), nel 1983 sono vicini a 30.000. Tutti i dati statistici evidenziano l’importanza di questo salto qualitativo: un numero molto più grande di colonie e di abitanti, proprio nel cuore della Cisgiordania, rispetto all’epoca dei laburisti.
Nel periodo (1984-1988) i laburisti e il Likud si ritrovano in una situazione d’equilibrio elettorale tale da doversi rassegnare a formare un governo di unità nazionale, dopo aver tentato invano, per diverse settimane, di mettere in piedi delle coalizioni omogenee. Per giungere a questa formula, si sono fatte concessioni da una parte e dall’altra soprattutto a proposito degli insediamenti. Su questo punto, l’accordo di governo ha cercato di gestire le posizioni delle due parti in modo che ciascuna possa dare l’impressione di non aver ceduto nulla di essenziale. In applicazione di questo accordo è stata annunciata la creazione di sei nuove colonie; verranno installate in Giudea-Samaria al limite dei settori inclusi nel piano Allon, cosa che permette al Likud di affermare che il governo continuerà a creare insediamenti “dappertutto” e al partito laburista di mostrare di restare fedele alla sua posizione basata sulla ricerca di un compromesso territoriale. Nella pratica il ritmo della colonizzazione si è un po’ rallentato perché il governo non attribuiva a questo problema il ruolo prioritario che aveva in precedenza ma anche perché il numero delle persone che desideravano installarsi al di là della linea verde diminuivano sensibilmente.
Nel luglio del 1988, in una intervista alla rivista Nekuda, una delle figure di punta del movimento di colonizzazione, il rabbino Levinger, faceva un bilancio in questi termini: “Dopo le elezioni del 1984, siamo stati tra coloro che chiedevano un governo di unità nazionale. Noi lo abbiamo fatto perché l’unità della nazione è un principio non meno importante del processo d’insediamenti; per preservare questa unità abbiamo accettato di sacrificare l’insediamento di nuove colonie… Anche se la nostra influenza su un (tale) governo era inferiore rispetto a quella su di un governo diretto dal Likud”.
Che questa politica non avesse avuto più, dopo il 1984, l’intensità che l’animava all’inizio, non significa però che si sia veramente indebolita. Il risultato? Dal 1983 al 1986 il numero delle colonie è cresciuto del 118%, quello degli abitanti del 45 % e l’investimento pubblico del 56 %. Alla vigilia dello scoppio dell’Intifada, il processo di colonizzazione è un fatto politico che secondo molti osservatori ha tutte le possibilità di svilupparsi ancora, anche se si svolge ad un ritmo meno sostenuto che in precedenza. Nel suo rapporto del 1987, Meron Benvenisti valuta che ci sono 65.000 ebrei in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme) e 2.700 nella striscia di Gaza e che fino alla metà degli anni 1990 il numero annuale di nuovi arrivati sarà dell’ordine di 10.000; tutta questa popolazione sarà concentrata negli insediamenti urbani situati attorno alle metropoli di Tel Aviv e Gerusalemme, a danno degli insediamenti rurali. Se non si sono raggiunti gli obiettivi ambiziosi sognati dagli ispiratori di questo processo, né gli scopi del piano progettato dal Likud, a medio termine, l’installazione di 100.000 coloni sembra già di un’importanza considerevole.
Per rendersene conto non basta del resto far riferimento soltanto alle statistiche sulle persone insediate; occorre prendere in considerazione altre due dimensioni essenziali. La prima attiene all’ampiezza delle superfici delle terre confiscate o requisite per questi insediamenti e più in generale per tutta una serie di motivi a cominciare da quelli invocati dalla sicurezza militare: più della metà della Cisgiordania si trova così oggi sotto il controllo assoluto d’Israele. È in questo senso che è giusto parlare di una vera appropriazione dello spazio con le molteplici conseguenze che ne derivano. Ciò significa soprattutto che queste terre sono state prese a degli uomini che ci vivevano e che in molti casi le coltivavano. Essi sono stati espulsi dal loro universo familiare, allontanati dai loro utensili di lavoro, dalla loro terra d’origine cui sono ormai costretti a girare intorno come se fossero degli stranieri. Non c’è da meravigliarsi, in queste condizioni, se la battaglia per la terra sia divenuta l’ossessione di molti; la posta in gioco si rivela fondamentale perché rinvia all’essenza stessa del conflitto che oppone i Palestinesi agli Israeliani.
La seconda dimensione riguarda le profonde trasformazioni che questi insediamenti inducono nella vita quotidiana. Per un palestinese dei territori è impossibile circolare senza passare vicino ad una colonia o senza sentirne la pesante presenza. In alcuni settori, come a Hebron per esempio, la tensione che ne consegue è difficilmente sopportabile e talvolta, in questa o in quella occasione, degenera in scontri. In ogni caso il rapporto di forze non può essere analizzato soltanto in termini di numeri. Anche se è assai minoritario in rapporto alla popolazione locale, il colono vuole sempre dimostrarsi come il padrone delle zone presso le quali abita. Ciò si materializza in particolare con il portare sistematicamente le armi che, soltanto a lui, esprime una realtà: l’atteggiamento arrogante di colui che esibisce il suo fucile sulla spalla basta per far capire molte cose. Non bisogna credere, tuttavia, che tutti i coloni siano degli ideologi determinati, costi quel che costi, a battersi in favore della grande Israele; questi ci sono, ovviamente, ma non rappresentano, secondo un’inchiesta effettuata nel 1983, che una minoranza valutata al 17% dell’insieme. Gli altri hanno scelto di vivere nei territori occupati in virtù dei prezzi molto competitivi degli appartamenti e della qualità della vita che si trova in regioni situate a qualche decina di minuti da Gerusalemme o da Tel Aviv.
Ciò non toglie che, al di là di queste constatazioni, la volontà politica affermata una volta da alcuni attivisti si sia ormai tradotta nei fatti, al punto tale da essere riuscito a creare una stretta rete d’influenze e d’interessi, capace di pesare sulle scelte fondamentali dello Stato. I sostenitori della Grande Israele attraverso lo sviluppo massiccio di insediamenti nei territori palestinesi occupati non erano infatti, trentanove anni fa, che dei gruppi relativamente periferici. Poi il loro progetto è stato facilitato dalle esitazioni e dalle contraddizioni del partito laburista. Così il Likud ha conosciuto uno sviluppo spettacolare che ne fa oggi una delle due grandi formazioni politiche del paese, cosa del tutto impensabile alla fine degli anni ‘60. In altri termini, il problema degli insediamenti non è più appannaggio di gruppi della società civile con scarsi addentellati politici; ormai, da trent’anni, esiste un’efficace articolazione fra questi gruppi di pressione e potenti formazioni politiche.
Ci si rende conto perciò di quanto l’appropriazione dello spazio costituisca, ad un tempo, fattore decisivo di esasperazione della popolazione palestinese e ostacolo importante a qualsiasi ricerca di una soluzione politica negoziata. Ecco perché, lo ripetiamo ancora una volta, questa occupazione non è un’occupazione come le altre.
Dopo gli accordi di Oslo, non solo la colonizzazione non ha subito alcun rallentamento ma addirittura c’è stata una forte accelerazione sia sotto i governi laburisti (Rabin, poi Peres ed infine Barak) sia, ovviamente, sotto i governi Netanyahu, Sharon e Olmert. Tutto è avvenuto come se “la corsa contro il tempo”, non fosse mai cessata, per accumulare fatti compiuti su fatti compiuti, e trovarsi così in posizione di vantaggio, all’apertura dei negoziati sullo statuto finale, previsti per il 4 maggio 1996 (pensate, più di quattordici anni fa!) Con il ritorno dei laburisti al governo nel 1992, sembrava che le cose stessero cambiando. Nel luglio del 1992, Rabin decise il congelamento della colonizzazione. Sembrava! Questa decisione bloccò soltanto i nuovi progetti, ma non fermò quanto era già avviato, in particolare tutta la colonizzazione intorno a Gerusalemme, e tutta la costruzione della rete stradale, decisiva nel vasto processo di appropriazione della terra. Rabin, in realtà, non ha mai cercato di bloccare la colonizzazione, ha soltanto dovuto tener conto dei vincoli imposti dagli americani al governo Shamir, secondo i quali la concessione di garanzie bancarie a prestiti privati, per l’ammontare di più di 20.000 miliardi di lire, era condizionata dal blocco della colonizzazione.
E così, il numero di coloni, dal 1992 al 1996, è passato da 100.000 a 151.000. Il ministro per le Abitazioni in carica nel governo Rabin (poi ministro della difesa nel governo Sharon) Benyamin Ben-Elieser, così commentava allora il suo lavoro: “Dal momento in cui ho il completo consenso del Primo ministro, io costruisco tranquillamente senza far rumore … Per me è importante costruire con grande slancio a Givat Ze’ev, Maale Adumim e Beitar… colonie che fanno parte di Gerusalemme. Per me ciò che conta è costruire, costruire e ancora costruire…”.
Per i dirigenti laburisti, il programma è chiaro: moltiplicare i fatti compiuti nelle zone che si vogliono conservare, mentre si negozia molto lentamente l’accordo di ripiegamento rispetto a quelle zone che si intendono evacuare comunque lentamente, per aver il massimo tempo possibile per controllare la doppia operazione. Facciamo ora un altro esercizio. Confrontiamo la carta di Oslo II con quelle dei piani Allon e Drobless. Si capisce, abbastanza presto, che si fondano su alcune logiche comuni. La carta di Oslo II evidenzia la divisione della Cisgiordania in tre zone. Non si infastidisca il lettore. È vero, per alcuni versi ci stiamo ripetendo, ma vedrà, che alla fine dell’esercizio, avrà un quadro più ampio, e non soltanto tecnico degli accordi di Oslo II.
La zona A riguarda le città palestinesi, da anni ormai circondate dalle colonie e tornate nel 2002 sotto il controllo dell’esercito israeliano. La zona B riguarda i villaggi, dove vive la massima parte dei palestinesi, e che sono assai spesso separati gli uni dagli altri da colonie o da strade di aggiramento, meglio sarebbe dire di accerchiamento. La zona C rappresenta tutto il resto del territorio, dove si trovano tutte le colonie, dalla più grande alla più piccola, oltre alle basi militari.
Quando il Likud, nel maggio del 1996, a sorpresa torna al governo, si trova in una situazione radicalmente diversa dal 1992. Dal momento che gli accordi di Oslo sono anche il portato della comunità internazionale e poi c’è stato il riconoscimento reciproco tra israeliani e palestinesi, la sua scelta pragmatica è quella di fare di tutto per piegare le cose nella direzione desiderata. La posizione di Benyamin Netanyahu viene formalizzata nel piano “Allon plus” (1997). Ironia delle parole: il piano va oltre, plus, un altro piano, fuori uso dal 1975, opera dei laburisti!
Quattro sono i punti essenziali di questo piano.
In primo luogo, l’instaurazione della sovranità israeliana su di una fascia larga 15 chilometri (dal Giordano alla cima delle montagne ad ovest).
In secondo luogo, l’estensione dei limiti territoriali di Gerusalemme con l’annessione a nord delle colonie di Givat Ze’ev, a est di Maale Adumim e a sud del blocco Etzion.
In terzo luogo, la rottura della continuità territoriale palestinese con l’attivazione di colonie ebraiche sotto la sovranità israeliana e la creazione di quattro corridoi di larghezza indeterminata (?!) che colleghino Israele alla valle del Giordano secondo l’asse est-ovest.
In quarto luogo, la rottura della continuità territoriale per la popolazione palestinese che si trova a cavallo della linea verde, secondo la logica del piano Seven Stars. La maggior parte delle 140 colonie (esclusa Gerusalemme-Est) con i suoi 160.000 coloni saranno annesse ad Israele. Di fatto, si tratta dell’annessione di circa il 60% della Cisgiordania con il controllo totale delle risorse in acqua. Quando Netanyahu lascia il governo, dopo aver fatto ricorso alle elezioni anticipate per bloccare i negoziati con i palestinesi e portare avanti, indisturbato, la colonizzazione, il bilancio “coloniale” è impressionante. Migliaia di appartamenti costruiti e migliaia di nuovi coloni insediati, in particolare nel settore della Grande Gerusalemme.
È la volta di Barak come Primo ministro. Questi, alla fine del mese di giugno del 1999, s’impegna a garantire la sicurezza dei coloni e a fornire loro “i servizi necessari alla vita quotidiana e al loro sviluppo”. E, dopo quella data, la colonizzazione prosegue a ritmo sostenuto. Ma il quadro della colonizzazione sarebbe sicuramente sbiadito, se non si parlasse specificamente di Gerusalemme, del resto al centro della nuova Intifada, chiamata dai palestinesi intifada Al-Aqsa, (La Lontana), dal nome di una delle moschee della Spianata, e terzo luogo sacro dell’Islam, che si trova appunto a Gerusalemme.Lo statuto finale della città di Gerusalemme ha rappresentato (e rappresenta) uno dei temi, forse il tema più importante, che divide, da sempre, israeliani e palestinesi.
Vista l’importanza di Gerusalemme, ripercorreremo la sorte di questa città, (che in ogni caso riprenderemo al paragrafo 3) per grandi linee, dalla fine del Mandato alla guerra dei sei giorni del 1967, per poi analizzarne le modifiche in termini di distruzioni e di colonizzazione apportate dalla potenza occupante, assai poco interessata al diritto internazionale e alle risoluzioni dell’ONU. Data di partenza, il mese di maggio del 1947, quando all’ONU, inizia il dibattito sul piano di spartizione della Palestina del Mandato. Gerusalemme è una città di 165.000 abitanti che si estende su di un’area di circa 30 kmq. È costituita dalla Città Vecchia, (poco più di un chilometro quadrato, densissimo di valori però per le tre religioni monoteiste), e da numerosi quartieri ebraici della Città Nuova, sviluppatisi, dopo il 1860.
Gli ebrei costituiscono il 60% degli abitanti. Del resto, dal 1875, sono sempre stati in maggioranza a Gerusalemme.Il 29 novembre 1947, l’ONU vota, come è noto, la spartizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico ed uno arabo. Gerusalemme dovrà costituire un corpus separatum internazionalizzato che comprende, dal punto di vista dello spazio, “la municipalità attuale di Gerusalemme, i villaggi e centri circostanti, il più orientale dei quali sarà Abu Dis, il più meridionale Betlemme, il più occidentale Ein Karim (compreso l’agglomerato di Motsa) e il più settentrionale Shu’fat” L’allargamento tende a realizzare un relativo equilibrio dal punto di vista demografico, con 100.000 ebrei e 105.000 arabi (di cui 65.000 musulmani e 40.000 cristiani).
Ovviamente, i primi essenzialmente concentrati nella Città Nuova ad ovest, dove si trovavano anche molti arabi. I secondi nella Città Vecchia e nei quartieri extra muros ad est, con qualche sacca ebraica, il Monte Scopus, in particolare. Tutti i villaggi intorno, Betlemme compresa, erano abitati da arabi. Dal punto di vista amministrativo, Gerusalemme doveva finire:“sotto un regime speciale amministrato dalle Nazioni unite… Lo statuto sarà in principio in vigore per un periodo di dieci anni… al termine del quale… le persone aventi la residenza nella Città saranno allora libere di far conoscere con un referendum i loro suggerimenti relativi ad eventuali modifiche al regime della Città”. In seno all’Agenzia ebraica, la spartizione venne celebrata come una grande vittoria. Totale fu il rifiuto nel mondo arabo.
Il Vaticano, che aveva avuto un ruolo importante nel progetto, risultava di fatto il vero beneficiario, perché quello statuto gli avrebbe permesso di esercitare un’influenza decisamente superiore a quella che avrebbe potuto esercitare nel caso in cui Gerusalemme fosse diventata una città araba o ebraica. Dopo la guerra 1948-1949, oltre a non nascere lo Stato arabo, di Gerusalemme come corpus separatum nemmeno l’ombra. Le disposizioni, mai annullate, non verranno mai applicate. Mistero onusiano!
Dal settembre 1948 in poi, i sionisti assumono una posizione molto rigida. Si oppongono all’internazionalizzazione di Gerusalemme, preferendo accordarsi con Abdallah di Giordania su di una tacita spartizione, da verificare successivamente con le armi! In realtà, Gerusalemme sarà sì un corpus separatum, ma soltanto nel senso che invece di essere un corpo a sé stante, sarà un corpo fatto a pezzi! Nascono così, Gerusalemme-Ovest, in mano agli israeliani e Gerusalemme-Est in mano ai giordani (e anche questa in fondo è una spartizione…). Gli israeliani, fin dal gennaio del 1950, dichiareranno Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. I giordani, rimasti padroni della Città Vecchia, cacceranno gli ebrei che vi abitavano. La frontiera è un dato di fatto militare, e cioè la linea di demarcazione definita all’atto del cessate il fuoco del novembre 1948, la famosa linea verde.
Subito dopo il 1967, il Vaticano non proporrà più l’internazionalizzazione, ma uno statuto internazionale garante dei Luoghi Santi. Con la vittoria del 1967, gli israeliani si impadronirono dell’intera città e, il 27 giugno dello stesso anno, estesero ad essa legge, giurisdizione ed amministrazione dello Stato d’Israele. Scomparve così la municipalità palestinese, in funzione dal 1948. E, fin da subito, iniziò la colonizzazione della Gerusalemme araba, di Gerusalemme-Est, che comportò la distruzione, via bulldozer, del quartiere maghrebino, (prima ancora che la guerra finisse), per far posto ad un enorme piazzale, antistante il Muro del Pianto, oltre che la restaurazione del quartiere ebraico.
Ne fecero le spese più di 5000 palestinesi, espulsi dalla Città Vecchia. A questa “pulizia etnica” seguì un’astuzia amministrativa. I confini municipali della città furono arbitrariamente dilatati fino a comprendere un territorio dodici volte più grande, per quanto riguardava Gerusalemme-Est (da 6 a 72 kmq) e, complessivamente, 108 kmq, l’equivalente della superficie di Parigi! L’astuzia consistette nel realizzare un’operazione chirurgica sul territorio, che comportò l’esclusione di importanti comunità palestinesi dalla vita di Gerusalemme, pur comprendendone le loro proprietà! In questo modo, si evitò di aggiungere 80.000 palestinesi alla già numerosa popolazione araba di Gerusalemme, gettando le basi, allo stesso tempo, per una successiva confisca delle proprietà private dei palestinesi. Tale confisca si è puntualmente verificata, e su quelle terre sono state costruite colonie ebraiche, veri e propri quartieri residenziali come Gilo ad esempio, chiamate eufemisticamente in Israele “dintorni”, quartieri limitrofi. In trentatré anni, (dal 1967 al 2000), più di 27.000 dunum (27 kmq, pari a più di quattro volte le dimensioni di Gerusalemme-Est) di proprietà di palestinesi subiscono la stessa sorte: confiscati per “pubblica utilità”. Peccato che l’aggettivo “pubblica” è riferito soltanto agli ebrei, quanto al sostantivo “utilità” è poi riferito alla costruzione di colonie residenziali o di colonie tout court, che hanno accerchiato le zone abitate dai palestinesi nella città. Ai palestinesi di Gerusalemme-Est è toccata anche la brutta sorte di diventare poveri, Infatti, oltre ad essere stati espropriati e soppiantati dagli israeliani, hanno anche perduto terre per un valore di due miliardi di dollari USA (più di 4.000 miliardi di vecchie lire italiane).
Vediamo ora più in dettaglio la cronologia delle confische e degli espropri. La parte più cospicua è avvenuta agli inizi degli anni Settanta ed Ottanta ma confische ed espropri sono continuati negli anni Novanta e continuano ancora …
Per riassumere: nei mesi di gennaio e di aprile del 1968, furono confiscati 4.800 dunum; nell’agosto del 1970, 13.800; nel marzo 1980, 4.500; nell’aprile del 1991, 1840; nell’aprile del 1992, 2400 dunum vennero definiti green zone (zona verde) e dunque non utilizzabili dai palestinesi per costruire. Con il completamento di Har Homa (Jabal Abu Ghneim per i palestinesi), la più provocatoria iniziativa di Netanyahu, i 200.000 palestinesi di Gerusalemme-Est sono circondati da tutte le parti. Si tratta di una serie di fatti compiuti che hanno ignorato, anzi hanno approfittato del processo di pace, in aperta violazione del diritto internazionale e delle Risoluzioni dell’ONU. Oltre alle Risoluzioni 242 e 338, riguardanti l’insieme dei Territori occupati, ci sono altre specifiche Risoluzioni che condannano esplicitamente l’attività colonizzatrice israeliana a Gerusalemme-Est. In particolare la 252 del maggio 1968, la 279 del 15 settembre 1969, la 446 del 22 marzo 1979, la 476 del 30 giugno del 1980 e la 478 del 20 agosto del 1980. Della Risoluzione 476 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, riportiamo qui di seguito un estratto.
“Deplorando che Israele continui a modificare il carattere fisico, la composizione demografica, la struttura istituzionale e lo statuto della Città santa di Gerusalemme.Gravemente preoccupato per le misure legislative adottate alla Knesset israeliana per modificare il carattere e lo statuto della Città santa di Gerusalemme.1. Riafferma la necessità imperiosa di mettere fine all’occupazione prolungata dei territori arabi occupati da Israele dopo il 1967 ivi compresa Gerusalemme […]3. Conferma di nuovo che tutte le misure e le disposizioni legislative e amministrative prese da Israele, la potenza occupante, per modificare il carattere e lo statuto della Città santa di Gerusalemme non hanno alcuna validità in diritto e costituiscono una violazione flagrante della convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra […]6. Riafferma la sua determinazione, nel caso in cui Israele non si conformi alla presente risoluzione, di prendere in esame in conformità alle pertinenti disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, i mezzi pratici per assicurare l’applicazione integrale della presente risoluzione”.
Ho usato spesso l’espressione “fatto compiuto”. Se qualcuno non sapeva cosa fosse, ora lo sa! In realtà, non c’è da meravigliarsi che Israele non abbia rispettato le Risoluzioni dell’ONU relative a Gerusalemme. Dal momento che non ne ha rispettata nessuna, compresa quella che ha dato vita allo Stato d’Israele, e non intende nemmeno rispettare la Risoluzione 194 relativa al diritto al ritorno dei rifugiati. In fondo, a che serve questo diritto internazionale, quando si dispone di un padrino come gli USA, maestro nell’infischiarsene e di un contesto internazionale prono ai piedi del padrino? Una volta l’Italia veniva accusata di essere favorevole ai palestinesi, ora questo rischio non lo corre più, dal momento che, con l’Europa, ignora la tragedia palestinese ha dato credito al macellaio di Sabra e Chatila, che bombardava tutti i giorni le misere case e le caserme palestinesi, (tutte piene di terroristi, intenti a confezionare ordigni micidiali), circa la sua buona volontà di riprendere le trattative, come continua a farlo con Netanyahu, sempre che cessi la violenza!
Vorrei invitare i lettori che hanno figli piccoli a non parlare loro di Esopo e comunque non della favola del lupo e dell’agnello! La pace in Israele/Palestina potrebbe esserci dal tempo, se il processo di pace fosse stato inteso, nel rispetto del diritto internazionale e delle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come un processo graduale di restituzione dei Territori occupati, come un calendario di crescita di fiducia tra due popoli separati dalla nakba del 1948 e non invece come una serie di concessioni territoriali fatte dal più forte per legittimare la conservazione delle colonie, la rinuncia, da parte araba, a Gerusalemme-Est ed infine alla banalizzazione del problema dei rifugiati, come ricongiungimento di pochi nuclei familiari e senza nemmeno l’ammissione della ormai conclamata, anche da parte di storici israeliani, quelli “nuovi”, dell’espulsione di 750.000 palestinesi durante la guerra del 1948.
Saltiamo ora al 27 febbraio 2000, quando, all’Università palestinese di Bir Zeit, una sassaiola, opera di studenti, una sorta di mini intifada, costrinse ad una fuga ingloriosa Lionel Jospin, reo di aver accusato Hezbollah di terrorismo. Soltanto qualche mese prima, un ufficiale superiore dell’esercito israeliano aveva rilasciato al quotidiano Ha’aretz (La Terra, in ebraico), una dichiarazione di tutt’altro avviso:“Hezbollah non è un’organizzazione terroristica, ma un movimento di liberazione nazionale, che conduce operazioni di guerriglia. In queste condizioni, non abbiamo nessuna possibilità di farcela. Dobbiamo avere il coraggio di guardare la verità in faccia: noi non abbiamo più niente da fare in questo paese [il Libano]”.
Il 22 maggio Israele riceve un saggio della disfatta, con l’arrivo di Hezbollah alla frontiera. Viene liberato simbolicamente il villaggio di Hula. I mercenari si squagliano a tempo di record. Migliaia di libanesi ritornano in dodici villaggi abbandonati. L’aviazione israeliana fa cinque morti e più di trenta feriti.Gli Hezbollah, oltre ad avere una “fede incrollabile”, hanno in realtà goduto di un sostegno nell’opinione pubblica libanese che va ben oltre la comunità sciita da cui sono nati. Del resto, le “Brigate libanesi della resistenza”, cui diedero vita nel 1998, raggruppano oggi combattenti di tutte le confessioni, sunniti, drusi ed anche cristiani. Proprio per rafforzare il carattere nazionale del movimento lo sceicco Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah dal 1992, si era opposto alla nascita di “brigate arabe”, come è avvenuto altrove, con il risultato che la maggioranza della classe politica libanese ha visto di buon occhio il movimento di resistenza. Ed ora Hezbollah spera forse in una pace totale, che porti ad un Libano liberato dall’occupazione israeliana ma anche siriana.
Nel frattempo israeliani e palestinesi si ritrovano nella base aerea americana di Bolling, vicino Washington, per cercare di definire, prima della fine di maggio, le grandi linee di un accordo globale che dovrebbe concludersi al massimo entro il 13 settembre 2000. Ma, nonostante l’impegno del mediatore americano Aaron Miller, che ha messo a disposizione delle due delegazioni anche la sua casa, le cose non vanno molto avanti. Si parla molto, ma Israele continua a non voler riconoscere la sua responsabilità sulla Nakba e, per quanto riguarda Gerusalemme Est, ripropone la solita autonomia amministrativa, mentre i palestinesi vogliono entrare nel vivo del contenuto dell’accordo quadro, e chiedono di definire con precisione le frontiere, lo statuto di Gerusalemme, la dimensione delle aree militari poiché definiti questi punti in termini percentuali, il resto dovrà essere trasferito a loro, con relativa scomparsa delle zone B e C.
Arafat, il 7 aprile, definisce i negoziati di Bolling una “perdita di tempo”.Sono giorni, questi, in cui si va sempre più deteriorando il rapporto tra Arafat e Barak. Quest’ultimo, mentre si prepara a partire (9 aprile) per Washington per incontrare Clinton, trova il modo di dichiarare che il blocco di colonie intorno a Gerusalemme (Maale Adumim, Pisgat Zeev, Ghilo e Ramot) resterà comunque sotto la sovranità israeliana. Dal Cairo, Arafat esprime un giudizio durissimo nei suoi confronti, sostenendo che è peggiore di Netanyahu. Ma il giorno dopo, Saeb Erekat parla dell’apertura di trattative segrete in Svezia. Per la Palestina c’è il presidente del parlamento, Ahmed Korei con Hassan Asfur, per Israele, Shlomo Ben-Ami e Gilad Sher, avvocato assai vicino a Barak.
Il 21 maggio, Barak intima ad Arafat di scegliere tra il negoziato e l’intifada e interrompe le trattative di Stoccolma. La situazione in Libano precipita. L’opinione pubblica palestinese rimane colpita dalla precipitosa ritirata dell’esercito israeliano. Molti confrontano ciò che Hezbollah ha ottenuto con la forza con quanto Arafat ha perso con i negoziati. Per Arafat, in visita a Madrid il 26 maggio, si tratta “innanzitutto di una vittoria della pace”, replicando così a chi chiama alla lotta armata. In una intervista alla televisione israeliana, forse per riesumare la 242, sostiene una tesi ardita e, a nostro modesto parere, totalmente errata, e cioè che Barak ha ordinato il ritiro non “a causa di Hezbollah” ma “per rispettare la risoluzione 425″!
La risposta del capo di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, non si fa attendere. Per lui, il 29 maggio annuncia la nascita di “una nuova era”, sostenendo che gli avvenimenti libanesi “dimostrano che la resistenza è la sola via possibile. Quale che sia l’equilibrio tra le forze, la determinazione di un popolo prevale sempre sulla potenza militare”. Sicuramente giusta l’analisi rispetto al Libano, purtroppo soltanto affermazione di principio rispetto ad una situazione, quella palestinese, non immediatamente riconducibile, per motivi storici, politici e militari alla situazione libanese. Questo sempre a nostro modesto parere.Gli avvenimenti precipitano. IL 4 giugno l’OLP prepara la proclamazione dello Stato palestinese, prevista per il 13 settembre. La Albright è a Ramallah il 6, per incontrare Arafat. L’incontro è burrascoso. Alla conferenza stampa, il ministro degli esteri americano annuncia il ritorno dei negoziati a Washington, dopo il fallimento di Eilat e il ricevimento di Arafat alla Casa Bianca, il 14 giugno. In sostanza, il 6 giugno, ad Arafat venne proposto-imposto un vertice a tre a Washington. Arafat riteneva che le condizioni non fossero mature non avendo gli israeliani mantenuto gli impegni presi ad Eilat e in quello stesso giorno, nel corso del pranzo in onore degli americani, a Ramallah, Arafat si rivolse così alla Albright:
“Signora segretario di Stato, se convocate un vertice e questo fallisce, la speranza dei nostri popoli di vedere instaurare la pace diminuirà ancora. Sarebbe saggio non deludere ancora questa speranza”.
La Albright non tenne conto dei dubbi espressi, nella riunione pomeridiana, anche dai negoziatori palestinesi, incontrò la sera Barak e, dopo essersi consultata con i suoi collaboratori, comunicò a Clinton di ritenere opportuna la convocazione del vertice. Cominciò, con la decisione della Albright, un tour de force per Arafat. Il 15 giugno incontra di nuovo Clinton, che dice di “voler finire il lavoro puntualmente” e s’impegna a far rispettare la scadenza finale del 13 settembre. Subito dopo, sospese i negoziati di Washington, dopo l’annuncio israeliano della liberazione di 3 (tre) prigionieri al posto di 230 e del trasferimento all’ANP dell’1% del territorio, quale ultimo ritiro dalla Cisgiordania, mentre l’accordo interinale prevedeva il 10% prima del 23 giugno.
Il 7 giugno Madeleine tornò in Israele per preparare il vertice a tre a Camp David, per i primi di luglio, continuando ad ignorare il parere dei palestinesi circa il sicuro fallimento dello stesso. A portare all’incandescenza il clima dovuto alle forti pressioni e alle reiterate inadempienze contribuì non poco l’intervento del procuratore israeliano Eliyakim Rubistein. Costui giudicò le risoluzioni 242 e 338 non applicabili, in quanto, all’atto dell’adozione delle risoluzioni, l’ANP non esisteva e che in esse, i palestinesi venivano menzionati soltanto come rifugiati! Bella mossa! E così viene di nuovo a galla la tesi del “buon cuore israeliano”. Secondo la quale, lo Stato palestinese non ha fondamento nel diritto internazionale, ma soltanto nella benevolenza israeliana, che occorre sapersi guadagnare. Si sta creando il contesto del vertice.
Americani a premere, al servizio delle tesi israeliane o servendosi delle stesse, sui palestinesi, perché accettino ancora una volta, ma questa volta senza più poter recriminare, un accordo che cancelli la Nakba, la realtà araba di Gerusalemme e anche la perdita definitiva di una parte del loro territorio residuale, per poter dar vita (sarebbe vita?) ad uno Stato di Palestina senza reale sovranità.Clinton chiama di nuovo Arafat, che lo invita a convocare negoziati preparatori e non un vertice. Il 4 luglio, Clinton, “portavoce” di Barak, dice ad Arafat che il Premier israeliano è contrario a negoziati preparatori, ma che ha “cose nuove da proporre”. Arafat non si arrende, mette di nuovo in guardia sui rischi di un fallimento, ma Clinton ormai è finito nella trappola dei “funzionari dell’impero” che lo hanno convinto della possibilità di incastrare i palestinesi! Partono gli inviti per l’undici luglio, a Camp David”.Come sono andate le cose dopo, e come vanno oggi lo sappiamo. Ma l’11 settembre diventa sempre di più una scusa che un evento epocale!

3. Lo studio sulla colonizzazione di Gerusalemme-Est

Lo studio che viene qui proposto (pagg. 85-108 del testo richiamato all’inizio del paragrafo 2), è opera di Jean Paul Chagnollaud, cui devo moltissimo sia per quanto riguarda le mie conoscenze sulla colonizzazione sionista in Palestina sia per quelle relative all’Intifada del 1987. Io penso che sia lo studioso che con maggiore sistematicità abbia affrontato il dramma del popolo palestinese, restando sempre lontano da un coinvolgimento ideologico. Forse è questa la ragione per cui i suoi testi non hanno trovato nessun editore in Italia! Sono perciò entusiasta di poter proporre, ancora una volta le sue argomentazioni e, in questo caso, un testo essenzialmente suo. Qualsiasi modifica fatta da me, nel quadro della traduzione è dovuta soltanto al mio tentativo di rendere più chiaro il testo ad un pubblico non sempre esperto della materia trattata. Spero di essere riuscito nell’intento, senza però aver tradito l’autore. Ed ora diamo la parola a Jean Paul!

Il processo di annessione unilaterale di Gerusalemme

Quando si arriva a Gerusalemme provenendo dall’aeroporto di Tel Aviv, si incontra prima la sua parte Ovest, abitata da israeliani e strutturata in vasti quartieri moderni con scuole, ospedali, grandi alberghi, ristoranti come all’incirca in qualsiasi altro agglomerato al mondo. Poi si arriva vicino alla città Vecchia, circondata dalle sue imponenti mura, attraversate da alcune grandi porte, le più importanti delle quali sono quella di Jaffa a ovest e quella di Damasco a est. Discendendo dall’una all’altra, si scopre rapidamente la parte Est della città, abitata da palestinesi, con la sua principale arteria, Salahedin street. In pochi minuti si potrebbe pensare di aver individuato le tre componenti principali di questa città. In realtà, il visitatore non ha visto quasi niente, dal momento che la città si estende in molteplici direzioni per inglobare zone assai differenti e soprattutto assai contrastanti. Si colgono almeno due grandi tipi di urbanizzazione.
Nella parte centrale di Gerusalemme-Est (da nord a sud) vasti complessi abitativi costruiti dagli israeliani, che non sono altro che colonie come ce ne sono tante altre nei Territori occupati e che sono riservati alla popolazione ebraica israeliana. Queste costruzioni moderne, abitate ciascuna da migliaia di persone, godono di un’ottima manutenzione, sono servite da buone strade e da buoni servizi di trasporto.
Alla periferia, ci sono alcuni villaggi o quartieri palestinesi che fanno pensare di trovarsi in una città di quello che veniva chiamato una volta terzo mondo, dove le strade sono quasi impraticabili, dove spesso si incontra, qui e là, spazzatura venuta non si sa da dove, che il vento sparpaglia in tutte le direzioni. Nessuna traccia di commercio o di servizi o quasi. Questi posti, che rassomigliano a terre di nessuno, sono abitati da migliaia di uomini e donne dagli abiti malandati, dalle automobili ammaccate e dagli sguardi tristi, che danno un’idea di quanto debba essere difficile la loro vita quotidiana, soprattutto dopo la costruzione del Muro della vergogna, che li pone in situazioni impossibili.
E tuttavia, questi spazi così diversi sono sotto l’egida della stessa municipalità creata dopo la guerra del 1967 dal governo che aveva ben presto decretato l’annessione de facto della città, dotandola di limiti municipali che andavano ben al di là di quelli esistenti sotto il regime giordano. Quelli cioè della Gerusalemme storica. Questa configurazione apparentemente caotica non deve nulla al caso. Al contrario, essa è il risultato di una politica coerente e sistematica il cui obiettivo è chiarissimo: fare in modo che Gerusalemme occupi il più vasto spazio possibile con il minor numero di palestinesi, per realizzare il sogno di una Gerusalemme “riunificata”, popolata da una larga maggioranza ebraica. Gerusalemme costituisce senza alcun dubbio il cuore del conflitto israelo-palestinese, poiché vi si trovano condensate tutte le sue dimensioni storiche, politiche, demografiche e religiose. Per gli uni come per gli altri, essa deve essere la capitale del loro Stato, cosa che, sia pure formalmente, la comunità internazionale continua a rifiutare allo Stato d’Israele (che l’ha proclamata unilateralmente dal 1950), e che gli israeliani rifiutano ai palestinesi che non hanno nemmeno più, da tempo, il diritto elementare di accedervi, se non sono residenti.
Durante la guerra del 1948, per conquistare questa città popolata da 205.000 abitanti (circa 100.000 ebrei e 105.000 palestinesi, di cui 60.000 musulmani e 45.000 cristiani), ci fu uno scontro durissimo tra l’esercito israeliano e la Legione araba giordana, e al cessate-il-fuoco le due forze in campo si trovarono faccia a faccia vicino alle mura della città Vecchia, che rimase sotto la dominazione giordana, mentre gli israeliani si installarono in tutti i quartieri della parte Ovest della città compresi quelli interamente popolati da palestinesi, costretti a lasciare le loro case. Questo flusso di profughi costituì una parte importante dell’esodo palestinese del 1948 e la prima tappa dell’attivazione del progetto israeliano di giudaizzazione della città, mentre alcune migliaia di ebrei che risiedevano nella città Vecchia subirono lo stesso destino, raggiungendo la parte Ovest della città. Negli anni successivi, la giudaizzazione di Gerusalemme-Ovest è avvenuta senza un’importante opposizione, poiché i palestinesi l’avevano abbandonata per esiliarsi a qualche chilometro dall’altra parte, o addirittura a poche centinaia di metri per quelli che, ad esempio, abitavano nei pressi della Porta di Jaffa e che si installarono nella città Vecchia.
Ma è con la guerra del giugno 1967 che la situazione precipita poiché, da quel momento, Israele controlla tutta la Palestina compresa perciò Gerusalemme. Immediatamente, la città viene percepita da una grandissima maggioranza di israeliani in maniera del tutto differente dal resto dei territori palestinesi appena conquistati. Se i vari governi succedutisi hanno esitato sulla politica da tenere rispetto ai nuovi territori, questo non è avvenuto in relazione a cosa era necessario decidere per Gerusalemme. Da allora, e senza che questo fatto abbia avuto mai una smentita, esiste un forte consenso tra i partiti di destra e di sinistra per farne una grande metropoli dove gli ebrei siano largamente in maggioranza.
Tutto questo trova d’altronde una prova immediata il 27 giugno 1967, con un voto della Knesset che stabilisce: “La legge, la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato si estenderanno a qualsiasi porzione di Eretz Israel indicata per decreto governativo”. Molto rapidamente vengono insediati a Gerusalemme-Est numerosi servizi amministrativi municipali e, qualche anno più tardi, nel luglio 1980, la Knesset adotta una legge fondamentale secondo la quale “Gerusalemme riunificata è la capitale d’Israele… (e) la sede del presidente dello Stato, del governo e della Corte Suprema”.
Questo vasto progetto, che s’inquadra pienamente nella logica sionista, è oggi, nel 2010, praticamente realizzato. Esso è costituito da quattro grandi articolazioni strettamente intrecciate le una con le altre e cioè l’estensione del perimetro dello spazio della città e fuori della città; la chiusura della città con un immenso muro di cemento che la separa dall’habitat palestinese, integrandola con l’hinterland israeliano; lo spossessamento fondiario dei palestinesi, con relativa costruzione di vaste colonie ebraiche; il logoramento sistematico degli abitanti palestinesi di Gerusalemme.

L’estensione del perimetro dello spazio della città e fuori della città

Questa estensione si è svolta in tre grandi tappe strettamente legate tra di loro anche se, ogni volta, di natura differente. La prima è consistita in una modifica unilaterale del perimetro originario della città, La seconda si è svolta all’esterno dei nuovi limiti con la creazione di una nuova colonia a meno di dieci chilometri da Gerusalemme. La terza ha riguardato una “nuova” forma di gestione del territorio, in realtà un progetto di sviluppo di una vasta metropoli: la “grande Gerusalemme”.

La modifica unilaterale dei limiti municipali

Sulla base di un testo di legge votato dalla Knesset nel mese di giugno 1967, il governo ampliò in misura spropositata il perimetro urbano della città, ben al di là dei limiti urbani di Gerusalemme-Est e dunque al di là della linea verde che costituiva la linea di demarcazione relativa alla guerra del 1948. Questa iniziativa unilaterale va considerata di fatto come una forma mascherata di annessione di nuovi territori assolutamente contraria al diritto internazionale, come ha ribadito il Consiglio di sicurezza dell’ONU con la risoluzione 252 del 1968. Per attivare questo progetto, era necessario confiscare terre arabe, evitando il più possibile d’integrare, con la stessa operazione, nuove popolazioni nella città che non potevano che essere palestinesi o giordane. Servivano le terre ma non i loro abitanti e di conseguenza ecco i nuovi limiti municipali che fanno lo slalom tra questi vincoli demografici per giungere ad una nuova geografia della città particolarmente sinuosa, ricca di gomiti e di incavi, stirandosi verso sud e allungandosi lungo la verticale verso il nord, quasi fino alla periferia di Ramallah. Una metafora sessuale, ispirata alla forma assunta dai nuovi confini municipali, fa pensare ad un enorme fallo che stupra il cuore della Palestina. La superficie di Gerusalemme-Est passò così da 6 (sei) chilometri quadrati (che comprendevano anche il chilometro quadrato relativo alla città Vecchia) a circa 70 (settanta) kmq. Sommata alla parte Ovest della città, la superficie totale di Gerusalemme risulta essere di 108 kmq, abitata da 266.000 persone, per tre quarti ebree.

La costruzione di Ma’ale Adumim

La colonia di Ma’ale Adumim, situata a pochi chilometri da Gerusalemme in direzione di Gerico, ha conosciuto all’inizio una storia assai contrastata, prima che il Likoud, arrivato al governo nel 1977, non la classificasse in zona di sviluppo prioritario, dopo averla legalizzata, in modo da permetterle di beneficiare di sovvenzioni per gli alloggi, di riduzioni di tasse e di prestiti agevolati. Dopo dieci anni, questa nuova colonia, consacrata ufficialmente nel 1992 prima città ebraica dei territori, è in piena espansione con circa 15.000 abitanti. Nel 1994, e cioè quando erano stati da poco firmati gli accordi di Oslo, il governo di Yitzhak Rabin, che intendeva continuare in maniera intensiva la politica dei fatti compiuti sul terreno, malgrado i negoziati con i palestinesi, prese la decisione di allargarne i limiti molto ampiamente, aggiungendo nuove riserve fondiarie, di fatto terre espropriate a cinque villaggi: El-Eisawiyeh, El-Tour, El-Eizariyeh, Anata e Abu Dis. Si trattò di una sorta di misura conservativa, che permise ad Israele di prendere tempo e di conservare per un uso successivo queste terre, dal momento che all’epoca, non fu presa alcuna decisione concreta.
Occorrerà infatti aspettare il 2005 perché il governo di Ariel Sharon decida di utilizzare questa riserva fondiaria per lanciare uno dei più grandi progetti di costruzione di colonie. Una prima fase, 3.500 nuovi alloggi e l’installazione del quartier generale della polizia per la Cisgiordania. I piano in questione si chiama “E1”, comporta anche una zona di sviluppo economico, zone commeciali, alberghi, istituti d’insegnamento superiore, un cimitero e un ampio parco che circonderà il tutto. La sua superficie totale è dell’ordine di 50 kmq e si stende praticamente da Gerusalemme a Gerico. La sua realizzazione deve collegare Ma’ale Adumim alle altre colonie di Gerusalemme-Est come Psigat Omer, Neve Yaacov e French Hill, creando così una continuità territoriale tra tutti questi quartieri ebraici.
Di fronte alle proteste americane ed europee (si fa per dire!) il governo ne ha congelato per qualche tempo l’applicazione, ma, dalla fine del 2006 sono state prese le prime misure effettive, con l’insediamento in particolare del centro di polizia. All’inizio del 2007, la zona si è trasformata in un immenso cantiere, con lavori di terrazzamento e l’apertura di nuove infrastrutture stradali. E oggi se ne vedono i risultati !
Ariel Sharon aveva preso questa decisione perché il piano s’inseriva perfettamente nella strategia di frantumazione del territorio palestinese, che puntava (e punta) a creare svariati cantoni isolati gli uni dagli altri. Questo progetto è assai vicino ad essere realizzato, e permette fin d’ora di collegare fisicamente Gerusalemme e Ma’ale Edumim con zone abitate esclusivamente da ebrei, di intercludere villaggi palestinesi come Abu Dis e Al-Eizariyeh, ormai soffocati tra il Muro della vergogna e Ma’ale Adumim, di isolare Gerusalemme dal resto dell’hinterland palestinese e, infine e forse soprattutto, di tagliare in due la Cisgiordania, separando i distretti palestinesi del Nord da quelli del Sud.
Questa separazione è già da oggi operante nei fatti. L’esercito impedisce qualsiasi forma di circolazione ai palestinesi tra il Nord e il Sud della Cisgiordania e, in sovrappiù essi non possono nemmeno accedere alla vallata del Giordano, ormai limitata ai soli residenti.
Una simile configurazione, cui vanno aggiunte le innumerevoli restrizioni alla libertà di movimento di cui sono vittime i palestinesi, rende impossibile la creazione di uno Stato palestinese dotato di continuità territoriale. A questa obiezione il governo israeliano replica che costruirà… un tunnel per renderla un giorno possibile, un chiaro modo per confermare questa politica di frammentazione dello spazio palestinese per favorire un dominio incontrastato degli israeliani.

Quasi a voler sigillare il tutto – nel senso proprio del termine -, è previsto che il Muro in cemento che circonda completamente la parte Est di Gerusalemme, venga prolungato tutto intorno a Ma’ale Adumim passando molto a sud per inglobare alcune piccole colonie come Kedar e molto a nord oltre Almon e Kefar Adumim.

Il progetto della Grande Gerusalemme

Questo progetto rappresenta un’importantissima estensione dell’annessione già realizzata nel 1967 quando lo Stato d’Israele aveva del tutto unilateralmente ridisegnato i limiti municipali della parte Est della città. In seguito, la colonizzazione in Cisgiordania aveva portato alla costruzione di grandi blocchi di colonie intensamente popolate tutto intorno a Gerusalemme, per meglio garantirne il controllo politico e demografico. Lanciato da Benjamin Netanyahu nel 1995, questo progetto riguarda un vasto territorio che va a nord fino a Ramallah, a sud di Betlemme senza includerla e a est verso la periferia di Gerico. Comporta un forte sviluppo di quattro blocchi di colonie che si trovano al di là dei limiti della città di Gerusalemme e che la circondano da nord-ovest, da nord-est, da est e da sud. Queste colonie sono tutte collegate a Gerusalemme-Ovest da una rete stradale efficiente e sofisticata che permette collegamenti rapidi tra i diversi punti di questo spazio ampio, di cui Gerusalemme-Ovest costituisce il cuore, per l’offerta relativa al lavoro e ai servizi (istruzione, salute, alimentazione e tempo libero).
Il fatto nuovo ed essenziale è che questo complesso che inghiotte tutta una parte centrale della Cisgiordania è ormai separato fisicamente dal resto del territorio palestinese dal Muro il cui tracciato ha qui la funzione evidente di fissare una vera frontiera di cemento per consacrare l’annessione unilaterale di questo complesso allo Stato d’Israele.
Il primo blocco si situa a est, intorno a Ma’ale Adumim, punto cardine di questo dispositivo, con, a nord della strada che collega Gerusalemme a Gerico, una serie di piccole colonie che dipendono dal consiglio regionale di Mate Binyamin: Mizpe Yeriho, Kefar Adumim e Almon (3 600 abitanti). A sud-est di Ma’ale Adumim, si trova la colonia di Qedar (450 abitanti). Il complesso, con una superficie di circa 70.000 dunam, si estende fino alla periferia di Gerico e rinforza così la spaccatura tra il Nord e il Sud della Cisgiordania.
Il secondo blocco di colonie si situa a nord-ovest con in particolare Giv’on e Bet Horon che fanno anche loro parte del consiglio regionale di Mate Binyamin e Giv’at Ze’ev che è un consiglio locale. I limiti di queste colonie sono vicini a Ramot che si trova all’interno dei nuovi limiti municipali di Gerusalemme. Un pò più lontano si trova la colonia di Har Adar (circa 2000 abitanti) de facto incorporati allo Stato d’Israele da un tracciato del Muro che si allontana anche qui, deliberatamente, dalla linea verde. Il complesso è servito da strade che collegano questo settore all’autostrada Gerusalemme-Tel Aviv e al centro-città.
Il terzo blocco di colonie si situa a nord-est con in particolare le colonie di Kokhav Ya’akov, Tel Zion e anche Geva Binyamin, che dipendono tutte dal consiglio regionale di Mate Binyamin. Qualche chilometro più a nord, ci sono le colonie di Pesagot e Bet El che fanno parte di un altro sistema ma che, allo stesso tempo, sono vicinissime a questa metropoli. Questi due blocchi, entrambi situati a nord della città, costituiscono una specie di barriera che separa Gerusalemme da una decina di villaggi palestinesi. Più di 30.000 abitanti palestinesi sono così estraniati da quello che è sempre stato il loro centro urbano di riferimento.
Il quarto blocco si trova più a sud, vicino Betlemme. Comprende Betar Illit con 16.000 abitanti, Efrat e una serie di piccole colonie che dipendono dal consiglio regionale di Gush Etzion. Benché sia abbastanza lontano da Gerusalemme, questo settore si integra con la metropoli grazie ad una strada che la collega direttamente con il centro della città, evitando zone popolate da palestinesi. Del resto, come gli altri blocchi di colonie, esso contribuisce alla frammentazione dello spazio palestinese poiché impedisce lo sviluppo dei villaggi palestinesi e limita fortemente la libertà di movimento dei suoi abitanti. In totale, i limiti municipali di queste colonie nella Grande Gerusalemme si estendono per circa 130.000 dunum, due terzi dei quali rappresentavano nel 2002 una riserva fondiaria per progetti futuri, con una popolazione di circa 250.000 abitanti, con l’ambizione di raccogliere nella zona mezzo milione di israeliani per pesare nel rapporto di forze demografico nel cuore dei territori palestinesi.
Gli abitanti di queste colonie, sommati ai 200.000 di Gerusalemme-Est, costituiscono un insieme comparabile con la popolazione palestinese che, per di più, è fisicamente suddivisa tra diverse enclave dovute alla strutturazione spaziale indotta dalle nuove costruzioni israeliane e dal Muro che spezza in modo brutale tutto uno spazio in precedenza continuo.

Il Muro intorno a Gerusalemme

Tutta l’operazione costruita in parecchi anni a partire da piani, tutti rigidamente centrati sull’idea di realizzare una maggioranza ebraica nell’insieme della città, ha trovato una forma di completamento con la costruzione del Muro a partire dal 2003. Ovviamente le conseguenze della costruzione del Muro hanno coinvolto (e coinvolgono) tutta la Cisgiordania. Qui di seguito studieremo le implicazioni relative alla sola Gerusalemme.
Questo mostro di cemento e di acciaio (si tratta in realtà di un’alternanza di un vero e proprio muro di cemento e, per la più gran parte del percorso, di una barriera, limitata da una parte e dall’altra da una rete metallica di circa tre metri di altezza, controllata elettronicamente, ma assai larga, dai 45 ai 100 metri. Questo spazio compreso tra le due reti è occupato da reticolati, da un fossato che impedisce il passaggio ad eventuali veicoli, un sistema di rilevazione di intrusioni e almeno una strada di pattugliamento), il Muro della vergogna, serpenteggia per decine di chilometri intorno a Gerusalemme, schiacciando tutto al suo passaggio, mutilando il paesaggio come un’enorme cicatrice, ferendo le magnifiche colline di Gerusalemme e imponendo una separazione di una violenza estrema che sconvolge letteralmente la vita di decine di migliaia di palestinesi ormai separati gli uni dagli altri, isolati dai loro cari, staccati dal loro ambiente naturale e anche, per molti di loro, rinchiusi in una sorta di ghetto, le cui uniche uscite sono dei tunnel!
L’argomentazione secondo la quale il Muro è stato costruito per ragioni di sicurezza non regge all’analisi precisa del suo tracciato in Cisgiordania. Nel caso di Gerusalemme, l’argomentazione regge ancora di meno tanto è evidente che la decisione di circondare la città con un muro risponde fondamentalmente alla volontà politica di annettersi le più ampie superfici possibili attorno a Gerusalemme e di crearvi un rapporto di forze demografico favorevole agli israeliani ebrei. Si ritrova qui l’ossessione demografica in tutta la sua ampiezza: bisogna fare tutto perché Gerusalemme sia a maggioranza ebraica. E nel quadro di questa ossessione, la Grande Gerusalemme completa in maniera decisiva i dispositivi che permettono di frammentare al massimo il territorio palestinese per impedire qualsiasi possibilità di creazione di uno Stato palestinese vivibile.
All’inizio del 2007, per capire il tracciato del muro e le relative conseguenze, occorre tenere ben separati i limiti municipali della città e la Grande Gerusalemme. I due progetti sono strettamente legati tra loro e sono anche complementari (dal momento che la Grande Gerusalemme consolida, con un’ampia estensione, i limiti iniziali della città) ma non procedono con lo stesso ritmo. Uno è completato mentre l’altro non lo è ancora, soprattutto perché la comunità internazionale ha condannato a più riprese il progetto di una Grande Gereusalemme. Detto questo, le implicazioni per i palestinesi sono più o meno le stesse e si possono individuarne almeno tre tipi : l’esclusione, la chiusura e la separazione.

L’esclusione

Il principio stesso dell’esclusione è semplice: estendere al massimo lo spazio urbano di Gerusalemme espropriando terre palestinesi, includendovi il minor numero possibile di palestinesi. Il caso più flagrante e senza dubbio più importante è quello del circondario di Shu’fat. In questo settore, dove vivono circa 50.000 palestinesi, ovverosia un quarto della popolazione palestinese della parte orientale della città, il tracciato del Muro opera un gran giro per “tirare fuori” questa popolazione della città, lasciandola fuori dal muro, nonostante che si trovi all’interno dei limiti municipali! Il circondario di Shu’fat comprende il campo profughi di Shu’fat, Ras Hamis, Ras l’Shehada, e i quartieri di Dahiyat al-Salaam. Si trova al limite nord-est di Gerusalemme, a sud della colonia Pisgat Ze’ev e a est della colonia French Hill e del villaggio di Isawiya. La grande maggioranza degli abitanti del settore è costituita da residenti di Gerusalemme, e alcuni sono cittadini israeliani. Si noti che la residenza di Gerusalemme è considerata come equivalente allo statuto di “residente permanente” e, in quanto tali, i suoi detentori godono della maggior parte dei diritti e servizi di cui godono i cittadini israeliani, in particolare, hanno il diritto di voto alle elezioni municipali, ma non a quelle parlamentari
Il campo-profughi di Shu’fat fu il primo campo ufficiale. Fu costruito tra il 1964 e il 1966 per ospitare i profughi di Gerusalemme-Ovest che vivevano nel quartiere ebraico della città Vecchia dopo la guerra del 1948.
La popolazione del campo (circa 10.000 rifugiati registrati ai quali conviene aggiungere dalle 10 alle 15 mila persone che non sono rifugiati ma che vivono là) si è sviluppato nel corso degli anni, mentre altri quartieri sono sorti intorno al campo negli anni 1970 e 1980 poiché la popolazione di Gerusalemme-Est aumentava e i residenti cercavano terreni liberi su cui insediarsi. L’ONU fornisce dei servizi di base ai rifugiati, mentre la municipalità di Gerusalemme e lo Stato d’Israele hanno l’obbligo di far fronte ai bisogni di tutti gli altri residenti di Gerusalemme all’interno del campo. In linea generale, le condizioni di vita dei residenti del capo sono decisamente modeste.
Proprio come per il campo di Shu’fat, la municipalità di Gerusalemme è responsabile della fornitura dei servizi per i qurtieri esterni al campo: Ras Hamis, Ras I’Shehada e Dahiyat al-Salaam dove vivono circa 10.000 persone. Tutto questo settore soffre di un’infrastruttura sottosviluppata. Poche strade, poca o nessuna raccolta di spazzatura e assenza qusi totale di illuminazione pubblica. Non ci sono scuole municipali, non ci sono parchi, non ci sono centri sociali e nessun ufficio postale. Per questi quartieri non esiste alcun piano urbanistico, la qual cosa impedisce ai residenti di depositare richieste per costruire. A titolo di confronto, il quartiere vicino di Pisgat Ze’ev, una colonia israeliana fondata nel 1982 a Gerusalemme-Est con i suoi 45.000 abitanti, dispone di una decina di scuole, di diverse cliniche, di un centro sociale, così come di strade, di lampioni, di parchi e di pianificazione paesaggistica. I residenti beneficiano dei vantaggi dei piani urbanistici approvati, della polizia, dei pompieri e di servizi di pronto soccorso. Nel gennaio 2004, Israele ha cominciato a confiscare la terra per la costruzione del Muro sul settore di Shu’fat. Il tracciato previsto lo ha circondato completamente, isolandolo dalla città, limitando de facto l’accesso degli abitanti al resto di Gerusalemme attraverso un solo check-point. Malgrado i ricorsi depositati dai palestinesi, la costruzione del Muro, alla fine del 2005, era già avviata.

La chiusura

Un altro segmento della popolazione palestinese, che viveva al di fuori del perimetro della città, si trova letteralmente chiuso da un muro che si è inserito tra quello delle frontiere municipali e quello della Grande Gerusalemme! Si tratta di quattro villaggi palestinesi che si trovano a nord-ovest della città tra le colonie israeliane di Giv’at Ze’ev e di Ramot Allon: Al-Judeira, Al-Jib, Bir Nabala e Al-Balad. A lavori finiti, i loro abitanti non potranno più uscire da questa enclave se non attraverso tunnel controllati evidentemente dalla polizia israeliana.
Dall’altro lato di Gerusalemme, in prossimità della nuova colonia di Har Homa, alcune centinaia di palestinesi del villaggio di Nu’man vivono da anni un vero incubo. In seguito ad un errore commesso dall’amministrazione israeliana, gli abitanti di questa zona erano stati giuridicamente come residenti della Cisgiordania, mentre erano all’interno del nuovo perimetro di Gerusalemme. A questo titolo, avrebbero dovuto beneficiare dello statuto di residenti di Gerusalemme. Finché il Muro non esisteva, la loro situazione era difficile ma non drammatica, poiché potevano circolare alla meno peggio sia verso Gerusalemme sia verso la Cisgiordania. Con la costruzione del Muro, tutto è cambiato, dal momento che sono ormai bloccati all’interno della città senza disporre però dei documenti che li autorizzino a circolare da questa parte del Muro. Si trovano dunque in una situazione kafkiana poiché non hanno il diritto di stare legalmente nelle loro case e nello stesso tempo non possono più andare dalla parte palestinese a causa del Muro. Gli abitanti hanno depositato diversi ricorsi, ma senza alcun risultato, a tutt’oggi.

La separazione

L’insieme della zona compresa tra Ramallah, Gerusalemme e Betlemme ha sempre rappresentato un bacino di popolazione e di impieghi indivisibile dove la circolazione e gli scambi erano tanto più facili in ragione delle brevissime distanze : alcuni chilometri soltanto separano Ramallah da Betlemme. La decisione israeliana di vietare ai palestinesi di Cisgiordania di andare a Gerusalemme all’inizio degli anni 1990 ha costituito una prima rimessa in discussione di questa unità. Questo divieto, applicato in modo rigorosissimo, isola i palestinesi gli uni dagli altri con tutto ciò che comporta per la vita quotidiana, per le famiglie che non possono più incontrarsi dove desiderano, per i credenti che non possono più recarsi alla moschea di Al-Aqsa, per i commercianti e i lavoratori che non possono più servirsi dell’attività di un centro urbano importante.
Il Muro rafforza violentemente questa separazione perché ormai il minimo spostamento da Gerusalemme verso la Cisgiordania è un percorso di guerra mentre nel senso inverso sono impossibili del tutto percorsi discreti o clandestini che permettano ai palestinesi di andare a Gerusalemme. I pochi punti di passaggio esistenti dove si può superare questo Muro non sono semplici check-point ma veri terminali di frontiera con reti metalliche, porte di ferro e tornelli metallici mediante i quali si operano stretti controlli d’identità assai spesso umilianti per i palestinesi che devono passare uno alla volta davanti a vetri blindati dove i soldati israeliani la fanno da padroni assoluti.
Ci sono ormai anche diversi frammenti di popolazioni esplose: gli abitanti di Ramallah e di Betlemme sono separati, quelli di Gerico vivono in un’oasi circondata da una zona vietata, quelli di Abu Dis sono soffocati tra il Muro di Gerusalemme e presto quello di Ma’ale Adumim, quelli di Anata sono chiusi tra il Muro e una strada a diverse corsie, mentre quelli di Gerusalemme-Est sono praticamente agli arresti domiciliari dal momento che sono bloccati a casa loro in un perimetro sempre più ridotto, con la paura di perdere il loro statuto di residenti della città, nel caso in cui si allontanino per una qualsiasi ragione. Si potrebbe continuare facilmente questa enumerazione seguendo i contorni del Muro che ha accuratamente integrato le colonie israeliane e disintegrato le comunità dei villaggi palestinesi.
Una simile separazione pone molteplici e gravi problemi alla vita di tutti i giorni dei palestinesi, poiché spesso la famiglia, gli amici, il dispensario, la scuola, il centro per lo svago, il droghiere, il panettiere che prima erano a pochi minuti da casa, sono ormai quasi inaccessibili. La via principale di Abu Dis costituisce uno degli esempi che più colpisce: immaginate una larga strada che va dritta verso il centro di Gerusalemme spesso interrotta da un muro in cemento alto otto metri che trasforma quest’asse di vita e di attività in un sinistro vicolo cieco dove tutto deperisce.
Alcuni ricorsi depositati presso la Corte Suprema hanno portato qui e là ad alcune modifiche di tracciato ma mai ad una rimessa in discussione del principio stesso di questa barriera che chiude, esclude e separa una stessa popolazione. All’inizio del 2007 si poteva ancora vedere qualche breccia nel Muro, legate a decisioni provvisorie di sospensione, in attesa del giudizio definitivo. Ad esempio, esiste ancora un passaggio tra due villaggi che hanno sempre vissuto l’uno in rapporto all’altro: Jabal Mukabar (integrato dal Muro a Gerusalemme) e As-Sawahira (lasciato dal Muro all’esterno). Ma già, in attesa del verdetto della Corte, l’esercito ha attivato un check-point nella breccia per filtrare i passaggi. Siccome la circolazione delle automobili è vietata, gli abitanti di questi due villaggi sono costretti a passare a piedi per superare una distanza di trenta metri. Se la Corte autorizzerà la costruzione del Muro in quel punto, i due villaggi saranno separati, come tutti gli altri intorno a Gerusalemme, e tutta la vita di quella fino ad ora è una comunità, ne sarà sconvolta. Si vede bene con questi esempi come le argomentazioni che tentano di spiegare il tracciato del Muro con ragioni di sicurezza non reggano nemmeno per un minuto. Al contrario, l’esclusione, la chiusura e la separazione non possono che generare sofferenze e frustrazioni che un giorno, in un modo o in un altro, se la situazione permane, provocheranno violenze di ogni tipo soprattutto da parte dei giovani che non potranno che ribellarsi contro questa situazione di discriminazione che non esiste in nessun’altra zona al mondo.

Lo spossessamento fondiario

L’estensione continua dei perimetri fondiari controllati da Israele ha senso soltanto se accompagnata da una vigorosa politica di di cocostruzione di nuovi complessi abitativi riservati agli israeliani nella prospettiva di prendere definitivamente possesso di quelle terre per giudaizzare questo settore centrale e vitale dei territori palestinesi. Siamo di fronte, ancora una volta, al centro di una logica che rinvia ai principi fondamentali del sionismo e cioè di impadronirsi al massimo di terre per radicarvi popolazioni ebraiche.
La messa in opera di questa politica obbedisce ad altri principi altrettanto «classici»: si tratta di creare le condizioni di una continuità spaziale tutto intorno e all’interno di Gerusalemme-Est. Ciò implica immediatamente, di spingere i palestinesi alla periferia dal centro dove la popolazione ebraica deve essere maggioritaria – di qui in particolare il tracciato del Muro a est della città che opera inverosimili contorsioni per cacciare all’esterno il più gran numero possibile di palestinesi e di circondare le zone palestinesi del resto già frammentatissime. Queste costruzioni costituiscono del resto un perfetto esempio del modo in cui i governi israeliani sono riusciti, per mezzo di progetti urbani, a cancellare in molti posti ogni traccia della linea verde poiché molti quartieri come Talpiot Est o Ramot Eshkol sono costruiti in piena continuità territoriale con Gerusalemme-Ovest. Dal momento che stiamo prendendo in considerazione soltanto le costruzioni all’interno dei nuovi limiti municipali della città, occorre distinguere le colonie create a Gerusalemme-Est e le molteplici iniziative di insediamento nella città Vecchia.

Le colonie nel nuovo perimetro di Gerusalemme-Est

Una prima fase di costruzione è stata realizzata tra il 1968 e il 1970 per creare una continuità spaziale ebraica dal monte Scopus a Sanhedriya, lungo un asse est-ovest. Negli anni seguenti, un’altra tappa si è avviata con la creazione di nuovi quartieri (o colonie) alla periferia dello spazio centrale per controllarlo meglio e includerlo nel nuovo spazio israeliano: Neve Yaakov a nord dove vengono costruite quasi 4.000 residenze per 20.000 persone circa, Ramot Allon per la quale vengono confiscati più di 4.000 dunam per permettere a circa 40.000 persone di viverci, Gilo a sud che domina Beit Jala e Betlemme, Talpiot Est (1973) su una superficie di più di 2 000 dunum (15 000 persone).
Ad eccezione di Talpiot Est, che si trova sulla linea di demarcazione tra Israele e la Giordania dal 1949 al 1967, queste nuove colonie sono state costruite su terre confiscate a una trentina di villaggi palestinesi bloccando durevolmente così il loro potenziale sviluppo poiché si sono ritrovati privati di spazi fondiari necessari sia alla loro agricoltura che all’estensione del loro habitat.
In totale, esistono ormai dodici colonie che, dal punto di vista del diritto internazionale, hanno esattamente lo stesso statuto illegale di quelle impiantate in Cisgiordania o sul Golan anche se la più gran parte degli israeliani le considerano come quartieri di Gerusalemme alla pari degli altri, dove vivono circa 200.000 persone (2005). La storia di una delle più recenti, Har Homa, è assai rivelatrice del modo in cui il governo procede per queste colonie presenti a Gerusalemme-Est. Il processo si è svolto in tre tempi: 1967, 1991, 1997.
A partire dal 1967, tenuto conto della sua localizzazione (a sud della città), della sua configurazione (una bellissima collina che offre panorami superbi) e delle sue potenzialità fondiarie, questo settore è stato incluso nel nuovo perimetro urbano di Gerusalemme unilateralmente deciso da Israele, mentre in precedenza dipendeva dal governatorato di Betlemme. Successivamente, nel 1968, è stato classificato come zona verde, in modo da impedire ai proprietari palestinesi di costruirvi una qualsiasi cosa. Nel 1991, il governo ha espropriato queste terre essenzialmente proprietà degli abitanti del villaggio vicino Beit Sahour, ma anche di Betlemme, di Sur Baher e di Um Tuba. Infine, nel 1997, Benjamin Netanyahu ha deciso di farci costruire una prima rerie di alloggi rapidamente seguita da altri negli anni successivi. Nel 2007, questa colonia contava diverse migliaia di abitanti e ancora oggi i palestinesi assistono impotenti alla crescita inesorabile di queste costruzionic sulle loro terre. Inoltre, essi temono che questo insieme si estenda anche alle terre circostanti dal momento che ora il Muro passa a poche centinaia di metri dall’abitato, chiudendo così completamente l’accesso di questa piccola montagna, Jabal Abu Ghneim, agli abitanti vicini di Cisgiordania per i quali è stata a lungo una zona per trascorervi il tempo libero. Har Homa e il Muro separano ormai completamente villaggi che prima costituivano un medesimo insieme urbano distando gli uni dagli altri pochi chilometri oggi insuperabili

Le installazioni nella città Vecchia

La città Vecchia è un universo unico dove ogni costruzione, quasi ogni pietra, conserva tracce di una memoria che si allunga su diversi secoli. L’intensità delle tracce lasciate dal tempo è tanto più forte, vista l’esiguità del perimetro di questo spazio così singolare dove tutto si mischia. Poche centinaia di metri soltanto separano il Santo Sepolcro dal Muro del Pianto che si trova perpendicolarmente alla Spianata delle Moschee… In una configurazione spaziale così esigua, impadronirsi di un semplice cortile diventa una posta importante tra palestinesi e israeliani che vogliono ad ogni costo esercitare il loro dominio sull’insieme della città che vogliono “riunificata”.
Una delle prime decisioni del governo immediatamente dopo la guerra del giugno 1967 è stata quella di radere al suolo le centotrenta case del quartiere maghrébino che si trovavano di fronte al Muro del Pianto per creare una vasta spianata dalla quale lo si può vedere interamente. Questa decisione si inseriva in un piano complessivo di rinnovamento e di estensione del quartiere ebraico vicino, che gli ebrei avevano dovuto abbandonare nel 1948 quando la Legione araba ne aveva assunto il controllo. E, da allora, e soprattutto dopo la vittoria del Likoud nel 1977, alcuni gruppi ultranazionalisti israeliani organizzati o che ispiravano al Goush Emunim hanno, a più riprese, tentato di acquistare immobili nel quartiere musulmano della città Vecchia.
Ateret Cohanim, diretto dal rabbino Shlomo Aviner, figura influente del campo nazionale religioso, è una delle organizzazioni radicali tra le più attive in questo ambito e ha la sua sede proprio in una yeshiva che si trova nel quartiere musulmano della città Vecchia, dove alcune decine di studenti si dedicano allo studio dei riti praticati nel Tempio di Salomone. E’ in parte grazie ad essa che Ariel Sharon, anche proprietario di una casa nei pressi della Porta di Damasco, ha fatto annunciare, en 2005, l’approvazione di un progetto di costruzione di un complesso di diversi edifici e di una sinagoga a Burj Al-Laqlaq su di una superficie di circa 11 dunum (11.000 mq) tra la Porta dei Leoni e la Porte di Erode suscitando immediatamente vivissime reazioni tra i palestinesi.
Nello stesso periodo sono state prese altre iniziative importanti. E così, diversi edifici imponenti, di cui alcuni come l’hotel Imperial, situati sulla piazza della Porta di Jaffa, che controlla l’entrata occidentale della città Vecchia, sono stati riacquistati in condizioni che restano assai oscure. Queste operazioni immobiliari condotte in gran segreto sembrano annunciarne altre, con gran soddisfazione di alcuni giornali israeliani come Maariv (18 marzo 2005) che fa questo commento: “Ultimamente due gruppi di investitori .ebrei stranieri hanno comprato in segreto i terreni del quartiere … hanno speso milioni di dollari con un obiettivo preciso: restituire Gerusalemme agli Ebrei”
Tenuto conto dell’importanza delle poste in gioco e delle passioni che suscitano, questo tipo di acquisizioni sono condotte nella più grande discrezione e molto spesso da società di copertura dove i coloni non compaiono. Una delle più note di queste società è la Atara Leyoshna che, in diversi anni, è riuscita a comprare numerose case e appartamenti nel quartiere musulmano. Gli inquilini palestinesi hanno finito con l’andarsene o perché stanchi delle svariate forme di logoramento, o perché hanno accettato sostanziosi compensi finanziari.
Nella stessa logica di questo tipo di iniziative, vanno collocate le decisioni del governo che hanno portato a spossessare i palestinesi di molte istituzioni a Gerusalemme-Est emblématiche del loro radicamento in questa città, la più importante delle quali è la presa di possesso con la forza e la chiusura (nell’agosto 2001) della Casa dell’Oriente aperta nel 1992 da Feisal Husseini, discendente di una grande famiglia dela città e responsabile politico inportante dell’OLP (morto nel 2001). Nel periodo degli accordi di Oslo, era diventata una specie di municipio ufficioso che rappresentava gli interessi della popolazione palestinese a Gerusalemme-Est e un centro di ricerca documentatissimo sulla colonizzazione della città da parte dello Stato d’Israelel. La Road map proposta dal Quartetto nel maggio 2003 comprende la sua riapertura, ma più tempo passa e più questa eventualità si fa remota e problematica.

Il logoramento sistematico degli abitanti palestinesi di Gerusalemme

Tutta l’urbanizzazione e, in senso più ampio, tutte le misure prese dalla municipalità di Gerusalemme, compreso il fatto che soltanto una modestissima componente del suo budget sia destinata ai quartieri palestinesi, sono condizionate da una vera e propria ossessione demografica. Non deve accadere che i rapporti di forze tra le due comunità possano risultare in favore dei palestinesi. Gli ebrei rappresentano il 72% della popolazione e questo rapporto deve restare immutato. In nessun caso, i palestinesi devono avvicinarsi al al “tetto” del 30% come viene detto in modo assolutamente esplicito in molti documenti ufficiali israeliani. Questo obiettivo porta ad esercitare una politica particolarmente repressiva nei confronti dei palestinesi per spingerli ad andarsene e, in ogni caso, per impedire loro di costruire.

Spingerli ad andarsene

Questa politica che non viene espicitata e che non viene ostentata in quanto tale, consiste nel far di tutto per rendere difficile la vita ai palestinesi di Gerusalemme che haano questo strano statuto di non essere alla fine né cittadini israeliani, come lo sono più di un milione di loro, discendenti di coloro che rimasero sulla loro terra (diventata territorio israeliano) dopo il 1948, né soggetti all’Autorità palestinese. Hanno una carta d’identità (bleu) che permette loro di vivere a Gerusalemme, ma non di votare in Israele, n* di avere un passaporto israeliano. Il rinnovo di questo documento presso il Ministero dell’Interno è complicatissimo da ottenersi e spesso umiliante, visto che alcune procedure recenti hanno, se possibile, inasprito il processo. Risultato: regolarmente alcuni sono costretti ad andarsene. La stessa cosa avviene migliaia di altri che hanno vissuto per un periodo prolungato fuori della città, per esempio per fare i loro studi all’estero. Se non hanno compiuto i passi necessari e ripetuti presso le autorità israeliane per ottenere il rinnovo dei loro documenti, si ritrovano stranieri a casa loro poiché non possono più rientrare se non con un’altra nazionalità. Essi tornano a vedere i propri caricon lo statuto di turisti stranieri!. Stessa situazione impossibile per le coppie, nelle quali un membro della coppia possiede una carta d’identità bleu e l’altro una verde (per la Cisgiordania). C’è un’incessante pressione burocratica sul loro statuto al quale malgrado tutto essi tengono, dal momento che con lo stato attuale della situazione rappresenta l’unico mezzo per poter continuare a vivere a Gerusalemme, e cioè a casa loro! Alla fragilità di questo statuto ibrido si aggiungono molti altri vincoli amministrativi da sopportare per numerose attività. Un semplice spostamento fuori città è fonte quasi sempre di noie e preoccupazioni che la costruzione del Muro ha ancor più aggravate poiché ormai i contatti con i palestinesi di Cisgiordania – dove si trovano necessariamente la famiglia, gli amici, i rapporti professionali … sono difficilissimi.

Impedire loro di costruire

Anche in questo caso si tratta di una politica che viene da lontano ! Dagli anni 1950, nei confronti degli arabi israeliani e dopo il 1967 nei confronti dei palestinesi di Cisgiordania. Da una parte, si è facilitata in tutti i modi possibili la creazione dell’habitat ebraico, al punto d’aver costruito, come abbiano visto, dodici colonie a Gerusalemme-Est dove vivono circa 200.000 persone (2005), dall’altra, l’habitat palestinese si scontra costantemente con ostacoli di ogni tipo, e alcuni di questi sono insormontabili. C’è infatti tutto un armamentario di regolamenti che avvolge i palestinesi in un mondo surreale e kafkiano al quale non hanno praticamente alcuna chance di sfuggire. Tra zone verdi e piani direttivi inesistenti, il loro percorso è praticamente senza sbocco, come lo mostra molto bene il rapporto dell’Unione europea: “Le autorità israeliane hanno attivato serie restrizioni sul rilascio di permessi di costruzione per i palestinesi di Gerusalemme-Est. Esse li rilasciano soltanto per località che hanno un piano direttivo relativo a certe zone. Ma la municipalità produce questi piani solo relativamente a zone di colonizzazione e non per le zone palestinesi. E così, ogni anno, i palestinesi ricevono meno di cento permessi per costruire per i quali hanno dovuto aspettare diversi anni”.
Bisogna precisare inoltre che le zone verdi possono evidentemente cambiare di statuto e un buon numero di palestinesi, ad esempio a Har Homa, hanno avuto la sorpresa di veder spesso una colonia costruita su terre “congelate” qualche anno prima per una simile destinazione. Secondo B’Tselem, le costruzioni palestinesi vengono autorizzate soltanto sul 7% di Gerusalemme-Est, e per la maggior parte delle volte in settori dove già esisteva un habitat palestinese. E anche in questi quartieri, rimane difficilissimo ingrandire la propria casa !
L’effetto perverso di questa politica ultra-restrittiva consiste nel fatto che i palestinesi che hanno, come tutti, esigenze impellenti di alloggio, finiscono per costruire senza permesso. A questo punto si trovano in difetto rispetto alla legalità israeliana che tuttavia non dovrebbe in ogni caso applicarsi, perché ai termini della Quarta convenzione di Ginevra del 1949, una potenza occupante non ha il diritto di estendere la propria giurisdizione ad un territorio occupato. Cresce dunque la fragilità, perché, in queste condizioni, le autorità israeliane hanno un facile pretesto per demolire queste costruzioni illegali. E così, ogni anno, decine di case private vengono distrutte, lasciando famiglie intere prostrate per aver visto brutalmente scomparire la loro casa per la quale avevano, in molti casi, investito quasi tutte le loro sostanze. Questa politica di distruzione dell’habitat palestinese illegale si è intensificata con la costruzione del Muro che schiaccia tutto ciò che trova sulla sua strada.
E, come fa notare il rapporto europeo da poco citato: “Queste demolizioni non obbediscono a nessun obiettivo apparente di sicurezza ma sono chiaramente legate all’espansione delle colonie … esse hanno conseguenze umanitarie catastrofiche e alimentano amarezza ed estremismo”.
A questo punto c’è da porsi una domanda essenziale: poiché i palestinesi non possono costruire per loro stessi, o molto poco, o fuori della legalità imposta dal governo, possono andare ad abitare nelle zone tenute dagli israeliani e in particolare nelle colonie ?
A priori, e fatte salve particolarissime eccezioni, i palestinesi non hanno alcuna voglia di andare ad abitare negli immobili degli insediamenti israeliani che percepiscono come vere enc1ave straniere che rappresentano a volte anche una minaccia per la loro vita quotidiana. L’ambiente culturale, sociale e soprattutto politico è tale che un simile approccio sembrerebbe inconcepibile. In queste condizioni ci si può aspettare rispetto a chi li circonda, che li evitino o che si sforzino di vivere ignorandoli ma non che cerchino di integrarsi. Ma, malgrado tutto, facciamo per un istante l’ipotesi di una famiglia palestinese che voglia affittare o comprare un appartamento in un quartiere ebraico. Sarebbe autorizzato a farlo ?
Sul piano del diritto positivo in vigore, non c’è, a quanto ne sappiamo, alcuna regola che vieti tale possibilità. Al contrario, è sicuro che i proprietari di beni immobiliari possono esigere un certo numero di condizioni per l’affitto o la vendita dei loro appartamenti, condizioni che i palestinesi non possono rispettare.
Per evitare facili polemiche su questo delicato argomento, la cosa migliore è quella di attingere alla giurisprudenza della Corte Suprema che ha avuto, almeno una volta, l’occasione di deliberare su questo problema. Essa è stata chiamata in causa da un richiedente che si era visto rifiutare il diritto di affittare un appartamento nel quartiere ebraico restaurato della città Vecchia, perché non ottemperava alle condizioni pretese dal venditore, e cioè di essere cittadino israeliano e di aver compiuto il servizio militare (o di esserne stato esentato o di aver servito in una organizzazione ebraica prima del 14 maggio 1948), o essere un nuovo immigrante ebreo residente in Israele. Dopo aver affrontato le questioni di competenza, illustrato le circostanze relative all’affare, trattato dei motivi sussidiari, la sentenza della Corte, redatta dal giudice Haim Cohen, va al punto essenziale, ovvero alla discriminazione determinata dalle condizioni imposte dal venditore, in questi termini:
“[…] Il richiedente riconosce di non essere cittadino israeliano, che non ha svolto servizio militare nelle Forze di Difesa d’Israele e di non essere un nuovo immigrante: è di nazionalità giordana e dichiara di aver sempre risieduto nella città Vecchia di Gerusalemme […] […] L’argomentazione principale del richiedente è che il difensore pratica una discriminazione illegale tra le persone […] in funzione della loro religione o della loro nazionalità poiché è pronto ad affittare degli appartamenti ad ebrei ma non a musulmani […] Io non sono convinto che la richiesta del difensore costituisca una discriminazione […] 1) in primo luogo, la nozione di cittadino israeliano include anche il non-ebreo: musulmano, druso o cristiano … quanto alla restrizione relativa al servizio militare si spiega con semplici considerazioni di sicurezza […] 2) in secondo luogo una discriminazione tra cittadini e non cittadini … non è necessariamente illegale … 3) in terzo luogo se il restauro del quartiere ebraico della città Vecchia è apparso indispensabile ciò è dovuto al fatto che la sua occupazione aveva portato all’espulsione degli ebrei, al saccheggio delle loro proprietà e alla distruzione delle loro case. E’ perciò nella natura delle cose che questo restauro comporti il ritorno all’antico splendore delle case ebraiche nella città Vecchia […] 4) in quarto luogo, nella misura in cui la discriminazione si fa nei confronti di un cittadino giordano che deve fedeltà al suo governo (come nel caso di specie) io considero questa discriminazione giustificata ed appropriata: noi deploriamo e protestiamo contro quello che i giordani hanno fatto contro di noi … ma non ci si può aspettare che noi apriamo con larghezza la strada per un loro ritorno ed insediamento, in particolare nel quartiere ebraico della città Vecchia. Una simile discriminazione è fondata e giustificat ad un tempo per considerazioni politiche e di sicurezza […[. L’appello è respinto.
Questo appello del 1978 presenta aspetti molto particolari perché attiene alla città vecchia di Gerusalemme, divisa in diversi quartieri da tradizioni antiche e complesse. Ma al di là di questa incontestabile specificità, se ne deduce una posizione di principio molto semplice: ognuno può stabilire le discriminazioni che vuole nella gestione delle sue proprietà restando comunque in un quadro di legalità. Secondo le parole del giudice Haim Cohen che ci commentava la sua decisione alcuni anni dopo:
“In una democrazia liberale, tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso … nessuno può impedirvi di fare quello che voi volete della vostra proprietà”.
Sul piano logico, questo ragionamento è totalmente inattaccabile ma, sul piano politico, porta ad una situazione contraria alle premesse su cui si basa. In nome del liberalismo, tutta una categoria di persone viene privata di una libertà elementare. E’ proprio per questo che il giudice Haim Cohen aggiungeva: “Noi dovremmo avere una legge per vietare questo tipo di discriminazioni … ma fino ad oggi non ce l’abbiamo”.
Ovviamente, ciò che è in discussione non sono soltanto le contraddizioni interne al liberalismo ma anche il suo utilizzo assai insidioso per appropriarsi di un territorio. Si ritorna così all’essenziale. La vera fonte di ogni discriminazione è rappresentata dal regime di occupazione. Se il problema di istallazione di palestinesi resta un’ipotesi formale, essa ci ha permesso di mettere l’accento sulla società duale attuata a Gerusalemme-Est come in Cisgiordania, nel rispetto e mediante il rispetto della legalità imposta dall’occupante, in violazione del diritto internazionale.

4. La documentazione UE su Gerusalemme-Est

Per questo paragrafo, mi sono servito abbondantemente dell’introduzione di René Backmann al libro contenente la documentazione. Questo giornalista, redattore capo de le Nouvel Observateur, ha scritto un bellissimo libro (Un mur en Palestine) nel 2009. La sua dimestichezza con la documentazione, mi ha portato spesso a formulare, con le sue parole, le argomentazioni relative. Spesso!
Un diplomatico britannico, console generale del Regno Unito a Gerusalemme, ebbe per primo l’idea, all’inizio degli anni 2000, di redigere, con l’aiuto dei suoi colleghi rappresentanti i paesi dell’Unione europea, una specie di “stato delle cose” sistematico della situazione a Gerusalemme-Est. Per poter integrare i lavori dei diplomatici di stanza in Israele, con le informazioni raccolte da parte palestinese, fu richiesto un contributo dello stesso tipo ai capi dell’Ufficio dell’Unione europea a Ramallah, sede dell’Autorità palestinese.
Il metodo di lavoro adottato era assai informale. Gli scambi tra capi-missione portarono alla redazione di un progetto di testo, in inglese, affidato al diplomatico, che fece circolare il documento tra i suoi colleghi, raccolse proposte, suggerimenti, reticenze, opposizioni e produsse la versione finale, Dopo di che, questo documento validato dai rappresentanti dei 27 paesi dell’Unione, o almeno da coloro che si erano associati per redigerlo, venne trasmesso a Bruxelles.
Il rapporto del dicembre 2005 non entrava in particolari dettagli e conteneva relativamente pochi dati, ma presentava un quadro realistico della situazione sul terreno e dei rapporti di forza. E constatava soprattutto che la coniugazione delle politiche condotte da Israele nei diversi ambiti, riduceva le possibilità di raggiungere un accordo sullo statuto finale, che fosse accettabile dai palestinesi.
“Siamo convinti che la prosecuzione dell’annessione di Gerusalemme-Est derivi da una politica israeliana deliberata”, scrivevano gli estensori del documento. “Le misure prese da Israele rischiano anche – aggiungevano – di radicalizzare una popolazione palestinese di Gerusalemme-Est, fino a quel momento relativamente tranquilla”.
Si pensi all’uso che una diplomazia europea coerente, creativa, audace avrebbe potuto fare di un simile documento. Soprattutto, nel quadro di negoziati sullo statuto di partner preferenziale dell’Europa, sollecitato dal governo israeliano. Si pensi anche a quale sostegno avrebbe potuto avere il campo della pace israeliano, oggi moribondo, da un’Europa, che avesse continuato ad essere sempre risoluta nel difendere l’esistenza e la sicurezza d’Israele, ma altrettanto decisa nel rammentare ai vari governi israeliani che i palestinesi non erano i soli ad avere dei doveri... Si pensi infine quale sostegno avrebbe rappresentato per l’Autorità palestinese, un’Europa generosa, capace di dimostrare che la partigianeria in favore d’Israele di cui l’accusano gli islamici, era di fatto contraddetta da una denuncia argomentata degli atti e dei progetti israeliani. Chissà che un impegno più risoluto dell’Unione europea (e degli USA) non avrebbe potuto spingere Israele a decisioni meno unilaterali e l’Autorità palestinese a opzioni più creative, e avrebbe potuto evitare non la crescita di Hamas e la successiva vittoria elettorale nel gennaio 2006, ma certamente un rapporto più equilibrato con l’Anp.
Tre anni dopo, i capi-missione di stanza in Israele, inviano un nuovo rapporto a Bruxelles. Dopo tre anni, gli insegnamenti che si possono trarre dal confronto tra il rapporto del novembre 2005 e quello del dicembre 2008, lasciamo poche speranze. Sia sull’evoluzione della situazione sul terreno, così come emerge dalle analisi dei diplomatici, sia sull’impegno dell’Unione europea, sempre generosa nella sua strategia di cooperazione, ma disunita, e perciò senza voce sul piano diplomatico. Redatto in inglese, come il rapporto 2005 e nella sostanza più lungo del quello, il rapporto 2008 non rileva alcun segno, da parte israeliana, di una volontà di rianimare il processo di pace. Al contrario. In tutti gli ambiti passati in rivista dai diplomatici (colonizzazione, infrastrutture di trasporto, costruzione del muro, demolizioni di case, statuto dei residenti, atteggiamento di fronte alle istituzioni palestinesi, rispetto delle libertà religiose), il rapporto del 2008, rivela una regressione e una presa di distanza sempre più chiara rispetto agli obblighi assegnati dalla Road ma e ribaditi nel corso della conferenza di Annapo1is, nel novembre 2007. L’esempio più chiaro di questo atteggiamento israeliano è rappresentato dalla politica di colonizzazione del governo Olmert, continuata ed amplificata da Benyamin Netanyahou e dalla sua coalizione di estrema destra, al cui interno sono presenti (ed attivi!) i coloni. Un documento reso pubblico il 2 marzo 2009 dal movimento La Pace subito, conferma del resto che Israele ha intenzione di raddoppiare il numero dei coloni in Cisgiordania. I piani di colonizzazione del governo Netanyahou prevedono, secondo questo documento, la costruzione di 70.000 alloggi nei prossimi anni, di cui 5.700 nei quartieri annessi di Gerusalemme-Est.
Secondo il rapporto europeo del 2008, che si fonda sulle ricerche di La Pace subito e sui dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano, 190.000 dei 470.000 coloni censiti nel 2008 nei Territori palestinesi occupati vivono all’interno di Gerusalemme-Est e 96.000 nelle colonie che circondano Gerusalemme. E la costruzione di colonie, a Gerusalemme-Est e intorno a Gerusalemme, continua ad un ritmo elevato, contrariamente agli obblighi ai quali Israele sarebbe tenuto dal diritto internazionale e dalla Road map. Uno degli insegnamenti principali che fornisce su questo punto il confronto tra i due documenti è l’analisi dell’evoluzione del settore “E-l”. E-1, che sta per “Est-1”, è il nome dato dai pianificatori israeliani a una zona di colline sassose, di forte pendenza e con burroni, che si estende su un area di una decina di chilometri quadrati, a est di Gerusalemme tra la corona delle località palestinesi che raccoglie El-Azariyeh, At-Tor e lssawiya, e la colonia di Ma’ale Adoumim, la più popolosa della Cisgiordania, dove risiedono 31.000 israeliani. Questo settore “E-1” è destinato a prolungare verso ovest, Ma’ale Adoumim, e alla fine, ad attaccare il blocco di Ma’ale Adoumim, che copre una cinquantina di chilometri quadrati, a Gerusalemme. L’idea guida è quella di prolungare l’enclave di Gerusalemme fino ai confini della vallata del Giordano, la qual cosa comporterebbe la divisione in due della Cisgiordania e in particolare la strada tra due delle principali città palestinesi, Ramallah e Betlemme
Il rapporto del 2005 faceva già riferimento ai progetti degli urbanisti-colonizzatori israeliani per la zona “ E-1”. Alloggi per 815. 000 residenti, una zona di attività comprendente alberghi e un centro commerciale, un’università, un parco paesaggistico, un cimitero, una discarica e una costruzione destinata ad ospitare il quartier generale della polizia per la Cisgiordania. Quando il rapporto del 2005 era stato redatto, erano stati avviati soltanto pochi lavori di preparazione La cima di una collina era stata spianata ed era stata tracciata una pista per i camion e le macchine del cantiere. Ma, in seguito a fortissime pressioni diplomatiche, soprattutto americane, i lavori erano stati bloccati.
Tre anni dopo, la lettura del documento del dicembre 2008, mostra che le pressioni diplomatiche americane non erano risultate a lungo dissuasive. Infatti il quartier generale della polizia è stato completato ed è anche entrato in funzione nell’aprile 2008. Una parte dell’infrastruttura stradale del progetto « E-1 » è praticamente completata. I provvedimenti israeliani in corso nella zona di Ma’ale Adoumim-E-1, secondo gli estensori del rapporto, costituiscono una delle principali sfide al processo di pace israelo-palestinese. La continuazione della costruzione del muro e la realizzazione del piano E-1 determineranno una continuità territoriale israelianea tra il blocco di colonizzazione di Ma’ale Adoumim e Gerusalemme, dividendo in due la Cisgiordania e separando Gerusalemme-Est dal suo retroterra. La realizzazione di questo piano renderebbe impossibile lo sviluppo urbano ipotizzato dai palestinesi a Gerusalemme-Est, privando questa parte della città della maggior parte dei terreni disponibili per il suo sviluppo economico e demografico. Il 25 marzo 2009, mentre andavano avanti le trattative per la costituzione del governo Netanyahou, la radio dell’esercito israeliano ha rivelato che il capo del Likoud e il suo futuro ministre degli Esteri, Avigdor Lieberman, avevano concluso un accordo segreto che prevedeva la costruzione di 3.000 alloggi nella zona E-1
Dopo aver constatato e deplorato che i due “anelli” di colonie costruite intorno a Gerusalemme hanno continuato a svilupparsi, il rapporto 2008 evidenzia anche che il governo israeliano ha avviato la costruzione di una tramvia destinata a collegare le colonie di Pisgat Ze’ev (40.000 abitanti) e Neve Ya’acov (20.000 abitanti) al centro di Gerusalemme, includendo così nello schema urbanistico della città l’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania sulle quali le colonie sono costruite. Il rapporto europeo non ne fa cenno, ma due imprese francesi, con l’avallo del governo francese, sono partner di questo progetto israeliano che se ne infischia delle Convenzioni di Ginevra, che definiscono i diritti e i doveri degli “Stati occupanti”. Nel capitolo sulle infrastrutture di trasporto, il rapporto 2008 parla anche della costruzione, ad est di Gerusalemme, di una strada di aggiramento che dovrebbe, alla fine, collegare, aggirando il muro di separazione e passando sotto la zona “E-1” con un tunnel, le località palestinesi situate a nord e a sud di Gerusalemme. L’obiettivo è, ancora una volta, chiarissimo e cioè quello di permettere in futuro al governo israeliano, di fronte alla comunità internazionale, di aver conservato la “continuità territoriale” della Cisgiordania. Pur avendo riunito Ma’ale Adoumim a Gerusalemme...
Dal momento che la lunghezza dei vari tronconi del muro di separazione in attività si è raddoppiata in tre anni, passando da 200 a 400 chilometri, il rapporto 2008, esamina più in dettaglio la realizzazione, e le conseguenze, di quest’altro grande progetto israeliano. Per constatare in particolare che quando il muro sarà finito (e la sua lunghezza sarà allora di 725 chilometri!), di fatto annetterà ben 80 colonie, e tra queste, anche le 12 situate alla periferia di Gerusalemme-Est. E così, i 385.000 israeliani che vivono nelle colonie a ovest, e cioè dalla parte “israeliana” del muro. Nella sola regione di Gerusalemme, il 3,9 % del territorio palestinese è già stato annesso di fatto dal tracciato del muro che “taglia” dalla Cisgiordania più di 280.000 palestinesi, tra i quali tutti quelli di Gerusalemme-Est. In aggiunta alla moltiplicazione di checkpoints e all’obbligo di ottenere un permesso per entrare a Gerusalemme, l’esistenza del muro ha trasformato la vita quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania in un confronto permanente con la burocrazia poliziesca e militare israeliana, che obbliga ad esempio coloro che risiedono nelle regioni comprese tra il muro e la Linea Verde (si tratterà di circa 35.000 persone quando i lavori finiranno), a sollecitare un’autorizzazione di residenza per continuare a vivere a casa loro. Dal 2000, constatano gli autori del rapporto 2008, il numero degli studenti palestinesil dell’Università Al Quds, a Beit Hanina, è calato del 70 %. Un numero sempre decrescente di fedeli palestinesi cristiani e musulmani ha accesso ai Luoghi santi a Gerusalemme. Anche il tradizionale vino da messa di Betlemme, prodotto da 125 anni da un ordine cattolico, non è più autorizzato a superare il muro perché costituirebbe “un rischio per la sicurezza”.
La lezione essenziale della realtà, così come esiste sul terreno e come viene descritta da questi due documenti, è brutalmente semplice: tutto si svolge come se lo Stato d’Israele e i suoi governi che si succedono, lungi dall’avere per obiettivo di riavviare il processo di pace avviato dagli Accordi di Oslo o dalla Road map, abbiano deciso d’imporre, dall’inizio degli anni 2000, in particolare con la costruzione del muro e della barriera di separazione, e attraverso una molteplicità di iniziative, spesso spettacolari, altre volte appena percepibili se viste da lontano, una soluzione unilaterale del problema palestinese.
Questa soluzione si basa su di una concezione strategica e politica totalmente nuova: il muro e la barriera di protezione saranno domani, la frontiera tra il futuro Stato palestinese e lo Stato d’Israele. In altre parole, “il compromesso storico” accettato da Yasser Arafat, secondo il quale l’Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP) accettava di costruire il suo Stato sulla Cisgiordania e la striscia di Gaza e cioè sul 22 % del territorio della Palestina mandataria non varrebbe più.
E’ sulla striscia di Gaza ed una parte soltanto della Cisgiordania, che questo Stato, sempre meno vivibile, con il procedere delle amputazioni, dovrebbe essere costruito. Sempre che venga costruito. Le colonie israeliane, almeno le più importanti di esse, non saranno né distrutte né consegnate all’Autorità palestinese. Esse costituiranno altrettante enclave strategiche collegate direttamente a Israele con una specifica rete stradale, conficcate come cunei nel cuore dello Stato palestinese da creare.
Propaganda palestinese? Estrapolazione azzardata? Paranoia militante? Purtroppo no ! Nell’agosto 2007, non è un rappresentante dell’OLP o dell’Autorità palestinese che ha fatto questa rivelazione a René Backmann, nel corso di una trasmissione di France Inter, ma l’ex ambasciatore d’Israele in Francia, Nissim Zvili. E un anno più tardi, come lo evidenzia il rapporto dei diplomatici, sarà il vice-primo ministro israeliano Haim Ramon, che dichiarerà: “La barriera è la nuova frontiera orientale d’Israele”. Da anni, ufficiali israeliani ripetono che la Linea Verde non è che una linea armistiziale, cosa vera del resto, che non è perciò sacra, e che nel quadro di un negoziato sullo statuto finale, scambi di territori potrebbero essere conclusi con i palestinesi.
Alla ricerca di soluzioni accettabili per la comunità internazionale, per ridurre la proporzione di non-ebrei tra la popolazione israeliana senza far ricorso alla pulizia etnica, (diffusa anche in altre regioni del mondo sia ben chiaro!), alcuni politici israeliani avevano anche ipotizzato di cedere ai palestinesi, come contropartita delle enclave costituite dalle nuove colonie, regioni d’Israele abitate da arabi israeliani. Va detto che questa ipotesi, che non teneva in nessun conto la volontà dei principali interessati, i palestinesi d’Israele, non era stata presa molto sul serio all’inizio. L’entrata nel governo israeliano dell’estremista Avigdor Lieberman, che sogna un Israele liberatosi del 20% dei suoi abitanti (i palestinesi), potrebbe provocare il ritorno di questo mercanteggiamento nel dibattito politico. Quello che i palestinesi si dichiaravano disposti a prendere in considerazione, nel quadro di un negoziato globale, era il principio di scambi limitati di territori di natura comparabile e di superficie equivalente, per permettere ad Israele di conservare le colonie vicine alla Linea Verde, e all’Autorità palestinese di ottenere terre destinate soprattutto a favorire una via di comunicazione tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Ma le tra modeste rettifiche di frontiera, mutuamente accettate e l’annessione autoritaria da parte israeliana dal 3 al 12 % del territorio palestinese, ce ne passa!
O piuttosto ce ne passava ! Forti della protezione di George W. Bush e dei suoi consiglieri likudnik, evangelisti e neocons, i dirigenti israeliani hanno creato una nuova dottrina, che volta le spalle risolutamente allo spirito di Oslo, i cui pilastri sono costituiti dalla priorità assegnata alla forza, al rifiuto del dialogo, alla identificazione della rivendicazione nazionale palestinese, (anche in assenza di violenza) al terrorismo e alla politica dei fatti compiuti. Dottrina che ha ricevuto la benedizione ed il sostegno di George W. Bush nell’aprile del 2004. In una lettera al Primo ministro del tempo, Ariel Sharon, il cui testo era stato solennemente approvato dal Senato (95 voti contro 3) e dalla Camera dei Rappresentanti (407 voti contro 9) il presidente americano sottolinea che Israele, “Stato ebraico”, deve avere frontiere sicure e riconosciute, risultato dei negoziati tra le parti, basato sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma, aggiunge George W. Bush, che “alla luce delle nuove realtà sul terreno che che comprendono i principali centri della popolazione palestinese esistente, non è realistico sperare che i risultati dei negoziati sullo statuto finale costituiscano un ritorno integrale alla linea armistiziale del 1949; tutti i tentativi precedenti per negoziare una soluzione con due Stati portano a questa conclusione”. In altri termini: le colonie più popolate e i l5 blocchi principali di colonizzazione costituiscono delle “nuove realtà sul terreno” che restano fuori dal campo del negoziato.
Da questo punto di vista, le discussioni che hanno preceduto la conferenza di Annapolis, il 27 settembre 2007, hanno fornito indicazioni eloquenti. Sulla questione centrale “dei termini di riferimento”, i palestinesi hanno ripetuto che intendevano attenersi alle basi fissate durante gli incontri di Oslo nel 1993, arricchite e precisate negli incontri successivi. Non soltanto le risoluzioni 242 e 338 dell’ONU dunque, ma anche parte delle conclusioni di Camp David (luglio 2000) e di Taba (gennaio 2001), oltre all’iniziativa di pace araba di Beirut (2002) e alla procedura definita dalla Road map di George W. Bush (2003).
Fin dall’ottobre 2007, un mese prima che si tenesse la conferenza, il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, si era premurato di precisare, in un’intervista diffusa dalla televisione palestinese che il futuro Stato di Palestina avrebbe dovuto comprendere integralmente la striscia di Gaza e la Cisgiordania (6205 chilometri quadrati). Ma per la parte israeliana, e con l’assenso americano, le basi del negoziato erano decisamente differenti. Un diplomatico israeliano importante, una settimana prima della apertura della riunione di Annapolis si espresse così: “Oggi, non è più questione di Camp David, di Taba o dei parametri di Clinton del dicembre 2000. Le circostanze e gli interlocutori non sono più gli stessi. Si ricomincia da zero o quasi”. A parte le inaggirabili risoluzioni 242 e 338, sempre ritualmente citate ma mai rispettate e la Road map, il cui calendario era da tempo scaduto, ma i cui meccanismi erano ancora accettati dalle due parti, la delegazione israeliana aveva messo al centro delle sue argomentazioni la lettera indirizzata da George W. Bush a Ariel Sharon nell’aprile 2004.
Nel settembre 2008, un personaggio della società politico-militaire israeliana, il generale Giora Eiland, che aveva presieduto il Consiglio nazionale di sicurezza dal 2004 al 2006, dopo aver servito per trentatre anni nell’esercito, in particolare al comando del dipartimento di pianificazione strategica, pubblica uno studio di 35 pagine nel quale si pronuncia chiaramente in favore di una frontiera completata da una barriera di sicurezza. E la nuova frontiera che egli propone nei due scenari studiati annette, come quella che è in costruzione, la maggior parte dei blocchi di colonizzazione della Cisgiordania. In contropartita, il generale Eiland propone diverse possibilità di scambio di territori, compreso un baratto triangolare Israele-Palestina-Egitto. Per Giora Eiland, la diffidenza, se non addirittura l’ostilità tra israeliani e palestinesi è tale che ogni negoziato sullo statuto finale deve prevedere l’esistenza di una barriera di sicurezza. Dopo il fallimento del processo di Oslo, la seconda Intifada e l’emersione potente di Hamas, l’opinione pubblica israeliana, sostiene il generale, è sempre meno favorevole al principio “la terra in cambio della pace”. Ed è quello che conferma un’inchiesta dell’Istituto Nazionale degli Studi Strategici (INSS) di Tel Aviv secondo il quale la percentuale della popolazione ebraica di Israele favorevole a questo principio è scesa tra il 1977 e il 2007 dal 56 % al 28 %.
Altri strateghi vanno ancora più lontano. In un documento reso pubblico nel 2007, tre ex-ambasciatori e un generale, direttore dell’Istituto di Difesa nazionale valutano che la frontiera costituita dall’insieme muro-barriera non sia sufficiente. Una frontiera difendibile dovrebbe comprendere, secondo loro, una linea di separazione spinta verso l’est, fino alle alture e alle “regioni vitali dal punto di vista militare”. Questa frontiera dovrebbe conservare a Israele il controllo della vallata del Giordano, comportare l’allargamento del corridoio Gerusalemme-Tel Aviv e la creazione di una zona di difesa di Gerusalemme. Questi progetti attirano poco l’attenzione, se non tra i palestinesi. Ma, a parte i palestinesi e i difensori dei diritti umani, chi se ne preoccupa? Di fatto, i dirigenti israeliani, incoraggiati dalla loro impunità quando ignorano il diritto internazionale, le risoluzioni dell’ONU e anche i loro stessi impegni, sono convinti che tutto ciò che utile alla sicurezza d’Israele sia loro permesso. Ed è proprio in virtù di tale convinzione che lo Stato Maggiore e il governo israeliano hanno scatenato nel 2002 l'operazione “Baluardo”, nel dicembre 2008 l’operazione “Piombo fuso”, contro la striscia di Gaza, nel corso della quale, in tre settimane, 1.330 palestinesi, per più della metà civili, e 13 israeliani, di cui 10 soldati, sono stati uccisi. Ufficialmente, si trattava di porre fine ai tiri di razzi e di mortai sul sud d’Israele, dalla striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas. L’esame attento della cronologia dei fatti ha mostrato che nella rottura del cessate-il-fuoco fissato nel giugno 2008, le responsabilità non erano certo del campo palestinese. Ma questo piccolo dettaglio è scomparso, seppellito dalla riprovazione che provocano in Europa e negli Stati Uniti le tesi ed i metodi di Hamas. La divisione tra i palestinesi, gli scontri tra al-Fatah e Hamas, l’esistenza di due entità territoriali palestinesi distinte, una, la striscia di Gaza (386 chilometri quadrati), sotto il controllo di Hamas, l’altra, la Cisgiordania (venti volte più grande della striscia!), sotto il controllo di al-Fatah, così come il rifiuto di una parte della comunità internazionale, tra cui l’Unione europea, d’intrattenere relazioni con Hamas, hanno svolto un ruolo importante nel fornire ad Israele argomentazioni che le hanno permesso di mettere in atto e di difendere le sue scelte unilaterali.
Nella visione mediatica del conflitto, estremamente approssimativa, la responsabilità israeliana, la scelta deliberata della forza contro il negoziato è stata eclissata dalla diffidenza, direi l’ostilità che suscita Hamas, di cui non si discutono mai le spesso ragionevoli argomentazioni, e di cui si dimentica di essere il legittimo rappresentante del popolo palestinese, avendo stravinto le elezioni nel 2006. Si sperava nell’arrivo al potere di Barack Obama, ma la canzone non è cambiata e nemmeno i ritornelli! Ci si aspettava uno sguardo americano più critico sulla politica israeliana, ma nulla di tutto questo è successo. Un solo esempio. Rispondendo a Benyamin Netanyahou, che ripeteva, appena eletto, il suo rifiuto circa la creazione di uno Stato palestinese, Barack Obama ha ricordato, subito imitato dal Segretario di Stato Hillary Clinton, che la soluzione per gli Stati Uniti si fonda sull’esistenza di due Stati. E’ stato tirato in ballo George Mitchell come inviato speciale del presidente in Medio Oriente, ma dopo due anni tutto è praticamente fermo, se si eccettua la colonizzazione! E l’Europa tace. I due documenti dei capi delle missioni diplomatiche a Gerusalemme e a Ramallah potevano far sperare forse in una riflessione. L’Europa ufficiale ha preferito tenerli nel cassetto.

5. L’insabbiamento della documentazione UE

Torniamo al 2005, quando i diplomatici di stanza in Israele spedirono il primo rapporto a Bruxelles. Qual era il loro intento? Almeno una parte dei suoi promotori speravano che questo “Rapporto su Gerusalemme-Est” avrebbe contribuito a tenere vivo un dibattito, in seno alla Commissione, o meglio ancora, nel Parlamento europeo, che portasse alla definizione di una politica comune in Medio Oriente. Secondo loro, in ogni caso, questo lavoro comune non doveva restare confidenziale. Una nobile ambizione democratica. Ma questi ottimisti dovettero ben presto ricredersi! Con sorpresa e anche delusione per alcuni di loro, fin dalla trasmissione a Bruxelles del rapporto del novembre 2005, Javier Solana, responsabile per la politica estera e della sicurezza comune, condusse l’offensiva contro la pubblicazione ufficiale del documento. La sua motivazione, secondo un diplomatico a conoscenza del dossier, era semplice, dal momento che il testo non raccoglieva un larghissimo consenso nelle capitali europee per essere pubblicato e soprattutto utilizzato come documento di lavoro a Bruxelles e a Strasburgo.
La Germania, che sistematicamente si rifiuta, per ragioni storiche evidenti, a formulare critiche troppo severe nei confronti d’Israele, ma anche, l’Italia e i Paesi Bassi in particolare, rifiutarono di farsi carico delle considerazioni e delle conclusioni del rapporto. Anche il ministro degli Esteri britannico, Jack Straw, nel corso di una riunione del Consiglio europeo, di cui stava assumendo la presidenza, ritenne opportuno non far proprio il documento e quindi di non pubblicarlo, per non interferire, questa la motivazione ufficiale, con il processo elettorale israeliano, Erano infatti previste elezioni legislative anticipate per la fine del mese di marzo 2006 in Israele. Si trattava di individuare il successore di Ariel Sharon, in coma dopo un ictus cerebrale, a gennaio. Le elezioni furono vinte, di pochissimo, dal partito Kadima il cui leader, Ehoud Olmert, che aveva assunto l’interim di Sharon, diventò Primo ministro.
Ma il documento non rimase a lungo “confidenziale”. Un quotidiano britannico l’aveva nel frattempo pubblicato sul suo sito Internet. E questa rivelazione aveva suscitato, oltre che una certa irritazione da parte israeliana e una visibile soddisfazione da parte dei palestinesi, diverse domande in Europa, e oltre, tra gli osservatori avvertiti della situazione in Medio Oriente. Per gli esperti del problema, giornalisti, diplomatici, membri delle ONG, il rapporto conteneva poche novità, se si eccettua un particolare importante: il documento dimostrava con chiarezza che le cancellerie europee disponevano di buone informazioni sulla realtà della vita quotidiana a Gerusalemme-Est e in Cisgiordania, sulla colonizzazione, sulle discriminazioni, sulla costruzione del muro di separazione, sulle demolizioni di case palestinesi e sul logorio burocratico dei palestinesi. E non era poca cosa!
Di fatto, questo rapporto dovuto alle osservazioni di testimoni tenuti, per le loro funzioni, ad un uso misurato delle parole, confermava buona parte delle critiche fatte ad Israele dall’Autorità palestinese. Dimostrava, ad esempio, e nel modo più chiaro possibile, che la parte palestinese non era la sola, e non ci voleva molto a capirlo, a non rispettare gli impegni contenuti nella Road map pubblicata nell’aprile 2003, sotto il patrocinio del “Quartetto” (Nazioni unite, Stati Uniti, Unione europea, Russia). Nelle disposizioni previste nella “Fase 1” della Road map, la parte palestinese doveva impegnarsi a porre termine alle violenze e al terrorismo. Alla parte israeliana veniva chiesto di mettere fine alle espulsioni, agli attacchi contro i civili, alle confische e/o demolizioni di case e di proprietà palestinesi, sia che si trattasse di misure punitive sia che fossero decisioni destinate favorire costruzioni israeliane. Il governo israeliano doveva anche “congelare” lo sviluppo delle colonie nei territori occupati e smantellare tutte le colonie “selvagge” create dopo marzo 2001.
Certamente l’Autorità palestinese, i cui servizi di sicurezza erano stati in gran parte distrutti dall’esercito israeliano durante l’“Operazione Baluardo” del marzo 2002, non era stata capace di porre termine alla violenza e al terrorismo. Ma il governo israeliano, che era perfettamente padrone delle sue scelte e dei suoi atti, non aveva rispettato nessuno dei suoi impegni della Road map. Quando il rapporto dei diplomatici era stato redatto, il muro di separazione costruito in assoluta illegalità all’interno della Cisgiordania, superava già i 220 chilometri di lunghezza. Quanto alla colonizzazione, non soltanto non era stata congelata ma, al contrario, il suo ritmo di crescita superava di gran lunga il tasso di crescita naturale della popolazione israeliana
Il rapporto 2008, che era destinato in principio al Dipartimento delle relazioni esterne dell’Unione europea, e cioè ai servizi di Javier Solana, resta ancora, un “documento di lavoro confidenziale” dallo statuto incerto. All’inizio, alcuni Stati-membri, fra i quali la Francia, il Regno Unito e la Spagna, non erano contrari a dare a questo documento maggiore visibilità, soprattutto all’indomani del viaggio di Hillary Clinton a Gerusalemme, dove aveva usato con i dirigenti israeliani un linguaggio almeno altrettanto critico rispetto a quello del documento. Ma una volta ancora, in mancanza di consenso, questo documento non ha potuto essere attribuito ai Ventisette e la sua pubblicazione “ufficiale” è stata respinta. Al Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese, coloro che conoscono il dossier considerano il rapporto come una “banca dati” seria, destinata a valutare l’impegno delle due parti rispetto alla Road map, e eventualmente a nutrire la discussione a Bruxelles per la definizione della politica dell’Unione europea.
Ufficialmente, questa politica si fonda sui principi enunciati dalla risoluzione 242 dell’ONU che chiede il “ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati”. Perché non ricordare con fermezza questa esigenza al governo israeliano? Perché non ricordargli anche che l’Europa ha sottoscritto le raccomandazioni contenute nel giudizio della Corte Internazionale di giustizia che dichiarava illegale la costruzione del muro? In base a quali precauzioni, a quali reticenze, l’Europa deve continuare a essere meno lucida e meno coraggiosa del giornalista israeliano Akiva Eldar che nel luglio 2006 scriveva su Haaretz: “Nelle nostre relazioni con i nostri vicini, la forza è il problema, non la soluzione …”?

6. Conclusioni

Nelle mie intenzioni, esisteva ancora un paragrafo, dal titolo assai esplicito: “Le tappe del terrorismo di Stato israeliano” ma ho ritenuto di fermarmi qui, per non allontanare il lettore da quello che ho ritenuto essere l’obiettivo essenziale di questo scritto e cioè il processo di espropriazione del popolo palestinese nel punto nevralgico della Palestina, Gerusalemme. Ci sarà modo di riprendere l’argomento e concentrare l’attenzione sul terrorismo di Stato israeliano.
Dedicherò quindi quest’ultimo paragrafo, quello conclusivo, alla ricostruzione, soltanto per l’anno in corso il 2010, del balletto israelo-statunitense, con accompagnamento palestinese, sul “processo di pace”. Mi servirò della collezione di la Repubblica, dal 16 marzo al 9 novembre, giorno in cui spero di porre fine anche al mio lavoro su Gerusalemme-Est. Balletto che si ripete ormai da più di sedici anni!
Partiamo dalla fine. Dal 9 novembre.
“Nuovi insediamenti a Gerusalemme ‘Così Israele distrugge i negoziati’. Sì a 1.300 alloggi mentre Netanyahu è negli USA. Protestano i palestinesi”.
Questo il lungo titolo a pagina 19. Di seguito riportiamo l’articolo di Fabio Sciuto, inviato di la Repubblica a Gerusalemme.
“Con un tempismo destinato a mettere ancora più in chiaro qual è lo stato delle relazioni fra Stati Uniti e Israele, ieri la commissione per l’edilizia del ministero dell’Interno ha pubblicato il bando per la costruzione di mille e trecento nuove abitazioni a Gerusalemme-Est, contravvenendo alla esplicita richiesta di Washington di congelare i nuovi insediamenti per favorire il riavvio dei negoziati di pace con l’ANP. L’annuncio è venuto proprio mentre il premier israeliano Netanyahu è in visita in America ed è stato subito bollato come ‘molto deludente’ dal dipartimento di Stato USA. Immediata anche la reazione dei palestinesi che, per bocca del negoziatore Saeb Erekat, hanno accusato Netanyahu di voler ‘distruggere’ i colloqui.
La politica coloniale israeliana rappresenta, al momento, la principale ragione dello stop forzato ai negoziati di pace tra israeliani e palestinesi che non riprenderanno la trattativa se prima non ci sarà il blocco delle nuove costruzioni. E lo stallo del negoziato – dopo tante energie spese – è frustrante per l’Amministrazione Obama. Il programma approvato ieri dal comitato per l’edilizia della municipalità di Gerusalemme prevede la costruzione di 978 appartamenti a Har Homa e di altre 320 unità a Ramot, quartiere ebraico sempre nel settore est della città.
Nei primi mesi dell’anno, la pubblicazione di un altro piano per la costruzione di 1.600 alloggi a Gerusalemme-Est, avvenne durante una visita del vice presidente Usa Joe Biden che aveva l’intento di ricucire i tesi rapporti fra Israele e Stati Uniti per il rifiuto israeliano di attuare una moratoria degli insediamenti. Il fatto fu giudicato uno sgarbo diplomatico e causò una seria crisi fra i due paesi. Anche questa volta la pubblicazione del piano ha di fatto coinciso con l’incontro che Netanyahu ha avuto domenica sera con Biden a New Orleans. Incontro nel quale il premier è tornato a incalzare l’Amministrazione Usa per una opposizione più dura sull’Iran e il suo programma nucleare. Per Netanyahu ‘l’unico modo per assicurarsi che l’Iran non ottenga armi nucleari è una credibile minaccia militare’, affermazione sulla quale Biden ha glissato limitandosi a sottolineare che le attuali sanzioni contro Teheran hanno un ‘impatto misurabile’, diversamente da un’azione militare che potrebbe avere esiti devastanti in tutto il Medio Oriente”.
Dall’articolo di Fabio Sciuto emerge un dialogo fra sordi, con un premier israeliano all’attacco di un Obama in forte crisi di credibilità e battuto alle elezioni di medio termine. Torniamo ora al 15 marzo e vediamo i titoli relativi all’annuncio dei 1.600 alloggi cui accenna Sciuto, durante la visita di Biden.
15 marzo. “Colonie, contro Israele la rabbia Usa. Obama furioso, la Clinton attacca Netanyahu: ci hai offeso. Il premier si scusa”.
E il giorno dopo?
“Netanyahu: ‘Continuiamo a costruire’ Nuova sfida a Obama. L’ambasciatore in Usa: ‘Crisi di proporzioni storiche’”.
L’articolo comincia con la dichiarazione fatta da Netanyahu alla Knesset: “Le costruzioni a Gerusalemme-Est continueranno nella stessa maniera in cui sono andate avanti negli ultimi 42 anni”. Più chiaro di così!
17 marzo. Paginone centrale e due titoli.
“Colonie, l’ira palestinese, barricate contro la polizia. A Gerusalemme scontri con gli israeliani: arresti e feriti”
“Il Pentagono: l’intransigenza di Netanyahu mina i rapporti tra l’America e il mondo arabo. L’irritazione della Casa Bianca. Clinton: ‘Israele dia un segnale’”
20 marzo. “‘Stato palestinese in due anni’. Usa e Russia avvertono Israele. Martedì alla Casa Bianca vertice Obama-Netanyahu”
Da Gerusalemme, Alberto Stabile, parla di pace fatta fra Obama e Netanyahu, almeno secondo Fox New. Netanyahu e la Clinton si sono telefonati e mercanteggiando un po’ l’Amministrazione Obama finisce con l’accettare un pacchetto di misure reciproche, questa la proposta di Netanyahu, per ristabilire la fiducia con i palestinesi. Senza nessun impegno specifico e, soprattutto, nessun cambiamento di programma sulle costruzioni!
24 marzo. “Netanyahu avverte la Casa Bianca: ‘Negoziato fermo per un anno’. Su Gerusalemme non trattiamo. E parte un nuovo insediamento”
L’articolo di Angelo Aquaro, inviato a New York, comincia così: “Se i palestinesi non rinunceranno alla richiesta di fermare gli insediamenti, i colloqui di pace potrebbero slittare di un anno. Non poteva cominciare in modo peggiore l’atteso incontro alla Casa Bianca, novanta minuti faccia a faccia, tra Barak Obama e Bibi Netanyahu. […] ‘Non dobbiamo farci intrappolare da una richiesta illogica e irragionevole’”. Dichiara Bibi! E l’articolo continua: “Uno schiaffo dopo l’altro. Anche perché quella ‘richiesta illogica e irragionevole’ viene pure dagli Usa, che con tutto il Quartetto (Ue, Onu, Russia e Stati Uniti) hanno chiesto il blocco degli insediamenti”. E mentre i due sono a cena, “da Israele è arrivato l’affronto; il via libera alla costruzione di complesso di 29 nuove abitazioni che sostituiranno un vecchio albergo palestinese sempre a Gerusalemme-Est. Già la sera prima, durante il discorso all’Aipac, la lobby ebraica americana, Bibi aveva rintuzzato la richiesta di stop fatta davanti alla stessa platea da Hillary Clinton, che aveva invitato Israele a fare ‘scelte difficili ma necessarie per la pace’. ‘Gerusalemme non è una colonia, è la capitale d’Israele’ aveva tuonato il leader. ‘Il popolo ebraico costruì Gerusalemme 3000 anni fa e continua a farlo ora’”. E mi pare che basti. Altro che disgelo!
Si arriva così al tragico 31 maggio, quando la flottiglia Freedom, che recava aiuti umanitari ai palestinesi, rinchiusi in quel carcere a cielo aperto che è Gaza, viene assaltata dalla flotta israeliana. Risultato: nove morti tra i passeggeri della Mavi Marmara, la nave turca che guidava il convoglio.
Un paginone! E una doppia serie di titoli.
“Il blitz. Israele assalta le navi della pace dirette a Gaza con gli aiuti nove morti, oltre trenta feriti. I settecento attivisti portati a terra e arrestati”
“Paura di una nuova Intifada. Netanyahu nella tempesta, salta il vertice alla Casa Bianca. La stampa: ‘Rischiamo l’isolamento’”.
Netanyahu è in viaggio per il Canada ed esita pure a tornare indietro. Diamo la parola a la Repubblica:
“Inversione di marcia più che giustificata, perché stavolta Israele rischia di pagare un prezzo molto alto. Le tragiche conseguenze dell’arrembaggio notturno hanno lasciato interdetti persino quei paesi europei che intrattengono rapporti amichevoli con Israele come l’Italia e la Germania i quali stavolta non hanno potuto sottacere la protesta.
Sarà difficile a questi paesi opporsi alla linea di condotta tracciata dall’alto Rappresentante dell’Ue per la Politica estera e la Difesa, Khateryne Ashton, che ha subito evocato l’esigenza di un’inchiesta internazionale(d’accordo in questo con il Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon), e la necessità di garantire al milione e mezzo di palestinesi che vivono a Gaza condizioni di vita più umane, spezzando il cordone sanitario che da quasi tre anni soffoca la Striscia.
Persino al di là delle previsioni degli organizzatori della flottiglia anti-blocco, i fatti di ieri notte potrebbero segnare una svolta nell’atteggiamento internazionale che finora ha garantito appoggio all’embargo messo in atto da Israele contro la popolazione di Gaza. Soprattutto dopo aver constatato che nessuno dei due obiettivi del blocco (la rivolta della popolazione contro Hamas e la riduzione della minaccia terroristica portata dalle milizie islamiche) può dirsi realizzata.
Dunque, per poter continuare a mantenere sbarrati i valichi di Gaza Israele avrà più che mai bisogno degli Stati Uniti, ma basta leggere il cauto comunicato emesso dalla Casa Bianca per rendersi conto che il tempo delle cambiali in bianco è scaduto”.
Ma i giorni successivi stempereranno pian piano tutto, fino ad arrivare al 21 giugno, quando verrà fuori la notizia che gli Stati Uniti si ritengono soddisfatti. A luglio poi tornerà di nuovo l’entusiasmo, con Netanyahu che parla di Abu Mazen come suo partner, con Obama che si sbilancia addirittura sui tempi!
Il 22 agosto, a sorpresa,
Obama rilancia il processo di pace. Negoziati diretti Israele – palestinesi. A settembre gli incontri diretti dei due leader alla Casa Bianca. Il negoziatore palestinese Erekat: “Andremo ma non c’è lo stop alle colonie”. “Siamo disposti a trattare”. Netanyahu e Abu Mazen ‘costretti’ ad accettare l’invito.
L’articolo da New York di Federico Rampini si apre con notevole enfasi, se non con toni trionfalistici. “Barak Obama si mette in gioco sul terreno minatodel Medio Oriente. L’America rilancia il dialogo di pace tra Israele e Palestina, senza precondizioni, con scadenze ravvicinate: il 2 settembre a Washington il primo giro di contatti diretti e l’obiettivo di raggiungere l’accordo ‘entro un anno’. Cioè un risultato da incassare entro il primo mandato di Obama, facendo così della pace israelo-palestinese un elemento di bilancio di questa presidenza.
E’ un rischio che altri presidenti hanno preferito non correre, viste le delusioni di precedenti tentativi di mediazione. Questa Amministrazione ci riprova, pur avendo scarse garanzie, ma con grandi ambizioni. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha annunciato ieri che i negoziati avranno per scopo quello di ‘risolvere tutte le questioni relative allo status finale’ di Israele e Palestina.
2 settembre. Netanyahu: “Abu Mazen partner di pace”. Obama: “possiamo farcela in un anno. Ma il premier israeliano non s’impegna sullo stop alle colonie. “Cediamo Gerusalemme-Est all’Anp”. Intervista-shock di Barak: “Un regime speciale per la Città Vecchia.
L’articolo di Angelo Aquaro comincia così: “Possiamo farcela in un anno: già troppo sangue è stato versato. Israeliani e palestinesi non devono lasciarsi sfuggire questa opportunità”. Barak Obama vede la pace possibile e rilancia il sogno di un nuovo Medio Oriente”.
Dunque a settembre ci si prepara agli incontri diretti, viene fissato un nuovo incontro per il 16, ma poi …
A ottobre, sempre peggio. Di novembre abbiamo già parlato.
Di seguito i titoli significativi dal 2 giugno al 16 ottobre.
2 giugno. La crisi. Israele sfida l’Onu: “Ipocriti”. La Nato: “Liberate i militanti”.
3 giugno. Netanyahu difende il blitz: “Era una flottiglia di terroristi”. L’Onu: un’inchiesta sulla strage. L’Italia vota no con Usa e Olanda. Abu Mazen: “Israele ha commesso un crimine”.
4 giugno. Il Vaticano a Israele: “Via il blocco di Gaza”.
7 giugno. Il Papa: “Occupazione ingiusta. Israele destabilizza la regione.
18 giugno. Gaza. Israele allenta l’embargo ma il blocco navale resta attivo.
21 giugno. La svolta d’Israele su Gaza: “Via libera a tutti i beni civili. Resta solo il blocco delle armi (!?)”. Gli Usa: siamo soddisfatti.
Nello stesso giorno Netanyahu incontra Blair rappresentante del Quartetto. Sempre gli stessi personaggi! E si preannuncia un incontro con Obama per il 6 luglio.
6 luglio. L’Amministrazione spera in concessioni che facciano tornare i palestinesi al negoziato. Netanyahu da Obama per ricucire. Alla Casa Bianca un vertice per superare i contrasti. “O le scuse o la rottura dei rapporti”. Ultimatum della Turchia a Israele. La replica: “Non le avrete”. Cieli negati ai voli militari.
7 luglio. Obama preme su Netanyahu “Colloqui diretti con i palestinesi”. Il premier israeliano: “Pronti a prenderci rischi”.
3 settembre. “Ci sono distanze incolmabili, remote le possibilità d’intesa”. L’ex negoziatore Usa Miller: troppa sfiducia tra le parti.
16 settembre. La Clinton chiede una svolta: “Israele fermi gli insediamenti”.
25 settembre. Israele, salta il compromesso sulle colonie. Netanyahu pronto a rallentare i nuovi insediamenti. I palestinesi: “Stop o niente negoziati”.
27 settembre. Israele, i coloni lanciano la sfida: “Costruiremo ancora, è casa nostra”. Scade il blocco degli insediamenti. Netanyahu: “Il dialogo continui”.
28 settembre. Colonie, gli Usa criticano Netanyahu. “Delusi per la ripresa dei cantieri. Gaza, uccisi tre palestinesi:”Raid israeliano”.
16 ottobre. Gerusalemme-Est, via a nuovi insediamenti. Netanyahu sblocca 240 alloggi. I palestinesi: ucciso il negoziato. Condanna degli Usa.
Il resto è silenzio!

P. Buttafuoco recensisce “Capire le rivolte arabe” su “Panorama”

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A pochi passi da casa nostra si sta facendo la storia. Capire le rivolte arabe non è solo un imperativo che ci riguarda, ma anche il titolo di un libro proprio necessario. È quello di Pietro Longo e Daniele Scalea, due studiosi orientalisti e non due generici “analisti” improvvisati, quelli che dai giornali ancora prima di verificare notizie e accadimenti fanno da mosche cocchiere alla xenofobia e all’islamofobia.

Quello che sta succedendo vicino a noi, dal Bahrain alla Libia, viene spiegato incrociando dati, cifre, verifiche economiche e, ovviamente, illustrando le specificità culturali di un mondo che non è speculare rispetto ai pregiudizi che ci siamo costruiti.

È dunque un lavoro neutrale per come può essere considerato tale una ricerca scientifica.

Particolarmente interessanti i capitoli sugli scenari futuri.

È edito dall’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, e non si tratta di esercitazioni scritte sull’acqua ma di una fotografia presa dal vero.

Recensione pubblicata nel settimanale Panorama, 28 settembre 2011, anno XLIX n. 40 (2368), pag.142.

 

 

Pietro Longo, Daniele Scalea
Capire le rivolte arabe. Alle origini del fenomeno rivoluzionario
Cartografie di Lorenzo Giovannini
IsAG – Avatar 2011
 

CLICCARE QUI PER INFORMAZIONI SULL’OPERA E SU COME ACQUISTARLA

 


Siria: il patriarca maronita vola in aiuto del regime siriano

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Fonte: Afrique Asie (11/9/11)

Quando il 5 settembre Nicolas Sarkozy ha ricevuto all’Eliseo il nuovo patriarca maronita Mgr Béchara Raï quasi sicuramente non si aspettava che il capo della Chiesa maronita gli propinasse senza farsi troppi problemi una lezione di geopolitica che demolisce completamente la nuova dottrina che il presidente francese sta adottando nei confronti del mondo arabo in generale e del Medio Oriente in particolare, nello specifico la promozione di un Islam politico ‘moderato’. In base a tale dottrina la Francia non si farebbe più garante dei diritti delle minoranze in Oriente, in particolare dei Cristiani d’Oriente, ma dei diritti individuali dell’uomo. Questa dottrina è servita da alibi per poter intervenire in Libia in nome della ‘protezione della popolazione civile’, e al momento in Siria, mentre non si applica in Palestina, dove la sicurezza dello stato di Israele, considerato come uno stato ebraico, prevale sempre e in ogni caso su considerazioni di altro genere, tra cui la difesa dei diritti nazionali e individuali dei palestinesi sotto occupazione.

In occasione del suo incontro con il presidente francese Nicolas Sarkozy il 5 settembre e il giorno seguente con il suo ministro degli Affari Esteri Alain Juppé, i due hanno informato il patriarca libanese che il ‘regime di Bachar al-Assad è finito’ e che i cristiani libanesi devono ormai prepararsi a negoziare con un nuovo regime, controllato ufficialmente dall’Islam politico a maggioranza sunnita di Damasco, un Islam che i due interlocutori francesi hanno presentato come ‘moderato’ e ‘democratico’.

Rovesciare il regime siriano

Secondo fonti vicine alla delegazione maronita che lo accompagnava nella sua visita ufficiale, il patriarca Raï ha respinto in blocco questa nuova dottrina francese. Non soltanto l’ha dichiarato in termini poco diplomatici all’Eliseo e al Quai d’Orsay, ma anche in molteplici occasioni pubbliche durante la sua visita.

Competente analista dell’evoluzione della diplomazia francese, Mgr Raï ha capito che la Francia non cerca veramente di difendere i diritti dell’uomo in Siria, bensì di rovesciare un regime alleato di Teheran e degli Hezbollah libanesi nel nome di un nuovo assetto regionale dopo la caduta del regime tunisino e di quello egiziano. Per lui non si tratta quindi di ‘primavera araba’, bensì di ‘inverno arabo’.

Evocando in questi termini la situazione in Siria davanti alla Conferenza dei vescovi di Francia, il patriarca Raï ha difeso il presidente Assad ed espresso ‘le sue paure per la transizione’ in Siria, che a suo dire potrebbe rappresentare una minaccia per i cristiani d’Oriente. Davanti ai prelati francesi egli ha detto: «Mi sarebbe piaciuto che al presidente Assad si fossero concesse più opportunità per portare a termine le riforme politiche che egli ha cominciato».

«In Siria il presidente non ha facoltà di decidere le cose da solo» ha affermato Mgr Raï. «Al governo c’è un grande partito, il partito Baas. Assad è una persona di mentalità aperta, ha studiato in Europa, si è formato in Occidente, ma da solo non può fare miracoli, poveretto! Abbiamo sofferto per la Siria e il suo regime, non lo dimentico, ma vorrei essere obiettivo. Bachar al-Assad ha avviato una serie di riforme politiche. Era indispensabile dare maggiore spazio al dialogo interno. Più possibilità di appoggiare le riforme necessarie. Noi non siamo dalla parte del regime, ma temiamo molto la fase della transizione» ha detto Mgr Raï. «Dobbiamo difendere la comunità cristiana. Sì anche noi dobbiamo resistere».

Aiutare i palestinesi a liberare la loro terra

Illustrando la politica del patriarcato maronita in un’intervista all’emittente satellitare saudita al-Arabiya, Mgr Raï – in rottura totale rispetto al suo predecessore, il cardinale Sfeir – ha respinto le rivendicazioni della destra libanese, rappresentata dalla coalizione del “14 Marzo”, composta essenzialmente da una minoranza di parlamentari che pretendono il disarmo della resistenza libanese rappresentata da Hezbollah, alleato di Siria e Iran. Secondo lui, Hezbollah dovrà procedere al disarmo “soltanto dopo che i palestinesi saranno tornati nelle loro case e avranno liberato la loro terra”.

Mgr Raï ha chiesto a questo proposito alla comunità internazionale di “aiutare a liberare la zona e a facilitare il ritorno dei palestinesi nella loro terra”. «Soltanto allora diremo a Hezbollah di consegnare le proprie armi, che saranno diventate inutili, in quanto collegate a numerose questioni» ha dichiarato Mgr Raï.

Accennando poi ai tumulti popolari nei paesi arabi, ha detto: «Noi non vogliamo che si sacrifichino delle vite umane per riforme che noi appoggiamo».

Dopo aver esercitato pressioni sulla comunità internazionale affinché ottenga che Israele ottemperi alle risoluzioni internazionali, per “togliere a Hezbollah ogni pretesto per conservare il proprio arsenale”, per ciò che concerne il futuro della Siria e le ricadute delle agitazioni popolari siriane sul Libano Mgr Raï ha dichiarato: «È vero che la Siria è uscita militarmente dal Libano, ma continua ad avere rapporti con alcuni libanesi. In Libano cominciamo a pagare il prezzo dei problemi che la Siria ci pone, a causa della chiusura delle frontiere tra essa e altri paesi. Se la situazione in Siria dovesse peggiorare, se dovesse affermarsi un regime ancora più duro di quello attuale, per esempio quello dei Fratelli Musulmani, in questo paese ne pagherebbero il prezzo i cristiani, con massacri o un esodo massiccio. Sotto gli occhi abbiamo l’esempio dell’Iraq».

Mgr Raï ha anche aggiunto: «Se in Siria cambierà il regime e se i sunniti conquisteranno il potere, stringeranno alleanza con i loro confratelli sunniti in Libano e questo esacerberà ancor più la situazione tra sciiti e sunniti. A noi, come Chiesa, interessa che non ci siano violenze. In Oriente non si possono trasformare così facilmente le dittature in democrazie. I problemi dell’Oriente devono essere risolti in modo conforme alla mentalità orientale».

Vendere la pelle dell’orso prima di averlo abbattuto

In conclusione, Mgr Raï ha denunciato l’atteggiamento dei paesi occidentali nei confronti della situazione in cui versano le minoranze nella regione e ha chiesto: «Ma di quale democrazia stanno parlando?».

Queste dichiarazioni, fatte su suolo francese, hanno irritato l’Eliseo e il Quai d’Orsay. Sull’altro versante, gli alleati libanesi e regionali del regime siriano hanno esultato. Questo è il caso, tra i molti, del segretario generale della divisione libanese del partito Baas filo-siriano, Fayez Chokr, che dopo aver incontrato l’ex presidente maronita Emile Lahoud, alleato di Damasco, ha reso un appassionato omaggio al patriarca Béchara Raï per “la sua importante presa di posizione dal palazzo dell’Eliseo” e ha sottolineato: «Di fronte a una tale presa di posizione, ogni nazionalista e ogni arabista non può che inchinarsi con deferenza».

Facondo nello stesso modo è stato l’ex deputato Élie Ferzli, vicino a Damasco, che ha reso ugualmente omaggio alle ultime prese di posizione di Mgr Raï, che senza peli sulla lingua ha dichiarato che “la comunità internazionale presta attenzione esclusivamente agli interessi di Israele” e che “la frammentazione dei paesi arabi è propizia a Israele”.

Parallelamente a queste prese di posizione del capo della Chiesa maronita a favore del regime siriano, un’altra sorpresa attendeva gli alleati della Francia in Libano. Il Mufti sunnita del Libano, Rachid Kabbani, abbandona il clan Hariri e si avvicina al nuovo capo del governo Najib Mikati e a Hezbollah filo-siriano.

Nicolas Sarkozy non avrà venduto la pelle dell’orso (siriano) prima ancora di averlo abbattuto? A Beirut sono in molti a pensarlo e ormai lo dicono apertamente, arrivando addirittura a prevedere che Sarkozy lascerà l’Eliseo ben prima dell’annunciata caduta di Bachar al-Assad.

Traduzione di Anna Bissanti

http://www.afrique-asie.fr/index.php/category/moyen-orient/actualite/article/syrie-le-patriarche-des-maronites-vole-au-secours-du-regime-syrien-2090

Círculos de solidaridad

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Bruno Amoroso (Profesor de Economía Internacional y Desarrollo en la Universidad de Roskilde en Dinamarca), en su libro Europa y el Mediterráneo, desarrolla una interesante teoría sobre la regionalización de la economía frente a la globalización. El trabajo de Amoroso se basa en las sinergias y las peculiaridades de la zona euromediterránea.

De este modo, el autor identifica realidades regionales a nivel macroeconómico – que, por lo tanto, incluyen varios Países – que pueden tomar el camino de un desarrollo sostenible centrándose en una fuerte interacción económica y cultural. Este mecanismo no se basa en la estandarización de la producción, sino en la valorización de las características típicas de cada nación favoreciendo el libre intercambio comercial entre los territorios vecinos.

Esta teoría geo-económica conduce a un reposicionamiento de las economías más fuertes en la zona. Estos Países ya no tendrían que esforzarse para “comerse” a las economías más débiles, explotando su mano de obra y materias primas baratas, sino más bien actuar como “locomotora” del proceso de desarrollo de toda la región a la que pertenecen.

Este cambio se lograría a través de la voluntad de compartir el know-how en sectores clave de la economía regional, sobre todo la agricultura, que es la principal actividad en zonas del norte de África y de Oriente Medio y registra una fuerte brecha entre el norte y el sur del Mediterráneo. Nótese que se habla de intercambio mutuo de conocimiento y no de un esquema “copiar y pegar” de tecnologías innovadoras. Este último proceso llevaría a una mera externalización de la producción, provocando que se mantenga una tendencia a la globalización neo-colonialista, sin perspectivas de sostenibilidad a largo plazo.

El policentrismo descrito por Amoroso lleva a la elaboración de un modelo de círculos de solidaridad, o sea la identificación de cuatro meso-zonas en las que la palabra clave para el desarrollo sostenible es la conservación y el enriquecimiento de la diversidad entre las áreas.

Esto, según el autor, permitiría alcanzar la estabilidad interna y externa de las meso-áreas delineadas en relación con las otras regiones.
Esta teoría se puede aplicar a otras áreas del mundo, incluyendo América Latina. Desarrollando el tema para esta región, identificaremos en primer lugar las economías “líderes”, fundamentales para la determinación de las meso-regiones. Al hacerlo, podríamos desarrollar una hipótesis basada en las cuatro regiones siguientes:

1. Región mexicana. Esta área incluye México, Costa Rica, Cuba, República Dominicana, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panamá, Puerto Rico, Antigua, Barbuda, Bhamas, Barbados, Dominica, Jamaica, Granada, Haití, Saint Kitts y Nevis, San Vicente y las Granadinas, Santa Lucía, Trinidad y Tobago. Sin duda, dadas las dimensiones de su territorio y de su economía, el país “guía” sería México.

2. Región venezolana. Aquí están Venezuela, Colombia, Guyana, Guyana Francesa y Surinam. Venezuela, que ha empezado un proceso de desarrollo sostenible, representa la economía principal en esta meso-área.

3. Región brasileña, que incluye Brasil, Bolivia, Ecuador y Perú. Brasil es hoy una de las principales economías emergentes del mundo junto con las de Rusia, India, China y Sudáfrica (BRIC).

4. Región argentina, donde se encuentran Chile, Paraguay, Uruguay y Argentina. Esta última es rica en recursos minerales (como Chile), pero su economía ha sido capaz de apartarse de una dependencia de estas fuentes.

Cabe señalar que, en la representación gráfica, la intersección de los “Círculos de la Solidaridad” no es casualidad: representa la interacción de las meso-áreas, fenómeno que vuelve más consistente y estable el desarrollo de todo el continente. No se trata, por tanto, de un concepto basado en economías regionales cerradas, sino de una relación dinámica, tanto desde una perspectiva interna —la interacción entre los estados de la misma meso-área— como externa —entre los diferentes estados de la meso-regiones.

A diferencia de la región Euro-Mediterránea, América Latina tiene una ventaja importante: la cercanía cultural. De hecho, la diversidad cultural en la cuenca mediterránea es uno de los principales puntos críticos del modelo de Amoroso, ya que es el factor desencadenante de las más fuertes tensiones en la zona. Además, la región latinoamericana se caracteriza por tener antecedentes históricos muy homogéneos y por lo tanto, capaces de facilitar l​​a comprensión entre las partes.

El camino es largo, pero no imposible, dado que las “economías líderes” (Brasil, Argentina, México y Venezuela) parecen, aún con sus diferencias, capaces de llevar el liderazgo de todo el continente. Lo importante será no pasar de un policentrismo basado en un intercambio simétrico a un monocentrismo en el que las economías más fuertes tienden a afectar a las economías de los estados vecinos con un intercambio comercial asimétrico en su favor.

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* William Bavone estudió y se tituló en Economía Empresarial en la Universidad de Benevento en Italia.

(traduzione di puntodincontro.com.mx)

Il ruolo delle agenzie di rating

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Lo scorso 20 settembre l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha degradato il giudizio sulle obbligazioni italiane portandole da A+ ad A per quanto concerne il breve termine e da A1+ ad A1 relativamente al lungo periodo rivedendo in negativo le prospettive per i prossimi tempi (outlook) .
La motivazione addotta ufficialmente verte sul fatto che “le prospettive di crescita economica dell’Italia si stanno indebolendo”.
“Ci aspettiamo – si legge nel comunicato diramato dall’agenzia – che la fragile coalizione di governo e le differenze politiche all’interno del Parlamento continuino a limitare la capacità dell’esecutivo di rispondere in maniera decisa alle sfide macroeconomiche interne ed esterne”.
Sull’Italia peserebbe, secondo il parere dell’agenzia, l’assenza di un esecutivo solido e compatto e l’endemica riluttanza dei propri dirigenti ad applicare riforme strutturali necessarie a favorire la crescita.
Dall’unione di questi due fattori scaturirebbe quindi una sinergia negativa in grado di minare la capacità del paese di onorare il debito contratto che attualmente ammonta a 1.911,801 miliardi di euro.
Il premier Silvio Berlusconi ha tuonato contro la decisione di Standard & Poor’s, lamentando un pesante condizionamento operato dagli organi informativi sul giudizio emesso dall’agenzia, inscenando una reazione dettata dalle proprie antiche ed incrollabili idiosincrasie.
I giganteschi punti esclamativi che aleggiano sulle due maggiori agenzie di rating riguardano infatti ben altri argomenti.
Standard & Poor’s è controllata da McGraw Hill, la stessa compagnia che detiene oltre il 31% di Moody’s, il cui 12,5% dell’intero pacchetto azionario è posseduto da Warren Buffet.
Così, mente Warren Buffet, padroneggiando come nessun altro le ben note arti divinatorie della finanza, assimilava i derivati ad “Armi di distruzioni di massa”, l’agenzia Moody’s da egli parzialmente controllata conferiva la tripla A ad un numero esorbitante di Collateralized Debt Obligation (CDO) che si rivelarono poi pura spazzatura finanziaria.
Sempre Moody’s aveva mantenuto il giudizio A2 sulla banca d’affari Lehman Brothers pochi giorni prima che fallisse, mentre alla compagnia assicurativa AIG aveva accordato il giudizio A3 una decina di giorni prima che la Federal Reserve erogasse un prestito di 85 miliardi di dollari per evitarne la bancarotta.
Facendo entrambe riferimento al medesimo centro finanziario che raggruppa noti e facoltosi operatori finanziari – il McGraw Hill controllato a sua volta, per il 30%, da un consorzio formato da T Rowe Prince Associates, Vanguard Group, World Investors, Blackrock e State Street – Moody’s e Standard & Poor’s rappresentano una delle più eminenti espressioni del conflitto di interessi.
Detenendo quote considerevoli delle due agenzie di rating in questione, il gruppo finanziario che le controlla ha la capacità di influenzare pesantemente il mercato in pura chiave geostrategica, intaccando arbitrariamente la solidità degli Stati per mezzo dell’emissione di giudizi falsi e tendenziosi dettati da esigenze della più pura tempra politica.
E chi tra le agenzie di rating e il governo statunitense esista un rapporto di stretta dipendenza è un fatto che pochi oseranno contestare, specialmente dopo il licenziamento in tronco di Deven Sharma, analista di Standard & Poor’s reo di aver declassato gli Stati Uniti dalla tripla A ad AA+.
Nell’entourage di Barack Obama militano o hanno militato il direttore del National Economic Council Larry Summers, il Segretario al Tesoro Timothy Geithner, l’ex presidente dell’Economic Recovery Advisory Board Paul Volcker, l’ex Segretario al Tesoro Henry Paulson, il capo dello staff presidenziale William Daley, i funzionari Robert Rubin e Gene Sperling.
Sono tutti elementi che avevano fatto le fortune di Citigroup, Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Federal Reserve, Rotschild Group.
Non è un caso che i loro interessi coincidessero, nel caso specifico, con la degradazione dei debiti pubblici dei paesi dell’Eurozona, rientrante in una chiara strategia di guerra valutaria finalizzata a disintegrare l’Euro.
La fuoriuscita dall’Euro di Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna (i cosiddetti “PIIGS”) provocherebbe un’esorbitante impennata del valore della moneta – il cui cambio con il dollaro lambisce attualmente quota 1,40 – legato alla solidità strutturale della restante Germania.
Con un euro reso fortissimo dall’epurazione degli anelli deboli dell’Eurozona, la Germania incontrerebbe pesantissime difficoltà ad esportare le proprie merci – che raggiungerebbero prezzi esorbitanti – favorendo quelle cinesi e statunitensi, indicizzate alle rispettive monete mantenute a valori molto più bassi.

Le agenzie di rating, con le loro profezie ad orologeria, fungono quindi da strumento di pressione sui governi affinché operino determinate scelte a scapito di altre, per conto di alcuni apparati finanziari connessi non troppo segretamente al governo degli Stati Uniti, che hanno tutto l’interesse a creare instabilità in seno al Vecchio Continente.

Destabilizzazione interna ed intervento NATO

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Si è tenuto sabato 24 settembre 2011 alle ore 18.00 a Benevento la conferenza “Destabilizzazione interna ed intervento NATO: dal Kosovo alla Libia”, presso il Centro di Cultura “Raffaele Calabrìa” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Piazza Orsini.

Il relatore è stato Stefano Vernole, giornalista, redattore di “Eurasia”, autore d’alcuni libri sul Kosovo.

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Millenium”.

 

VIDEO INTEGRALE DELL’EVENTO

 

La Romania e i diritti umani

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Si è tenuto sabato 24 settembre a Torino, dalle ore 9.30 alle ore 18, il convegno internazionale italo-romeno “La Romania e i diritti umani”, presso il Centro Congressi Regione Piemonte di corso Stati Uniti 23.

Era presente tra i relatori anche Claudio Mutti, redattore di “Eurasia”. Mutti è intervenuto alle ore 15.00 con una dissertazione sul tema: La funzione geopolitica della Romania.

L’organizzazione è stata a cura di: Regione Piemonte, Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), “Eurasia”, Poesia Attiva, Ufficio Pastorale Migranti, AIDA, Accademia di Romania in Roma.

“Il Democratico” intervista Daniele Scalea e Pietro Longo

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Fonte: “Il Democratico

 

Il Vicino Oriente è un’area geografica sempre al centro dell’attenzione da parte dei media e degli analisti dei più svariati settori (politico, economico, militare, etc.). I motivi di questo interesse sono in buona parte intuibili: si ha a che fare con un’area tanto strategicamente importante da un lato, quanto instabile e centro di intense conflittualità dall’altro. L’anno in corso è stato caratterizzato da un’attenzione globale ulteriormente accresciuta a causa del vasto e complesso fenomeno di rivolte che ha di fatto attraversato – con forme ed intensità diverse – l’intera regione. 

Politici, intellettuali ed opinione pubblica occidentali hanno seguito sin da subito con grande entusiasmo simili fenomeni, vedendo in essi gli effetti di un grande e spontaneo movimento popolare, mosso dal riscatto contro governi autocratici e animato principalmente da giovani generazioni affamate di democrazia e di emancipazione sociale. Da ciò l’uso diffuso di espressioni idealizzanti quali “Primavere Arabe”, “Risorgimento Arabo” e simili.

Tuttavia, a distanza di alcuni mesi, si constata che molto dell’entusiasmo della prima ora si è smorzato. Diversi fattori possono aver contribuito a ciò; fra questi, il ‘congelamento’ della rivoluzione in Tunisia ed Egitto, così come il prolungarsi della guerra in Libia; un conflitto questo ben più lungo e travagliato di quanto le dichiarazioni d’intenti iniziali avessero potuto far credere. Più in generale, l’intero evolvere degli eventi nell’ area vicinorientale ha infine mostrato, in maniera inequivocabile, come i fenomeni in questione siano molto più complessi e sfaccettati rispetto al quadro dipinto dai media, pieno invece di retorica e semplicismo.

Due giovani studiosi hanno provato a fare il punto della situazione con un saggio eloquentemente intitolato “Capire le rivolte arabe” (Avatar Editions). Daniele Scalea e Pietro Longo, questi i nomi degli autori, hanno una formazione accademica rispettivamente nel campo della storia e dell’arabistica; inoltre si occupano entrambi di geopolitica, in particolare per la rivista Eurasia, di cui sono redattori. Il saggio in questione si presenta di grande utilità per chiunque voglia orientarsi nella complessità dei rivolgimenti in corso nel mondo arabo, dal momento che analizza in maniera sintetica ma rigorosa le dinamiche di breve e lungo periodo sottese ai fenomeni rivoluzionari, tratteggiandone inoltre in maniera convincente diversi possibili sviluppi futuri.

Oggi più  che mai assume grande importanza una conoscenza basilare della realtà mediterranea e vicinorientale, tanto più in un paese come il nostro che, pur se legato all’area politico-culturale nord europea ed atlantica, si trova quasi interamente disteso al centro del Mediterraneo; da una tale posizione, l’Italia non può trascurare le realtà dell’altra sponda di quello che fu il mare nostrum, né tantomeno fingere di ignorarne i problemi salvo – in quest’ultimo caso – subirne in maniera ancora più brusca e traumatica i contraccolpi, come ci ricordano i due studiosi. Ci auguriamo quindi che, grazie anche alla diffusione di opere come quella di Longo e Scalea, possa maturare una diffusa consapevolezza della necessità di abbattere quell’invisibile muro politico-culturale che ci separa dal mediterraneo extraeuropeo.

Abbiamo incontrato i due autori del testo per porgli alcune domande sui fenomeni oggetto del loro studio.

Una fondamentale chiave di lettura offerta dal vostro lavoro per cercare di spiegare i fenomeni in corso è quella del dirompente affermarsi dell’Islam politico a scapito di un nazionalismo arabo oramai in declino. Potete spiegarne in breve il significato? Pur nelle loro specificità e differenze, possono trovare coerente inquadramento entro questa lettura anche i due scenari di crisi attualmente più seguìti ed incerti dell’area, quello siriano e quello libico?

Daniele Scalea: Poniamo come premessa che nell’Islam non esiste la “separazione tra Stato e Chiesa” come da noi, e quindi la distinzione tra movimenti laici e movimenti religiosi è per certi versi arbitraria. Ciò detto, è lecito parlare di contrapposizione tra un nazionalismo laico, spesso panarabo, ed una corrente religiosa, talvolta indicata come “Islam Politico” o “islamismo”. Se il nazionalismo laico ha prevalso nei primi decenni del dopoguerra, esso è da tempo in fase calante: fallimentare, delegittimato ed impopolare, sta lasciando spazio all’ascesa dell’Islam Politico.

Ciò avviene, o potrebbe avvenire, anche in Libia e Siria. Probabilmente Gheddafi non sarebbe mai stato rovesciato senza l’intervento straniero, ma questo c’è stato ed ora le porzioni più ricche e popolose del paese sono in mano ai ribelli, per lo più islamisti. Ad esempio il governatore di Tripoli, Abdelhakim Belhadj, è un veterano dell’Afghanistan: vi ha combattutto sia contro i Sovietici sia contro gli Angloamericani. Molti osservatori già da mesi indicavano nel Gruppo Islamico Combattente Libico (già affiliato a Al Qaida) la forza militarmente più significativa del CNT. Per quanto riguarda la Siria, tra gli oppositori più importanti va citata la Fratellanza Musulmana e, ancor più, i gruppi cosiddetti “salafiti”, o anche wahhabiti, che spesso si sono formati militarmente combattendo in Iraq contro gli USA.

Pietro Longo: Non bisogna cadere nell’eccesso di semplificazione: ciò che è avvenuto nel mondo arabo lungo quasi tutto il 2011 non è un duplice movimento di discesa delle ideologie nazionaliste e di ascesa di quelle informate all’Islam. Personalmente ho sempre contestato una separazione così netta tra queste due correnti e questo perché, a parte rari casi, nel mondo islamico il nazionalismo non si è mai qualificato totalmente come laico, al pari dell’omologo movimento europeo. Ciò detto, è pacifico che lungo questo primo decennio del XXI secolo abbiamo conosciuto un progressivo “risveglio islamico”, anche sottoforma di “rivincita sciita” a seguito di ben precisi accadimenti, come l’invasione US-led di Afghanistan e Iraq entro il primo quinquennio o lo sconfinamento in Libano dell’Israel Defence Force nel 2006. Tuttavia nel caso delle “rivolte arabe” bisogna certamente usare cautela e distinguere ogni scenario da qualunque altro. L’esempio egiziano è emblematico in ciò: una rivolta di piazza, scaturita dal malcontento di molteplici sfaccettature sociali, è stata senza dubbio cavalcata dalle forze islamiche, organizzatesi secondo nuovi partiti e associazioni, come il Partito Libertà e Giustizia affiliato alla Fratellanza Musulmana. In Tunisia, nel contesto dell’ipertrofia dei partiti politici, è stato reso legale il maggiore partito di opposizione, ossia al-Nahda dello Shaykh Rashid al-Ghannushi. Questo però può non implicare necessariamente che le frange politiche islamiche siano state le protagoniste della rivolta e potrebbe non essere nemmeno una garanzia per il futuro. Dopo una frattura più o meno violenta, entro qualsiasi ordinamento il potere politico dà luogo a fenomeni extra ordinem, non previsti da nessuna fonte normativa ma che si impongono di fatto. Non sembra casuale che, tornando al caso egiziano, il Partito Libertà e Giustizia si sia formato nel febbraio scorso ovvero prima che la Costituzione interinale adottata in aprile giungesse a vietare all’articolo 5 la formazione di partiti su base eminentemente religiosa.

Quanto ai casi della Libia e della Siria, siamo dinnanzi ad altri due scenari particolari. Nel primo il Consiglio Nazionale di Transizione appare formato da personalità eterogenee organizzatesi nell’area di Bengasi. Mustafa ‘Abd al-Jalil, ex Ministro della Giustizia dal 2007 e segretario del Consiglio Nazionale è un giudice proveniente dalla Facoltà di Shari’a degli atenei di Bengasi e di al-Bayda’. Ma questo fatto non è rivelatore di alcunché di specifico data la poca chiarezza sul programma politico dei “ribelli”, per il momento abbarbicati unicamente su posizioni anti-Gheddafi. La Costituzione interinale diffusa nell’agosto scorso poco ci suggerisce, salvo fissare la Shari’a come “la” fonte principale dell’ordinamento, come del resto nel caso egiziano, e informare l’educazione delle nuove generazioni allo spirito islamico e all’amore per la patria. Sarà necessario osservare come queste dichiarazioni di principio si tradurranno in politiche operative.

Infine in Siria, è vero che la Fratellanza Musulmana lavora quotidianamente per screditare il regime di al-Asad ma i comunicati e le dichiarazioni non sono improntante alla dialettica nazionalismo/secolarismo vs islamismo. Piuttosto si focalizzano unicamente sulla condanna alle stragi compiute dall’esercito e dunque alla perdita di legittimità dell’establishment al potere.

Sin dall’inizio dei disordini, abbiamo assistito a continue e gravi storture dell’informazione sui fatti di Libia e Siria, e per contro a prolungati silenzi sulle proteste in altri paesi quali Arabia Saudita, Bahrayn e Yemen.

Aspetto particolare è che questo atteggiamento non ha caratterizzato i soli media occidentali, ma è  spesso partito proprio dai grandi mezzi di informazione panaraba quali Al Jazeera e al Al Arabiya. A quali logiche è ragionevole pensare che stiano rispondendo tali mezzi di informazione nelle crisi in corso?

DS: Come qualsiasi altro organo di stampa, alle logiche dei loro editori: ossia, rispettivamente, di Qatar e Arabia Saudita, ossia della famiglia Al Khalifa e della famiglia Saud. Entrambi i paesi – o meglio sarebbe dire le famiglie che non solo li dominano, ma li posseggono formalmente – nutrono ambizioni di potenza nella regione. L’Arabia Saudita ha un’ideologia ufficiale che è il wahhabismo, e s’impegna a diffonderlo nel mondo musulmano grazie ai petrodollari che affluiscono numerosi nelle casse del Regno. Il Qatar ha un’immagine più moderna ed una dimensione decisamente più piccola, ma è anch’esso molto ricco ed ha investito sui media come veicolo per procacciarsi influenza, e quindi potere, nella regione ed oltre (non a caso Al Jazira trasmette pure in inglese).

PL: I cosiddetti “media panarabi” hanno avuto un ruolo significativo in molteplici occasioni: durante gli eventi subito successivi al 9/11, durante la “caccia a Bin Laden” ed in generale nel corso della Global War on Terrorism, in diversi momenti della questione israelo-palestinese, nel caso dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq e così via. A volte al-Jazeera ha ricevuto le aspre critiche dell’opinione pubblica mondiale per la messa in onda di immagini particolarmente cruente o per la diffusione di notizie che potevano fungere da propellente ed infiammare gli animi. Nel caso della “primavera araba” questi network non sono stati meno presenti nei diversi scenari ed è sembrato che abbiano seguito delle agende ben precise. In verità questa critica può essere allargata a tutti i maggiori media globali, probabilmente protesi a confondere le idee sul reale svolgimento degli eventi. Basti pensare all’imprecisione, talvolta iperbolica, con la quale sono state riferite le stime delle morti nei diversi fronti. Nel caso libico però la questione è ancora più delicata, perché il coverage di al-Jazeera che ci ha condotti fin dentro al compound di Gheddafi, poco o nulla ha detto in merito alle casualità di civili procurate accidentalmente dai bombardamenti aerei. Lo slogan “l’opinione e l’opinione contraria” che fino a qualche anno fa era continuamente sbandierato dall’emittente qatarina, questa volta sembrerebbe aver preso delle derive nettamente unidirezionali.

Negli ultimi anni l’Italia sembrava fare passi avanti, pur fra evidenti limiti e contraddizioni, verso una politica di maggiore presenza nel Mediterraneo. Le crisi della regione hanno mostrato in realtà  tutta la debolezza politica del nostro paese, che non si è in alcun modo distinto nell’azione politica e diplomatica e che si è lasciato trascinare in una guerra – quella libica – sicuramente non voluta a livello governativo. In che modo l’Italia rischia di pagare, se non lo sta già facendo, la sua impreparazione di fronte ai rivolgimenti dell’area? Nonostante ciò, dispone il nostro paese ancora di spazi di manovra politici anche minimi, atti a limitare i danni derivanti da simili destabilizzazioni?

DS: L’Italia sta pagando la crisi libica in vari modi. Innanzi tutto, ha perduto credibilità: col suo atteggiamento ondivago e col voltafaccia ai danni della Jamahiriya, con annessa sfacciata violazione del Trattato di Amicizia e di proditorio attacco ai danni della Libia. Tutto ciò è andato ad alimentare la leggenda nera – ahimé molto veridica – dell’Italia fellona, inaffidabile e incline al tradimento.

In secondo luogo, ha speso milioni di euro per condurre i bombardamenti contro la Libia e per gestire l’emergenza profughi, o per aiuti umanitari di varia natura.

In terzo luogo, anche nel caso piuttosto remoto che l’ENI mantenga davvero il ruolo di preponderanza che aveva in Libia, come garantisce Frattini, rimane il fatto che il flusso di petrolio e gas dal paese nordafricano non potrà recuperare i livelli precedenti prima di molti anni.

Inoltre, i contratti petroliferi dell’ENI rappresentano solo uno degli elementi di cooperazione economica precedentemente in atto tra Italia e Libia. In particolare, numerose imprese italiane – spesso PMI – ricevevano le commesse della Jamahiriya: inoltre, una parte consistente dei suoi petrodollari (quasi 10 miliardi) era investita nel nostro paese. Sicuramente gl’investimenti esteri libici si sposteranno ancor più decisamente verso la Francia e il mondo anglosassone, e le commesse della ricostruzione post-bellica saranno affidate alle imprese di questi altri paesi, non a quelle italiane.

Infine, in un’ottica strategica, un paese che si trovava nella nostra “sfera d’influenza” sta spostandosi  verso quella francese, indebolendo il peso dell’Italia nel Mediterraneo.

PL: Gli storici delle relazioni internazionali rintracciano nella storia moderna del nostro paese tre “cerchi” di politica estera, o meglio due campi d’azione tradizionali ai quali dopo la Seconda Guerra Mondiale se n’è aggiunto un terzo per effetto dell’integrazione europea. Ai consueti spazi “balcanico” e “mediterraneo” si è aggiunto quello propriamente europeo. Come in un gioco di scatole cinesi però a monte di tutto ciò si trova l’altrettanto tradizionale “fedeltà atlantica” legata alla partecipazione alla NATO. I tre cerchi più l’opzione atlantica lungi dal formare un tutt’uno osmotico sembrano più che altro costituire una piramide.

Fuor di metafora, l’Italia ha scelto di imbarcarsi nell’avventura libica, venendo meno ad impegni bilaterali precedenti e scommettendo sul futuro. Nel 2008 l’attuale Premier italiano volava a Bengasi per firmare il Trattto di Amicizia, Partenariato e Cooperazione. A ben vedere però i semi di quel patto risalgono a ben 10 anni prima, quando Lamberto Dini, allora Ministro degli affari esteri, siglò un primo step. L’ENI poi ha sempre avuto un ruolo di primo piano nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi libici e per converso Tripoli ha posseduto investimenti nella FIAT. Sul versante politico, i due paesi si erano concentrati sulla cooperazione a prevenzione dell’immigrazione illegale (2000) e anti-terrorismo (2002), spianando la strada a quel quadro di “special and privileged relationship” secondo la dicitura ufficiale rimarcata dal Trattato di Amicizia del 2008. Tuttavia, come hanno mostrato i giuristi internazionalisti, quel testo non ha mai avuto la pretesa di fissare norme di “non aggressione” nonostante le clausole che impedivano, reciprocamente, la conduzione di atti ostili a violazione della sovranità territoriale. Ecco dunque perché la diplomazia romana ha potuto inscrivere questo trattato nel cerchio atlantico, senza creare incompatibilità. Finanche gli impegni economici stipulati dal medesimo trattato sono stati talmente onerosi da poter venire giustificati solo alla luce di un rapporto di amicizia sedimentato: l’Italia si impegnava a costruire infrastrutture di base per un valore di 5 miliardi di dollari, ottenendo in cambio sgravi fiscali per le imprese italiane operanti in Libia.

Stando a quanto annunciato nei mesi scorsi, nonostante il regime change il governo italiano considera il Trattato ancora in vigore e quindi si ritiene che, normalizzato il paese, gli impegni contenuti in esso verranno onorati. Bisognerà, anche in questo caso, attendere la fine delle ostilità per comprendere appieno le implicazioni di una mossa, quella italiana, che tutto è apparsa tranne che decisa in autonomia.

Destabilizzazione interna ed intervento NATO. Dal Kosovo alla Libia

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Il nostro redattore Stefano Vernole, autore di vari libri sul Kosovo, ha tenuto la conferenza Destabilizzazione interna ed intervento NATO: dal Kosovo alla Libia a Benevento, il 24 settembre scorso. L’evento è stato organizzato dall’associazione locale “Millenium” ed introdotto da Orazio Maria Gnerre. Di seguito il video integrale dell’incontro.


Bahrayn: false prove contro gli attivisti condannati a morte?

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Fonte: “Global Research

 

Sono emerse nuove prove a sostegno del fatto che il caso del regime del Bahrein contro due attivisti democratici condannati a morte per aver ucciso due poliziotti contenga evidenti falle. Nell’ultimo colpo di scena del controverso processo per omicidio, un impiegato del Ministero dell’Interno ha confessato la non colpevolezza degli uomini in attesa di esecuzione.

 

Il presunto omicidio dei due ufficiali di polizia sarebbe avvenuto nel corso della repressione delle manifestazioni pro-democratiche di inizio anno nel regno del Golfo Persico, alleato degli Stati Uniti. L’episodio è stato interpretato come il pretesto che ha preparato il terreno all’escalation della repressione contro la popolazione civile da parte del Bahrain e delle forze saudite, sfociata in decine di morti e detenzioni di massa.

 

Altri cinque bareniti sono stati condannati all’ergastolo per la loro partecipazione al presunto assassinio dei poliziotti per il quale l’accusa sostiene che i due attivisti hanno deliberatamente investito le vittime con l’automobile quando i due appartenenti alle forze dell’ordine erano stesi a terra.

 

Le raccapriccianti morti sono apparentemente contenute in un video amatoriale che presumibilmente risale al 16 marzo, lo stesso giorno in cui iniziò la violenta repressione da parte delle truppe saudite nella capitale Manama. Il video è stato poi mandato in onda sulla rete pro-governativa Bahrain TV causando, una diffusa repulsione tra il pubblico.

 

I due ragazzi condannati a morte – Ali Al Singace di 19 anni e Abdulaziz Husain di 24 – saranno giustiziati da un plotone di esecuzione se i loro appelli non saranno accolti il mese prossimo.

 

Attivisti per i diritti umani e le famiglie dei condannati affermano che sono stati incastrati dal regime barenita. Essi fanno notare come gli uomini accusati non erano associati tra loro prima e nel momento del presunto crimine, e come provengano da villaggi differenti. La sola cosa che li accomuna è che erano attivi nelle proteste, ciascuno nel proprio villaggio. I promotori della campagna a sostegno dei due ragazzi sostengono che il processo sia stato dominato da motivazioni politiche: per intimidire il movimento degli attivisti, per diffamare la rivolta e per giustificare l’istituzione dello Stato di emergenza da parte del non eletto governo sunnita ed il conseguente violento giro di vite.

 

In primo luogo, gli attivisti per i diritti dei condannati fanno notare come, fatta eccezione per il video, la sola altra prova usata siano state le loro confessioni. Nabeel Rajab del Bahrain Centre for Human Rights afferma che tali confessioni sono state estorte dopo che gli imputati sono stati sottoposti a torture durante le molteplici settimane di detenzione illegale. Inoltre Rajab sottolinea che ai due ragazzi è stata negata la difesa legale; due giorni prima che il processo avesse inizio dinanzi ad un tribunale militare, Mohammed Al Tayer, un avvocato preposto alla difesa dei due imputati, è stato arrestato dal regime. Quando gli imputati sono comparso in tribunale hanno ritrattato le loro confessioni.

In secondo luogo, è stata chiamata in causa la veridicità del video amatoriale, che mostra due veicoli che investono i poliziotti. Se l’iniziale messa in onda del video su Bahrain TV ha scatenato rabbia ed orrore, una più attenta analisi del nastro ha evidenziato diverse falle che inducono a pensare che l’incidente sia architettato.

Ad esempio, dopo il passaggio dei veicoli su uno dei presunti corpi dei poliziotti, si vede un gruppo di giovani che arrivano misteriosamente sulla scena ed iniziano a “violare” il corpo con calci e bersagliandolo a colpi di pietra. Il macabro scenario possiede un’apparenza che sembra seguire un copione. In un passaggio, si vede parte del corpo levarsi dal terreno senza particolare sforzo dopo essere stato preso a calci, suggerendo che la sagoma non sia un essere umano, ma piuttosto un manichino.

 

Ci sono numerose altre anomalie che minano la credibilità del video dell’accusa. Alcuni critici notano che l’incidente si verifica al mattino ore prima dell’intervento delle forze del Bahrein, saudite e di altri Paesi del Golfo, per allontanare i manifestanti nell’area nelle vicinanze del Pearl Monument, il centro nevralgico delle proteste. Ciò contraddice il fatto che i giovani potevano aver deliberatamente linciato i poliziotti in un parcheggio a pochi metri dal Pearl Monument, occupato dalle forze statali. Effettivamente, un fermo immagine a campo largo, mostra la massiccia presenza di militari lungo il perimetro della scena.

 

Ancora, come fanno i poliziotti ad isolarsi da migliaia di altri militari? Perchè non ci sono tracce di sangue sul terreno dopo che i corpi sono ripetutamente investiti e colpiti dalla folla?

 

Inoltre, i veicoli presumibilmente coinvolti negli omicidi non sono mai stati recuperati come prova, né sottoposti ad alcuna analisi forense.

Uno dei due ragazzi condannati a morte, Ali Al Singace, è stato poi mostrato con una gamba rotta al tempo del presunto incidente in cui egli avrebbe dovuto guidare uno dei veicoli.

 

Nel corso del procedimento giudiziario, i media controllati dal governo barenita hanno pubblicato fotografie e nomi dei due ufficiali di polizia, i quali, è stato specificato, erano le vittime del linciaggio. I nomi sono Kashef Mandhoor e Mohammed Al Balooshi. Ma c’è un assai diffuso sospetto tra la popolazione che le vittime non siano state uccise nelle circostanze richiamate dall’accusa nel corso del processo. Un’ipotesi è che essi possano essere stati effettivamente uccisi dal regime per essersi rifiutati di partecipare alla sanguinosa repressione contro i manifestanti e che le loro identità siano state poi utilizzate per perseguire i sette attivisti.

 

Ora, un dipendente del Ministero dell’Interno, Ahmed Mansour, ha dichiarato, attraverso un video del Bahrain Centre for Human Rights, di aver assistito all’incidente che sarebbe costato la vita ai due poliziotti. La testimonianza di Mansour è stata tradotta in inglese dall’arabo per Global Research. Egli dichiara di essere l’uomo in abiti civili che, si può vedere nel video dell’accusa, raccoglie un fucile da terra vicino ad una persona prostrata dal dolore investita da un veicolo in fuga.

 

Mansour non dice esplicitamente se la figura a terra sia un manichino o no, né che l’intero episodio sia una messa in scena. Cosa egli afferma senza mezzi termini è che i sette uomini condannati per l’omicidio non erano sul luogo dell’incidente. I due ragazzi avrebbero guidato i due veicoli e investito i due poliziotti. L’impiegato del Ministero contraddice questa ricostruzione. Afferma, infatti, che nessuno dei due accusati si trovava sui due veicoli.

 

 

Risulta difficile non concludere che l’intero episodio sia stato una vile macchinazione; un processo-show il cui reale intento è stato quello di colpire l’intera opposizione politica. Disgraziatamente, affinchè il regime che gode del sostegno degli Stati Uniti raggiunga tale obiettivo, due giovani innocenti andranno incontro alla fucilazione ed altri cinque all’ergastolo.

 

Nella stessa settimana in cui il testimone del Ministero dell’Interno rilasciava le sue dichiarazioni che certificano l’ingiusta condanna degli uomini coinvolti, il re del piccolo Stato del Golfo ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite a New York. Re Hamad bin Isa Al Khalifa ha assicurato ai delegati presenti che il suo regno rispetta “i diritti umani universali”- non, evidentemente, se tali diritti sono quelli degli attivisti che si oppongono al suo regime.

 

(Traduzione di Diego Del Priore)

 

Finian Cunningham è corrispondente di Global Research a Belfast. E’ stato espulso dal Bahrain per il suo giornalismo critico il 18 giugno del 2011.

 

 

 

I costruttori di carte ottriate

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Editoriale del numero XXIII (2/2011)

Lo studio dei rapporti tra la legge fondamentale di uno Stato e la geopolitica è tornato di attualità tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. In quel periodo (1989 – 1991), coincidente con il collasso del sistema bipolare, gli USA intensificarono il loro ruolo di “costruttori di Nazioni libere”. Proclamatisi “Nation and State Builders”, gli Stati Uniti interferirono nella elaborazione delle Carte fondamentali dei nuovi Stati nazionali, sorti dalla deflagrazione dell’ex blocco sovietico. Tale intromissione non costituì un fatto nuovo nella storia della politica estera statunitense, ma una costante. Una lettura “geopolitica” degli ordinamenti costituzionali ci dimostra che le Carte fondamentali degli Stati non egemoni sono sostanzialmente assimilabili alle Costituzioni ottriate. Nella transizione tra la fase unipolare e il sistema multipolare appare necessaria la formulazione di nuovi paradigmi costituzionali articolati su base continentale.

 


Costituzioni e scenari geopolitici nell’era dell’occidentalizzazione del mondo

Nel corso dell’ultimo secolo, tre sono stati i principali momenti storici in cui le leggi fondamentali e fondative degli Stati nazionali sono state eterodirette da parte degli attori egemoni, ai fini dell’articolazione delle loro rispettive sfere d’influenza.

Un primo momento è quello circoscrivibile tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio degli anni Venti. In tale periodo, l’ideologia “costituzionalista” e quella dello Stato-Nazione rappresentarono un asse portante di ciò che potremmo definire, con un termine dei nostri tempi, il soft power della Gran Bretagna, della Francia e degli Stati Uniti. Gli Stati nazionali dell’Europa modellata dai Trattati di Trianon e di Versailles si dotarono di costituzioni che, seguendo le direttive delle maggiori Potenze dell’epoca1, di fatto subordinarono la propria sovranità alle alleanze egemoniche dell’epoca.

Un secondo periodo è quello circoscrivibile tra la fine del secondo conflitto mondiale e gli anni sessanta. Gli USA, dopo l’invasione militare dell’Europa occidentale e l’assoggettamento del Giappone, approntarono un complesso processo di democratizzazione volto al consolidamento della loro sfera di influenza. Il processo prevedeva l’allineamento militare, economico, finanziario e normativo ai canoni nordamericani. Per quanto concerne l’allineamento normativo, gli USA interferirono pesantemente nell’elaborazione delle Carte fondamentali dei paesi vinti.

 

Le Costituzioni dell’Italia, della Germania e del Giappone, infatti, contengono elementi fondamentali che risentono delle limitazioni imposte dai Liberators statunitensi. Nel caso della Costituzione repubblicana della Italia post-fascista, ad esempio, gli articoli 11 e 35, relativi alla sovranità e alla regolamentazione del lavoro, sono, come afferma Aldo Braccio, «evidentemente […] norme costituzionali destinate a favorire l’imminente (alla fine degli anni Quaranta) processo di internazionalizzazione a guida nordamericana e a regolare, ossia a limitare, i diritti del lavoro»2. Più significativo il caso della Germania, la cui legge fondamentale non a torto è stata definita come una «forma organizzativa di una modalità della dominazione straniera»3. Nel caso del Giappone, infine, oltre alle limitazioni di funzioni tipiche della sovranità di uno Stato, quali la costituzione delle forze armate, la nuova Carta fondamentale, imposta da Washington, entra nel merito anche dell’identità spirituale della nazione nipponica: allo Stato – ora non più scintoista – viene infatti impedito di esercitare la benché minima influenza religiosa nel sistema educativo e formativo della popolazione4. Il processo di democratizzazione (neocolonizzazione) nordamericano, attuato mediante le riforme costituzionali delle nuove Nazioni inglobate nel sistema occidentale, riguardò anche alcuni Paesi del Sud Est asiatico, come la Corea e il Vietnam del Sud.

Anche l’URSS influenzò l’elaborazione delle leggi fondamentali delle neonate democrazie popolari, che costituiranno il cosiddetto blocco sovietico fino alla sua dissoluzione. Dal punto di vista geopolitico, tuttavia, tale “ingerenza” assunse un senso ben diverso da quella neocolonizzatrice messa in campo dalla Potenza talassocratica d’Oltreatlantico. Mosca, infatti, in quegli anni tentava, sulla base della continuità territoriale, di costituire uno spazio geopolitico unitario5 di cui avrebbe assunto la funzione di Stato pivot.

Il terzo momento è quello del cosiddetto istante unipolare. Il ruolo degli Usa come Nation Builder6/7 si fa in questo periodo più incisivo e determinato.

Sulla base delle esperienze maturate nel corso della Guerra Fredda, Washington ispira e modella la Costituzione (spesso definita col sintagma “neutro” di “governance framework”) di vari Paesi, da quelli dell’ex-spazio sovietico europeo e centroasiatico alla Bosnia-Erzegovina, all’Afghanistan, all’Iraq, al Cossovo, veicolandovi, in particolare, la “propria esperienza nazionale”8.

Successivamente, quando inizia a delinearsi l’attuale fase di transizione unimultipolare, il sostegno ai processi di elaborazione di nuove costituzioni nei paesi “fragili” viene portato avanti con l’ausilio di alcune importanti istituzioni mondiali, tra cui, ad esempio, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)9 .

 

La “costituzionalizzazione” dei Paesi inclusi nella sfera d’influenza statunitense legittima, per così dire, la frammentazione di spazi geopolitici unitari in Stati a sovranità nulla.

Gli ordinamenti costituzionali nell’epoca multipolare

Nel quadro dei rapporti geopolitici mondiali, le Costituzioni nazionali degli Stati non egemoni (come più sopra considerato e dimostrato nel particolare caso delle loro relazioni con gli USA) sono di fatto ordinamenti giuridici simili alle carte ottriate dell’Ottocento, delle pure e semplici concessioni.

Tutto ciò evidenzia, ancora una volta, che la dimensione dello Stato nazionale è insufficiente ad assicurare l’indipendenza e la stessa identità culturale della popolazione di cui è espressione politica. Poiché la dimensione geopolitica attualmente in grado di soddisfare le esigenze dei popoli è quella continentale (o gran regionale), appare importante proporre modelli costituzionali che tengano nel dovuto conto tale fatto epocale. E ciò non soltanto per scopi euristici. Questi nuovi paradigmi, infatti – giacché imperniati sulla dimensione continentale dello Stato – costituirebbero le necessarie linee guida per rendere più incisive e coerenti le intese (geostrategiche e geoeconomiche) finora realizzate dai maggiori Paesi dell’Eurasia e dell’America indiolatina, ai fini dell’integrazione dei rispettivi spazi continentali.

 

 

Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG – Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie

 

 

1 Ispirati in massima parte dai 14 Punti del presidente statunitense Wilson.

2 Aldo Braccio, Carte costituzionali: casi di “sovranità limitata” Eurasia, XXIII (2/2011); si veda anche Alberto B. Mariantoni, Chi ci libererà dai “Liberatori” Eurasia, XXIII (2/2011). Oltre ai due articoli summenzionati, è opportuno ricordare anche la XII disposizione transitoria e finale ove si vieta la “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, una disposizione ripresa, quasi testualmente, nella nuova Carta dello Stato iracheno per dichiarare illegale la ricostituzione del Partito della Rinascita Arabo Socialista (Baa’th).

3 Carlo Schmid, Che significa propriamente “legge fondamentale”?, Eurasia, XXIII (2/2011).

4 James Dobbins et al., America’s Role In Nation-Building. From Germany to Iraq, Rand Corporation, Santa Monica, CA 2003, p.44; Aldo Braccio, cit..

5 Claudio Mutti, L’unità dell’Eurasia, Effepi, Genova 2008, pp. 58-61.

6 Nathan Hodge, Armed Humanitarians: The rise on the Nation Builders, Bloomsbury USA 2011; James Dobbins et alii, The Beginner’s Guide to Nation-Building, Rand Corporation, Santa Monica, CA 2007.

7 Mahdi Darius Nazemroaya, Privatizzazione e costruzione dell’impero, Eurasia, XXIII (2/2011).

8 “In his influential work on state-building, for example, Francis Fukuyama points out that nationbuilding in the American understanding reflects their own “national experience” in which the United States’ constitution is seen as the starting point and frame of reference of a national history and common identity”, A. von Bogdandy and R. Wolfrum (eds.), State-Building, Nation-Building, and Constitutional Politics in Post-Conflict Situations: Conceptual Clarifications and an Appraisal of Different Approaches,

Max Planck Yearbook of United Nations Law, Volume 9, 2005, p. 593.

9 “The mechanisms through which international intervention supports political processes appear to focus around four key areas: i) support to élite pacts; ii) support to constitution-making processes; iii) support to building conflict-resolution skills and processes at the local levels; and iv) direct mediation in times of mounting crisis or transition.” OECD-DAC Discussion Paper, Concepts and Dilemmas of State Building in Fragile Situations, p.34, Parigi 2008; OECD-DAC Guidelines and Reference Series, Supporting Statebuilding in Situations of Conflict and Fragility. Policy Guidance, Parigi 2011.

Geopolitica e costituzioni

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Editoriale 

I costruttori di carte ottriate (Tiberio Graziani)

Dossario: Costituzioni e Geopolitica

Eteronomia di una complementarità necessaria (Giuseppe Romeo)
Il geodiritto e i centri mondiali del potere (Guilherme Sandoval Goes)
Carte costituzionali: casi di “sovranità limitata” (Aldo Braccio)
Privatizzazione e costruzione del “impero” (Mahdi Darius Nazemroaya )
Che significa propriamente “Legge fondamentale”? (Carlo Schmid)
L’Ostpolitik di uno Stato senza costituzione nazionale (David Cumin)
Un caso d’ingegneria statuale: la Bosnia-Erzegovina (Sara Bagnato)
Dal tribunale dell’Aja a Rekom (Stefano Vernole)
Chi ci libererà dai “liberatori”? (Alberto B. Mariantoni )
La Sicilia, da Parigi a Parigi (Alessandro Lattanzio)
La nuova costituzione ungherese (Claudio Mutti )
La discrepanza costituzionale in seno alla UE (Kees van der Pijl)
Costituzionalismo e state-building in Iraq (Pietro Longo)
Le costituzioni dell’Impero Britannico, dell’India e del Commonwealth (Come Carpentier de Gourdon)
La “costituzione” di Atene. Democrazia e talassocrazia (Claudio Mutti)
Manipolazione extraterritoriale della Costituzione americana (Paolo Bargiacchi)
La Carta del Carnaro. Irredentismo e sindacalismo rivoluzionario (Lorenzo Salimbeni)

Continenti
I rifugiati somali in Yemen: una crisi umanitaria “glocale” (Giovanni Andriolo)
Se la “Linea Azzurra” si allunga di 200 miglia (Elia Cuoco)
Internazionalizzazione e globalizzazione (Emanuele C. Francia)

Interviste e recensioni
Intervista a Tair Mansurov (Konstantin Zavinovskij )
Intervista ad Antonio Palmisano (Lorenzo Salimbeni)
Andrea Carandini, La leggenda di Roma. Vol. III. La costituzione (Claudio Mutti)
Natalino Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto (Giacomo Guarini)
P. Longo e D. Scalea, Capire le rivolte arabe (Giacomo Guarini)

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L’IsAG presenta: Corso di arabo online per principianti

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L’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) e la rivista Eurasia presentano:

CORSO DI LINGUA ARABA ONLINE, livello PRINCIPIANTI

 

Il corso sarà composto da 20 lezioni da un’ora e mezza ciascuna, per un totale di 30 ore di lezione.

Le lezioni si svolgeranno nelle giornate di giovedì dalle ore 17.30 alle 19. La prima lezione è prevista per il 20 ottobre 2011 e quella conclusiva per il 29 marzo 2012. Il calendario dettagliato sarà inviato ai corsisti.

Il corso sarà avviato solo se si raggiungerà il numero minimo di iscritti, ossia sette.

Le lezioni saranno tenute da Enrico Galoppini, redattore della rivista “Eurasia”, docente di arabo presso l’Università Popolare di Torino e con un’esperienza pluriennale d’insegnamento di Storia dei paesi islamici presso le università di Torino e di Enna.

Al termine del corso l’IsAG rilascerà un attestato di frequenza, firmato dal Presidente dell’Istituto e dal docente del corso.

Il corso è riservato ai soci dell’IsAG ed il costo è pari a 200 euro (da versare in due tranche, una prima dell’inizio del corso e la seconda a metà dello stesso). I non soci possono iscriversi versando 320 euro, pari al costo del corso più la quota associativa (120 euro).

L’associazione all’IsAG è valida per tutto l’anno solare 2012 e dà diritto a: 

- partecipare alla vita sociale, compresa l’Assemblea e l’elezione del direttivo;

- partecipare ai corsi ed alle altre attività a pagamento riservate esclusivamente ai soci;

- godere del 10% di sconto su tutte le pubblicazioni dell’IsAG, inclusa la rivista ufficiale Eurasia (sia abbonamento sia acquisto di numeri singoli).

L’IsAG, a suo insindacabile giudizio, concederà UNA borsa di studio a scelta tra quanti presenteranno richiesta. Questa borsa di studio copre unicamente il costo del corso e non quello dell’eventuale associazione all’IsAG.

PER MAGGIORI INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI SCRIVERE A: formazione@istituto-geopolitica.eu. Chi vuol candidarsi a ricevere la borsa di studio dovrà inviare anche il proprio curriculum vitae in formato PDF.

LE PRE-ISCRIZIONI (gratuite) DOVRANNO PERVENIRE ENTRO IL 10 OTTOBRE. Il pagamento della prima rata (ed eventuale quota associativa all’IsAG) dovrà essere effettuato entro il 17 ottobre. In caso di rinuncia non saranno restituite le rate già versate.

Su Stalin e la natura sociale della Cina

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1. Venerdì 23 settembre 2011 nella mitica “Sezione Trentanove” di Torino, luogo storico del comunismo critico torinese, Domenico Losurdo ha presentato e discusso il suo saggio su Stalin (Cfr. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008). Avrei voluto essere presente, ma non lo ero per (leggeri) motivi di salute. Un amico fraterno ma ha dettagliatamente riportato il giorno dopo l’esposizione e la discussione, e mi ha detto che Losurdo ha fatto ripetutamente il mio nome, chiarendo le nostre differenze di valutazione, particolarmente su due punti cruciali, la questione di Stalin e la questione della connotazione della natura sociale della Cina del 2011. Tutto questo merita un chiarimento ed un approfondimento, soprattutto per i lettori estranei alla disputa, che hanno però il diritto a precisazioni.

2. A suo tempo, ho letto con estrema attenzione il saggio di Losurdo, e anche saggi in qualche modo favorevoli alla figura di Stalin (Cfr. Gianni Rocca, Stalin, Mondadori, Milano 1988, ma soprattutto Ludo Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon, Bologna 2005). Colgo l’occasione per comunicare urbi et orbi che da almeno vent’anni (da quando è sciaguratamente crollata l’URSS, il cui ruolo geopolitico era provvidenziale – ed ora cominciano ad accorgersene persino coloro che non sono mai stati “comunisti”) ho modificato il mio punto di vista su Stalin.

In gioventù ho sostanzialmente condiviso la teoria trotzkista e trotzkisteggiante di Stalin non solo come dittatore sanguinario, ma anche come seppellitore della rivoluzione d’Ottobre e capo di una banda di burocrati corrotti, teoria che si univa a una interpretazione della rivoluzione culturale cinese (1966-1968) come casino anarcoide antiburocratico e libertario. Sciocchezze, è vero, ma purtroppo sciocchezze condivise da una parte importante della mia sventurata generazione. Ora però ho cambiato opinione. Meglio tardi che mai. Se Losurdo mi confonde con gli antistaliniani isterici, tipo la signora Rossanda o il signor Bertinotti, ebbene si sbaglia, ed è mio diritto chiarire le cose.

3. Mi spiace auto citarmi, ma sono costretto a farlo. Mi sono ampiamente occupato in passato della questione di Stalin (Cfr. Stalin tra comunismo e geopolitica, in “Eurasia”, 2/2005, pp. 117-137) e della questione dell’eredità politica di Mao in Cina (Cfr. Ritorno a Confucio?, in “Eurasia”, 1/2006, pp. 113-131).

Sono pressoché sicuro che Losurdo non conosce questi testi, perché la sinistra, in base a un pensiero “magico” (Kolakowski), silenzia, diffama ed esorcizza tutto quanto proviene da fonti non del tutto politicamente corrette. Del resto Losurdo è anche lui stato vittima di questo silenziamento magico-totemico-sciamanico, perché ci sono stati individui che hanno protestato per il semplice fatto che del suo libro si fosse “parlato”, sia pure criticamente, sul “Manifesto” e su “Liberazione”. Figuriamoci allora la rivista “Eurasia”!

Rimandando Losurdo alla lettura diretta di questi testi, mi trovo costretto a riassumerli “per difendere il mio onore”. Mi si critichi pure, ma mi si critichi per quanto ho detto, non in base al “sentito dire” caratteristico della sub-cultura pettegola e settaria di “sinistra”.

4. A mio avviso, Stalin si è trovato di fronte a dei compiti immani di costruzione di un sistema sociale alternativo al capitalismo, con una teoria (il marxismo non solo di Kautsky, ma anche di Lenin) assolutamente inapplicabile, e che si trattava allora non tanto di “applicare”, ma di “neutralizzare”, sia pure nella forma del dogmatismo pubblico e della abrogazione silenziosa.

Il “marxismo” si basava infatti su di una premessa del tutto mitica e inapplicabile, la teoria della capacità strategica di autogoverno politico “consiliare” e di autogestione economica “gestionale” diretta da parte della classe operaia e proletaria. Epistemologicamente parlando, si tratta di una teoria meno fondata scientificamente dello Spirito Santo. Stalin ha preso atto tacitamente di questa palese e manifesta incapacità “consiliare”, ed è allora passato “ad una neutralizzazione del marxismo, in quanto l’escatologia neoclassista del marxismo originario era incompatibile con la costruzione di un dispotismo egualitario del lavoro e con la costruzione di un impero territoriale eurasiatico ad un tempo ideologico e geopolitico.

La cosiddetta “sistematizzazione” scolastica del marxismo di Stalin (materialismo dialettico come metafisica atea della materia basata sul principio gnoseologico neokantiano del rispecchiamento, e materialismo storico come successione obbligata di cinque stadi della storia universale) è in realtà una indispensabile neutralizzazione. Si tratta di un punto teorico fondamentale che in genere sfugge sia agli staliniani che agli anti-staliniani, invischiati in un impossibile tentativo, di segno opposto ma convergente, di calcolare la vicinanza o la lontananza di Stalin da Marx (Cfr. “Eurasia”, 2/2005, p. 125).

5. Il mio giudizio storico su Stalin prescinde quindi completamente dal solito approccio della vicinanza a Marx (staliniani) o della lontananza da Marx (trotzkisti, luxemburghiani, bordighiani, comunisti dei consigli). Stalin non poteva applicare concretamente una teoria completamente inapplicabile (perché originariamente concepita da Marx a partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico), e l’ha tacitamente abrogata neutralizzandola nella forma religiosa, probabilmente obbligata, della dogmatizzazione sacrale.

Al contrario, l’esempio del trotzkismo dimostra ad abundantiam che cosa vuol dire erigere la teoria di Marx in una “metafisica parallela” che non incontra mai la storia reale, ma solo la storia virtuale e fantasmatica. I trotzkisti hanno per sessant’anni invocato l’abbattimento dell’orribile burocrazia “staliniana”. Come ho già avuto modo di rilevare ina risposta al senatore Turigliatto , questo modo di vedere assomiglia a quello di chi distrugge le antiestetiche impalcature e i ponteggi che sorreggono un edificio per poterlo “contemplare” meglio, e si accorge troppo tardi che abbattute le impalcature antiestetiche l’intero edificio crolla, perché erano solo queste impalcature che lo tenevano in piedi (si veda la dissoluzione del comunismo storico novecentesco fra il 1985 e il 1992). So bene per esperienza trentennale che mettere un trotzkista di fronte alla fragilità della sua teoria, fondata su presupposti politici indimostrabili (il socialismo armonicamente perfetto senza burocrazia), è assolutamente impossibile. Tanto varrebbe tirare sangue da una rapa. Ma sono costretto a ribadire questa ovvietà.

6. Un problema interconnesso, ma da tenere ben distinto, è la questione “morale” dello stalinismo e della figura di Stalin. Se qualcuno mi ripeterà che la storia è fatta di ferro e di fuoco, e non c’entra nulla con la morale e con le “anime belle” (Hegel) gli risponderò che come professore di filosofia conosco benissimo almeno dieci versioni di questa teoria, ma mi permetto di non condividerla. Penso, in breve, che la morale sia un elemento “materiale” della riproduzione del consenso e della gramsciana “egemonia”. So bene che i tempi di Stalin furono tempi di ferro e di fuoco, ma da essi non si possono “dedurre” le fosse di Katyn, la pulizia etnica nei tre paesi baltici (poiché nessuna teoria “comunista” giustificava l’annessione alla Russia già zarista), l’annessione di Konigsberg alla Russia con il grottesco nome di Kaliningrad, eccetera.

Sull’ondata di processi 1936-1938 condivido addirittura la posizione di Ludo Martens: un delirio di estremismo di “estrema sinistra” che solo uno sciocco in buona fede (questa gliela concedo!) come Trotzki poteva pensare essere una svolta “a destra”.

Il mediocre Kruscev non avrebbe potuto inaugurare la svolta del 1956 (che in definitiva ha portato anche alla delegittimazione del 1991 e all’ubriacone Eltsin) se non ci fosse stata prima la distruzione del clima di libertà di pensiero necessaria come l’aria al socialismo. Nello stesso tempo ribadisco che non voglio essere confuso con i krusceviani in ritardo, con i Bertinotti, con i trotzkisti e con le rossande, che hanno contribuito da “sinistra” alla demonizzazione animistica di Stalin. Il discorso sarebbe appena cominciato, ma chi lo vuole approfondire è invitato a leggere il mio saggio uscito su “Eurasia”, 2/2005.

7. Passando alla questione della Cina, bisogna subito uscire dalla sfera che Hegel chiamava dell’“opinare”. Che Preve opini che la Cina non sia socialista, e che Losurdo invece opini che lo sia, non è affatto rilevante per una discussione seria. Ciò che conta è esplicitare i criteri in base ai quali si danno questi giudizi, e soprattutto sottoporre questi criteri a una discussione che non può essere puramente “identitaria”, che connota cioè un particolare gruppo di riferimento. Sono scettico sul fatto che questo possa avvenire in un ambiente settario e identitario come quello dell’estrema sinistra, disabituato da decenni a una libera discussione sui principi. Ma si può sempre provare.

8. Bisogna soprattutto evitare che si abbandoni il terreno dei concetti marxiani di “modo di produzione” e di “formazione economico-sociale” e si adotti il principio pirandelliano del “così è se vi pare”. E’ questo appunto il terreno dell’hegeliano “opinare”. Prendiamo ad esempio un recente testo paradigmatico che difende la teoria della natura socialista della Cina (Cfr. Il ruggito del dragone, a cura di Roberto Sidoli e Massimo Leoni, con prefazione di Domenico Losurdo, Ed. Aurora, Milano 2011). Da esso si ricavano molti dati interessanti, ma nessun elemento teorico che ci possa aiutare a risolvere la questione.

Si afferma che in Cina è in corso una “lunga marcia verso la prosperità”. Non ne dubito. Sono d’accordo che non importa praticamente che un gatto sia rosso o nero, purché prenda i topi, ma questo saggio detto non contribuisce a chiarire la natura sociale della Cina di oggi. Si parla di diaspora cinese (Casati), di scontro sulle terre rare (Giannuli), della Cina che è oggi al centro del mondo (Ricaldone). Tutto giusto, la sola cosa che manca è una riflessione ispirata alla teoria di Marx. Ora, non dico che essa sia necessaria, anzi forse è fuorviante. Ma allora bisogna dirlo, e non dichiararsi contemporaneamente “comunisti” e ammiratori del “sorpasso” Cina-Stati Uniti. Anche Giovanni Arrighi, nel suo prezioso studio sulla successione dei cicli di accumulazione Genova-Olanda-Inghilterra-USA- Cina (Adam Smith a Pechino), dice cose molto simili, ma non si sogna neppure di parlare di modello socialista che vince contro un modello capitalistico.

Il libro suggerisce che l’elemento principale per connotare la Cina come “nazione sovrana di matrice prevalentemente socialista” sta nella preponderanza macroeconomica della proprietà statale e cooperativa su quella privata. Ma se è così, bisogna avere il coraggio di dire che Lassalle ha avuto ragione contro Marx. Niente in contrario, ma lo si dica. Se il socialismo è l’IRI scritto in ideogrammi cinesi va bene. Nella sua introduzione Losurdo parla di un suo viaggio in Cina (immagino omaggiato come insigne ospite straniero) e parla di benessere ovunque visibile. Ci credo, anche se di tanto in tanto leggiamo di rivolte contadine e operaie, ma anche i visitatori degli USA di un tempo dicevano questo.

9. Sono imbarazzato nel dire questo, perché io sono un amico quasi incondizionato della Cina e del suo ruolo economico e geopolitico, non sono più un ammiratore della rivoluzione culturale e della “banda dei quattro” (lo sono stato, lo riconosco, ma mi sbagliavo e faccio ammenda), e non condivido per nulla gli indipendentismi uiguro e tibetano supportati dalla CIA. Semplicemente, penso in breve che essere amici della Cina e rispettosi della sua evoluzione sociale interna non abbia nessun bisogno di un inutile e rituale “francobollo” socialista applicatogli sopra. La Cina è già meravigliosa geopoliticamente. Perché aggiungergli anche un francobollo “socialista”, se non per essere ufficialmente “riconosciuti” dai suoi dirigenti?

10. Sunteggerò ora brevemente il mio impegnato saggio su “Eurasia”, 1/2006. La Cina proviene da un modo di produzione asiatico, e quindi non le sono applicabili le categorie socio-politiche occidentali, che invece si sono sviluppate attraverso il processo schiavismo-feudalesimo-capitalismo fino ad oggi. Ogni sovrapposizione di categorie nate per capire la Grecia, Roma, il medioevo, lo stato assolutistico moderno, l’illuminismo, eccetera, è fuorviante. Filosoficamente parlando (p. 113), l’oggetto storico tradizionale della filosofia cinese non è mai stata la verità (teorica), ma l’armonia (pratica). Platone non è quindi sovrapponibile a Confucio. L’impostazione maoista della teoria della contraddizione (l’uno si divide sempre in due) risale a una bimillenaria tradizione anti-confuciana, prevalentemente legista e taoista. Sono in questo debitore del mio amico sinologo tedesco (orientale) Ralf Moritz. Dopo la morte di Mao, che fu certamente ostile a Confucio (pensiamo alla campagna contro Confucio-Lin Piao), il ritorno a Confucio segnala la messa al primo posto della “ricerca dell’armonia” dopo gli sconvolgimenti del trentennio 1946-1976.

Personalmente, vedo questo molto di buon occhio. Non ho mai concepito il socialismo alla Sartre (rivoluzione permanente dei gruppi-in-fusione contro il pratico-inerte in preda al parossismo della finalità-progetto), ma l’ho sempre concepito alla Lukacs (stabilizzazione di una vita quotidiana non nel senso di Bakunin, ma di Aristotele e di Hegel). Quindi non ho obiezioni. Ma non vedo perché lo sviluppo capitalistico della Cina, sia pure con la benefica presenza di un controllo statale macroeconomico che i dissidenti filo-americani incoscienti vorrebbero abolire, debba essere tout court connotato come il socialismo del XXI secolo. Se lo si vuol connotare come una benefica correzione di rotta rispetto all’estremismo di tipo staliniano e/o trotzkista sono d’accordo. Ma penso che da noi, in Italia e in Occidente, non abbia più senso ricadere nello “stato-guida”, anche solo simbolico senza più Komintern e Cominform, ma sia molto più utile riprendere una discussione sensata sul socialismo, impossibile finché questa discussione ci sarà “sequestrata” dal jet-set di sinistra tipo “Manifesto”, “Liberazione” e altri giornaletti sedimentati dalla tradizione anarcoide del Sessantotto.

Ma questa è un’altra storia. La vera storia.

 

* Costanzo Preve, filosofo e studioso del marxismo, è frequente contributore a “Eurasia”

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