Quantcast
Channel: Cristina Kirchner – Pagina 148 – eurasia-rivista.org
Viewing all 153 articles
Browse latest View live

La parabola libanese e il tentato riassetto geopolitico del Vicino e Medio Oriente

0
0

Dagli sviluppi relativi alle rivoluzioni che hanno scompaginato i precari equilibri all’interno del complesso mondo arabo sono emerse numerose ingerenze esterne che rivelano il chiaro intento delle potenze atlantiche di rimodellare il contesto geopolitico areale.

Uno dei più ostinati tentativi portati avanti nei decenni riguarda la destabilizzazione del Libano, paese che non è mai riuscito a consolidare un equilibrio stabile.

L’attentato a Rafik Hariri del 2005 rappresenta indubbiamente una delle tappe fondamentali rientranti nel progetto eversivo in questione.

Rafik Hariri è stato un facoltoso e abile uomo d’affari che aveva fatto della propria popolarità e dell’innato fiuto politico il cemento necessario per tenere insieme una maggioranza particolarmente variegata e capace di rappresentare le tre componenti sciita, sunnita e maronita, maggioritarie nel tessuto sociale libanese.

Il successo politico dell’uomo era dovuto principalmente al suo lavoro diplomatico che aveva portato alla fine della sanguinosa guerra civile e consacrato Damasco quale garante di una sorta di pax siriana sul Libano, che pure risultava indigesta a talune personalità di spicco come il generale cristiano Michel Aoun.

Il periodo immediatamente successivo alla pace trascorse all’insegna della ricostruzione e vide le varie componenti sociali libanesi porre momentaneamente tra parentesi gli antichi rancori per profondere congiuntamente gli sforzi necessari a risollevare il paese dalla catastrofe appena conclusasi.

In questo particolare contesto si inserirono gli ultimi rampolli della stirpe Gemayel – Pierre jr. e Sami – eredi del capostipite Pierre, fondatore del Partito Falangista cristiano.

Costoro ripresero la tradizionale avversione congenita nei confronti della Siria messa momentaneamente in angolo dal partito guidato in quella fase da Karim Pakradouni, la cui vicinanza al governo siriano aveva drasticamente ridimensionato la capacità destabilizzante dei falangisti.

I rapporti di forza che regolavano la situazione politica libanese furono definitivamente ridisegnati nei primi mesi del 2005, dopo che Rafik Hariri si era dimesso dall’incarico di Primo Ministro in segno di protesta contro l’emendamento approvato costituzionalmente atto a prorogare di tre anni la presidenza de Emile Lahoud, sponsorizzato attivamente da Bashar Assad.

Ciò fece in modo che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato del 14 febbraio che costò la vita ad Hariri venissero istantaneamente attribuite alla Siria; cosa che – amplificata poderosamente dalla grancassa mediatica – favorì il sorgere di un movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari siriani nel Paese.

La sommossa, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, sortì il duplice risultato di costringere Bashar Assad a cedere alle forti pressioni internazionali, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano oltre all’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese, e di favorire l’ascesa al potere dell’economista Fouad Siniora, che si mostrò immediatamente riconoscente nei confronti di Pierre Gemayel per la funzione antisiriana svolta dal Partito Falangista sotto la sua egida affidandogli l’incarico di Ministro dell’Industria.

La “Rivoluzione dei Cedri” seguì il medesimo schema delle tante rivoluzioni colorate sorte nei paesi vicini alla Russia da vicende, non sempre realmente accadute o rispondenti alle modalità con cui sono state descritte, in grado di catalizzare i malcontenti popolari della più svariata natura e creare disordini sociali suscettibili di indebolire o abbattere i governi in carica.

Tuttavia, il governo Siniora mostrò ben presto – come quello di Viktor Yushenko in Ucraina – i propri limiti e perse rapidamente tutti i vantaggi che aveva precedentemente ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima.

Il popolare generale cristiano Michel Aoud si schierò allora con il potente movimento sciita di Hezbollah, formando una coalizione nazionalista forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele.

Hezbollah, per bocca del leader Hassan Nasrallah, spese al riguardo le seguenti, eloquenti parole: “Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman”.

Jeffrey Feltman ricopriva all’epoca l’incarico di assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente.

In quella specifica fase in cui la struttura portante del governo Siniora presentava crepe sempre più profonde si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, che era un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome, in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano.

La sua conclamata ostilità nei confronti della Siria orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa potenzialmente destabilizzante e suscettibile di spezzare l’integrità sociale libanese e rigettando il paese nel caos.

Una vicenda simile era accaduta nel 1982 al più noto della stirpe Gemayel, quel Bashir che dilaniato in un colossale attentato pochi giorni prima di esser nominato Presidente con il forte sostegno di Israele e specificamente dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon.

L’atto terroristico fu anche all’epoca attribuito alla Siria che si era da poco schierata in difesa dei profughi palestinesi e provocò la spaventosa ritorsione dei falangisti i quali, forti del supporto logistico dell’esercito israeliano, perpetrarono il ben noto massacro nei campi di Chabra e Chatila delle altrettanto ben note dimensioni.

L’obiettivo di Israele è sempre stato quello di destabilizzare il Libano e la resistenza sciita, dalla quale è nato Hezbollah, è stata l’unica forza in grado di contenere la soverchiante macchina militare meglio nota come Tsahal.

Nell’estate di quel rovente 1982 Israele sferrò l’operazione “Pace in Galilea”, nell’ambito della quale caddero circa 20.000 civili libanesi (e palestinesi) e un terzo del territorio nazionale cadde in mano all’esercito di Tel Aviv.

Mentre Hezbollah raccoglieva adepti in seno alla società libanese Tsahal non riusciva a piegare la resistenza sciita e incassava inaspettate perdite lungo le alture di Khaldeh.

Nel 1985, l’ostinazione di Hezbollah costrinse Israele a ritirarsi da numerosi villaggi e dalle principali città di Tiro e Sidone.

Nel luglio del 1993 il capo di Stato Maggiore Ehud Barak intimò al servile governo centrale di Beirut il diktat di disarmare i “terroristi” di Hezbollah o di accettare le inevitabili conseguenze dell’eventuale inadempienza.

Nel frattempo Hezbollah aveva però acquisito un peso tale da rendere impossibile ogni iniziativa del governo in tal senso ed Israele decise quindi di passare alle maniere forti sferrando l’operazione “Accountability”, durante la quale vennero effettuati più di 1.000 raid aerei corrispondenti ad altrettanti bombardamenti sulle città libanesi.

Il Mossad aveva però sottostimato la capacità di reazione di Hezbollah e agì seguendo una colossale, malriposta fiducia nei propri servizi.

Hezbollah e le varie fazioni della resistenza libanese ribadirono infatti colpo su colpo provocando uno stallo che culminò con una tregua che entrò in vigore il 31 luglio del 1993.

Di fronte all’inaspettata reazione libanese, il Primo Ministro Itzak Rabin fu costretto ad ammettere la sconfitta.

Nell’aprile di tre anni dopo ebbe luogo l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro, provocando la morte di numerosi civili e la distruzione di case e infrastrutture.

Tuttavia Hezbollah aveva studiato le tattiche israeliane e tratto i debiti insegnamenti dai passati conflitti, anticipando le mosse di Tsahal e infliggendo forti perdite mediante operazioni di guerriglia che le numerose milizie a disposizione erano state addestrate specificamente ad eseguire.

Seguì un’ulteriore tregua patrocinata dal Ministro degli Esteri statunitense Warren Christopher.

L’opinione pubblica israeliana interpretò il tutto come una sconfitta, cosa che compromise la rielezione di Shimon Peres in seguito alle elezioni del maggio 1996.

Nell’estate del 2006 si verificò l’ennesima aggressione israeliana, un’operazione che stando al rapporto redatto da Amnesty International ha provocato la morte di 1.183 civili libanesi, di 4.054 feriti e circa 970.000 profughi.

Gli oltre 7.000 attacchi aerei e i circa 2.500 bombardamenti navali israeliani hanno comportato la distruzione di 120 ponti, 900 strutture commerciali e più di 30.000 edifici tra alloggi, uffici e negozi.

I centri abitati hanno subito immani devastazioni quantificabili nell’80% delle case a Tayyabah, 60% a Zibqin e 50% a Markaba, Bayyadah e Qantarah.

Danni estremamente gravi sono stati riportati da ospedali, centrali elettriche, condotti idroelettrici e qualsiasi altro tipo di infrastruttura.

Hezbollah intendeva barattare alcuni militari israeliani catturati nel corso di un’incursione costata la vita a otto soldati di Tsahal con alcuni civili libanesi detenuti in Israele, ma il governo di Tel Aviv guidato dal Primo Ministro Ehud Olmert decise istantaneamente di lanciare una gigantesca offensiva in tutto il paese finalizzata ad assestare un duro colpo al “Partito di Dio” privandolo dell’appoggio popolare e rinfocolare i mai sopiti dissidi interni al Libano.

Si trattò di un’operazione animata dalla medesima logica che portò all’invasione israeliana del Libano nel 1982, diretta a favorire il dissolvimento dell’OLP.

Sortì però un effetto politico del tutto inaspettato, che corrispose con in consolidamento dell’asse cristiano (maronita) – sciita promosso dai rispettivi leader Michel Aoun e Hassan Nasrallah e la conseguente formazione di un fronte patriottico unito fortemente ostile ad Israele.

Gli attentati che hanno stroncato le vite di eminenti personalità libanesi si giustappongono perfettamente nel più ampio contesto generale da cui emerge l’inesausto tentativo israeliano di creare fratture in seno alla variegata e complessa società libanese, gettando una seria ipoteca sull’autonomia decisionale dei governi di Beirut così da sottrarli all’influenza siriana.

Gli Stati Uniti hanno sostenuto il governo di Tel Aviv nell’ultimo conflitto libanese contestualmente al ruolo ritagliato su misura per Israele dagli strateghi neoconservatori, che intendevano favorire l’affermazione dell’egemonia regionale israeliana come avamposto degli interessi statunitensi nell’area.

L’aggressione all’Iraq fu parte integrante di questo disegno, la prima mossa del progetto riguardante l’instaurazione di un “Grande Medio Oriente”, la cui funzione è stata eloquentemente indicata da William Kristol e Robert Kaplan : “La missione comincia a Bagdad ma non finisce qui (…), tutto ciò riguarda molto più che l’Iraq. Riguarda addirittura più del futuro del Medio Oriente e della guerra al terrorismo. Riguarda quale ruolo gli Stati Uniti intendono svolgere nel Ventunesimo Secolo”.

Lo scenario luminoso previsto dai neoconservatori si è rivelato, alla prova dei fatti, difficilmente realizzabile perché costellato da numerosi fattori storici, economici, militari e geopolitici che hanno ridimensionato la capacità coercitiva degli Stati Uniti.

Per questo motivo il progetto relativo allo scardinamento dell’assetto geopolitico che ha mantenuto l’equilibrio del mondo arabo per svariati decenni è proceduto seguendo metodologie diverse da quelle concepite dai neoconservatori, più propensi a far ricorso alle tattiche d’urto che non alla diplomazia dei raggiri e delle ingerenze.

Tuttavia, la pur abbondante benzina versata sul braciere libanese negli ultimi decenni – scatenando una serie impressionante di guerre civili e massacri – ha finito per rafforzare il ruolo di Hezbollah e cementare l’unità nazionale attorno alla condivisa ostilità nei riguardi di Stati Uniti e Israele.

In Siria gli Stati Uniti e i loro sottoposti – Israele in primis – hanno adottato alcune tattiche inerenti la medesima metodologia impiegata in Libano, sobillando alcune frange popolari alla rivolta così da gettare le basi per l’attuale destabilizzazione del paese, duramente repressa dal regime di Basher Assad.

Israele, d’altro canto, è entrato in definitiva rotta di collisione con la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, che ha disposto il ritiro del proprio ambasciatore dopo una lunga fase di continue turbolenze innescata dall’operazione unilaterale meglio nota come Piombo Fuso del dicembre 2008 contro Gaza e aggravata dalla strage della Freedom Flotilla del maggio 2010, che provocò la dura presa di posizione turca culminata con la pubblica esecrazione di Shimon Peres, che cercava di legittimare i bombardamenti su Gaza, ad opera di Erdogan.

Tel Aviv versa attualmente in un isolamento regionale che subirebbe inevitabilmente un ulteriormente inasprimento qualora il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e i membri del suo entourage decidessero di compiere qualche azione spregiudicata contro l’Iran o contro la Siria.

Dal momento che il ruolo di Presidente degli Stati Uniti è occupato da Barack Obama è difficile che iniziative simili trovino l’appoggio di Washington.

La politica estera propugnata dall’amministrazione Obama è fortemente condizionata (se non manovrata) da Zbigniew Brzezinski, stratega che ha sempre deplorato l’appoggio statunitense alle più sconsiderate azioni di forza israeliane e che guarda da un’angolazione differente l’affaire siriano.

Brzezinski ha svolto un ruolo cruciale durante la Guerra Fredda e anche dopo il collasso dell’Unione Sovietica ha indicato nella possibile rinascita della Russia la principale minaccia agli interessi statunitensi.

La Siria non è soltanto un fedele alleato della Russia, ma ospita anche una imponente, imprescindibile base militare a Tartus che garantisce l’agognato sbocco sul Mediterraneo alla flotta russa.

Mosca è conscia tanto dell’importanza cruciale della base di Tartus quanto del ruolo centrale che svolge attualmente la Siria e si è opposta, contestualmente, a qualsiasi ingerenza esterna proposta finora dagli stessi protagonisti dell’aggressione unilaterale alla Libia.

Tuttavia, John McCain – ex candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti – ha recentemente affermato che “Dopo la Libia, un cambio di regime potrebbe verificarsi anche in Siria e persino in Russia e Cina”, aggiungendo che “Le ribellioni non si limiteranno al Medio Oriente ed investiranno anche la Russia” e che “Putin dovrebbe apprendere la giusta lezione dal destino di Hosni Mubarak”.

Oltre a gettare una luce assai sinistra sulla presunta spontaneità delle rivoluzioni attualmente in corso, l’arroganza con cui McCain ha esternato le proprie previsioni ha aperto lo scenario a un possibile ritorno al potere dell’ala neoconservatrice e al ripristino di una strategia più marcatamente muscolare, che ha assurto la forza bruta a nuovo “nomos della terra” da imporre con i ben noti metodi impiegati nel recente passato.

Dal canto suo, il Baath siriano guidato da Basher Assad è apparso finora un regime estremamente coriaceo, capace di effettuare abilmente le proprie mosse sullo scacchiere internazionale.

Sta dimostrando, insomma, di aver appreso dalle vicende libanesi come fronteggiare le minacce esterne e dalle agguerrite milizie di Hezbollah come acquisire la lezione di Sun Tzu – conoscere il nemico – meglio dei propri avversari, che al momento non sembrano seguire una strategia condivisa – per sconfiggere Gheddafi hanno impiegato molti più mesi di quanti non avessero previsto – per il Vicino e Medio Oriente.

 

* Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

 

 


Erdoğan: direzione Gaza, passando per l’Egitto

0
0

Segnali contraddittori: la Turchia che da una parte accoglie la richiesta NATO di installazione del cosiddetto “sistema radar di difesa” – una minaccia latente verso l’Iran e non solo, si pensi per esempio alla posizione della Russia – e che dall’altra rompe decisamente con Israele in seguito al persistente rifiuto dell’entità sionista di interrompere l’embargo verso Gaza e di scusarsi per il sanguinoso assalto alla Mavi Marmara.

E ancora l’allineamento del Paese della Mezzaluna nella demonizzazione del regime baathista siriano e il lungo colloquio (oltre sei ore, ha riportato la stampa turca) intercorso in agosto  fra il ministro degli Esteri Davutoğlu e il leader siriano al-Assad alla ricerca – non ancora trovata – di un punto di accordo.

Sullo sfondo, ma forse domani in primo piano, l’ipotesi di un asse privilegiato Turchia – Egitto che riceverà un primo test di esame la prossima settimana con la visita nella capitale egiziana del Primo ministro Erdoğan.

Il radar antimissile che la Nato installerà in Turchia “non è rivolto contro l’Iran”, ha affermato l’ambasciatore turco a Roma, Hakki Akil, ed è difficile credergli, come è però difficile non immaginare che all’interno del sistema di potere turco forze contrapposte agiscano per fini differenti, e che il diplomatico giustamente sostenga le ragioni della politica – e in fin dei conti degli elettori turchi – contro quei vertici militari e massonici che spingono per un ripiegamento verso Occidente.

La decisione di ospitare il sistema radar della NATO è grave e sconta lo scotto dell’appartenenza  turca all’organizzazione militare atlantica: dimostra, se ce ne fosse bisogno, che tale legame è forte e pienamente operativo. Tuttavia ciò non deve generare un pessimismo esagerato nei confronti del processo di graduale riconquista di sovranità da parte di Ankara, processo che è probabilmente irreversibile.

L’incertezza della politica turca si accompagna alla  negativa congiuntura internazionale (guerra alla Libia, campagne medianiche imponenti contro la Siria, imbarazzante mancanza di iniziativa della Russia) ed è diretta o indiretta conseguenza di un vuoto di potenza, dell’assenza di efficaci legami eurasiatici nell’area. Ma la crisi del mondo unipolare “occidentale” è soltanto rimandata, e tutto il resto del mondo, sotto sotto, lo sa.

Dal Mediterraneo purtroppo in fiamme, vergognosamente calpestata ogni norma di diritto internazionale con l’affaire Libia, giunge comunque qualche novità interessante: il ministro degli Esteri di Ankara Davutoğlu ha tracciato con chiarezza la politica del suo Paese in seguito alla rottura con Israele, rimarcando con i suoi omologhi europei che non si tratta di “tensioni bilaterali” con lo Stato ebraico bensì di un problema più generale “legato all’inosservanza israeliana del diritto internazionale”.

Davutoğlu ha preannunciato l’interruzione di ogni intesa militare fra i due Paesi, e questo è molto significativo, considerata la storica contiguità fra i vertici delle Forze Armate turche e israeliane. Egualmente ha fatto sapere che Ankara rafforzerà la presenza della sua marina nel Mediterraneo (anche in funzione di proteggere l’invio di aiuti umanitari a Gaza), pronta a replicare a eventuali provocazioni di Tel Aviv.

D’altra parte, la Turchia sembra guardare con crescente interesse all’Egitto, e l’Egitto alla Turchia: il viaggio di Erdoğan al Cairo, cui accennavamo all’inizio, potrebbe avere notevole importanza anche simbolica, considerata la richiesta del leader turco di raggiungere – attraverso il valico di Refah – la martoriata Gaza, ove – come riporta il quotidiano turco Star – “è atteso come un Dio” (Tanrı indica in effetti la Sostanza Divina). Espressioni enfatiche che rivelano l’aspettativa  del popolo palestinese nella politica turca, e che impegnano la politica turca a un alto grado di responsabilità verso gli arabi.

*Aldo Braccio, esperto del mondo turco nelle sue relazioni interne ed internazionali, membro del Consiglio direttivo dell’IsAG – Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, è autore di Turchia, ponte d’Eurasia (Fuoco, Roma 2011)

Libia: prematura celebrazione di una vittoria

0
0

Fonte: Stratfor Global Intelligence

La guerra in Libia è finita. Più precisamente, governi e media hanno deciso che sia finita, sebbene i combattimenti continuino. Le aspettative, regolarmente disattese, erano che Moammar Gheddafi sarebbe capitolato di fronte alle forze schierate contro di lui, e che le sue stesse milizie l’avrebbero abbandonato davanti alla sconfitta. Quello che si stava celebrando la scorsa settimana, con i presidenti, i Primi Ministri, e i media che annunciavano la sconfitta di Gheddafi, probabilmente diverrà realtà a tempo debito. Il fatto che ancora non sia così non sminuisce le tendenze ad auto – congratularsi

Per esempio, il Ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha riferito che soltanto il 5% della Libia rimane ancora sotto il controllo di Gheddafi. Sembrerebbe una percentuale insignificante, tranne per questa notizia apparsa sul quotidiano italiano La Stampa che riferiva che ‘Tripoli sta venendo ripulita’ quartiere per quartiere, strada per strada, casa per casa. Nel frattempo, bombe dal cielo stanno cadendo su Sirte dove, secondo i francesi Gheddafi è riuscito ad arrivare, anche se non si sa come. La città di Bali Walid, strategicamente importante – altro possibile nascondiglio nonché una delle due restanti vie d’uscita che conduce ad un’altra roccaforte di Gheddafi, Sabha – è stata circondata.

In altre parole, le forze di Gheddafi ancora conservano il controllo militare di una significativa area del paese. A Tripoli si combatte casa per casa ma ci sono ancora numerose roccaforti dotate di una forza difensiva sufficiente da non poter essere penetrate senza un’ adeguata preparazione militare. Anche se il reale nascondiglio del rais è sconosciuto, la sua cattura rappresenta l’obbiettivo della maggior parte dei preparativi militari, incluse le azioni aeree della NATO, intorno a Bali Walid, Sirte e Sabha. Quando Saddam Hussein fu catturato, si stava nascondendo in un buco nel terreno, solo e senza armi. Gheddafi sta ancora combattendo e sfidando gli avversari. La guerra non è finita.

Si potrebbe sostenere che seppure Gheddafi possiede ancora una consistente forza militare e parte del territorio, non governa più la Libia. È certamente vero e significativo, ma diventerà ancora più significativo quando i suoi nemici prenderanno il controllo delle leve del potere. Non è ragionevole aspettarsi che loro (i ribelli, ndt) siano in grado di fare questo a pochi giorni di distanza dall’ingresso a Tripoli e mentre gli scontri continuano. Perciò si pongono degli interrogativi critici, cioè se i ribelli hanno sufficiente forza per formare un governo credibile e se ci si deve aspettare nuovi scontri tra la popolazione (guerra civile, ndt) anche dopo che le forze di Gheddafi saranno neutralizzate. Semplicemente, Gheddafi sembra essere sul punto di essere sconfitto ma ancora non è giunto questo momento e la capacità dei suoi nemici di governare la Libia è in dubbio.

Intervento impeccabile

Dal momento che la fine è ancora lontana, è interessante considerare perché Barak Obama, Nicolas Sarkozy e David Cameron, i principali attori in questa guerra, hanno dichiarato all’unisono che Gheddafi è caduto, implicando con ciò la fine della guerra, e perché anche i media hanno fatto loro eco. Per comprendere questo, è importante capire quanto è stato sorprendente per ognuno di questi leaders il corso degli eventi. Innanzitutto, ci si aspettava che l’intervento della NATO, prima con la no – fly zone e poi con azioni aeree mirate sulle postazioni di Gheddafi, avrebbe provocato un rapido collasso del suo governo e la sua sostituzione con una coalizione democratica ad est.

Due fattori convergenti hanno portato a questa conclusione. Il primo è rappresentato dai gruppi che sostengono i diritti umani, estranei ai governi e alle fazioni, e dal Dipartimento di Stato, che ritenevano necessario un intervento per fermare la strage in atto a Benghazi. Questo schieramento aveva un problema serio: la via più efficace per fermare rapidamente un regime sanguinario era l’intervento militare ma, avendo condannato l’invasione americana in Iraq che aveva come scopo, almeno in parte, quello di rovesciare un regime violento, sarebbe stato difficile giustificare un intervento armato sul territorio libico. Le argomentazioni morali richiedono una certa coerenza.

In Europa ha acquisito centralità la dottrina del ‘soft power’ ma nel caso della Libia, trovare una strada per applicarla era difficile: sanzioni ed ammonimenti probabilmente non avrebbero fermato Gheddafi e l’azione militare va contro i principi della suddetta dottrina. Il risultato è stato una soft power militare; l’istituzione di una no – fly zone era un modo per avviare un’azione militare senza realmente danneggiare qualcuno, tranne i piloti che erano decollati, e soddisfaceva al contempo la necessità di distinguere la Libia dall’Iraq non invadendola né occupandola ma permetteva di esercitare pressioni realmente significative su Gheddafi.

Naturalmente, la no – fly zone si è rivelata inefficace e le forze francesi hanno cominciato a bombardare le milizie di Gheddafi il giorno stesso. A terra stavano morendo i libici, non i soldati francesi,  inglesi o americani. Mentre la no – fly zone veniva ufficialmente annunciata, la campagna aerea prendeva piede senza alcun tipo di chiara decisione. Gli attivisti dei diritti umani hanno fatto presente la loro preoccupazione: i bombardamenti aerei causano sempre più vittime di quelle designate perché non possono essere così precisi come si vorrebbe. Questo ha fatto sentire i governi autorizzati ad imbarcarsi in quello che io (l’autore, ndt) ho chiamato ‘intervento impeccabile’.

Il secondo fattore per cui si è optato per questa strategia, è riconducibile alle aviazioni dei vari paesi coinvolti. Non è in discussione l’importanza della forza aerea nelle guerre moderne ma ci sono continue discussioni sulla possibilità di raggiungere gli scopi politici prefissati soltanto per mezzo di questa, senza cioè coinvolgere le forze di terra. Per la ’comunità dell’aria’ la Libia poteva diventare l’occasione per dimostrare la propria efficacia nel perseguire i suddetti scopi.

Tutto questo permetteva ai sostenitori dei diritti umani di concentrarsi sugli scopi – proteggere i civili libici a Benghazi – fingendo di non aver sostenuto un intervento armato che avrebbe lasciato di per sé molti morti alle spalle. Dal canto loro, i leader politici potevano sentire di non infilarsi in un pantano ma semplicemente intraprendere un intervento pulito ed infine le forze aeree potevano dimostrare la loro efficacia nel produrre gli effetti politici sperati.

Come e perché

La questione delle ragioni di fondo va affrontata perché stanno circolando voci sul fatto che le compagnie di petrolio si contendono grosse somme di denaro in Libia. Queste sono tutte teorie credibili giacché la storia,quella vera, è difficile da scoprire ed io (l’autore, ndt) simpatizzo con quelli che stanno cercando un’intricata cospirazione che giustifichi il tutto.

Il problema è che andare in guerra per il petrolio libico non era necessario. Gheddafi amava vendere il petrolio, quindi, se i governi coinvolti gli avessero detto tranquillamente che sarebbe saltato se non avesse trovato un’altra intesa con chi si intascava i proventi e ridefinito l’ammontare di royalties da trattenere, Gheddafi l’avrebbe fatto. Lui era cinico ed aveva perfettamente capito che cambiare partner d’affari e cedere buona parte dei profitti sarebbe stato meglio che essere deposto.

In realtà non c’è nessuna teoria che spieghi questa guerra come causata dal petrolio, semplicemente perché non ciò non era necessario per ottenere le concessioni desiderate.  Quindi la storia – proteggere la popolazione di Benghazi dal massacro – è l’unica spiegazione razionale, per quanto possa essere difficile da credere.

Si deve tenere in considerazione che, data la natura della moderna strategia di guerra, le forze della NATO in piccola quantità dovevano essere presenti sin dall’inizio – in realtà, addirittura da qualche giorno prima l’inizio della campagna aerea. Un’identificazione accurata degli obbiettivi e l’averne ragione con sufficiente precisione richiede squadre speciali altamente specializzate per utilizzare al meglio gli armamenti. Il fatto che ci sono stati relativamente pochi incidenti causati dal fuoco amico indica che le procedure operative standard erano attive.

Queste squadre erano probabilmente affiancate da altre squadre speciali che hanno preparato  – in molti casi anche ufficiosamente guidato – le forze ribelli agli scontri. Ci sono numerosi rapporti dei primi giorni di guerra che indicano che le squadre speciali addestravano i combattenti ad usare le armi ed impartivano loro un’organizzazione.

Tuttavia, si sono verificati due problemi adducibili a questo approccio. Primo, Gheddafi non ha ripiegato la tenda e non è capitolato, sembrava anzi singolarmente indifferente alle forze che aveva di fronte. Secondo, le sue truppe si sono dimostrate essere altamente capaci e motivate, almeno in confronto ai loro avversari.  Una dimostrazione di ciò sta nel fatto che non si sono arresi in massa ma hanno mantenuto un certo grado di compattezza e – la prova finale – hanno resistito per sei mesi e continuano a farlo. La convinzione dei sostenitori dei diritti umani che un tiranno isolato si sarebbe arreso di fronte alla comunità internazionale, dei leaders politici che avrebbe ceduto nel giro i qualche giorno schiacciato dalla potenza aerea della NATO e delle forze aeree che i bombardamenti avrebbero distrutto la resistenza, tutto questo si è rivelato essere falso.

Una guerra protratta

La causa di tutto questo è in parte da individuare in un fraintendimento della politica libica. Gheddafi era un tiranno ma non era completamente isolato; aveva dei nemici ma anche molti sostenitori che avevano dei benefici da lui, o quanto meno che credevano nella sua dottrina. Inoltre, tra le truppe di governo (alcuni dei quali erano mercenari del sud) c’era anche la convinzione generale che la resa avrebbe comportato il loro massacro; i leader politici, invece, ritenevano che la resa li avrebbe condotti all’Aia e quindi in prigione. La fiducia della comunità a difesa dei diritti umani nella Corte Criminale Internazionale che  avrebbe giudicato Gheddafi e il suo entourage  non avrebbe lasciato loro alcuno spazio per ritirarsi, e uomini senza scampo combattono duramente e fino alla fine. Non c’era modo di negoziare la capitolazione a meno che il Consiglio di Sicurezza dell’ ONU non avesse mediato per un accordo. Gli ammiccamenti che hanno convinto i grandi dittatori del passato a farsi da parte non sono più sufficienti. Tutti i paesi che fanno parte dello Statuto di Roma sarebbero tenuti a consegnare un leader come Gheddafi al tribunale di ICC.

Inoltre, a meno che l’ONU non concluda pubblicamente un accordo con Gheddafi, che sarebbe avversato dalla comunità dei diritti umani e potrebbe in ogni caso sembrare poco opportuno, Gheddafi non si arrenderà, e così anche le sue truppe. I rapporti della scorsa settimana parlavano di alcuni soldati che sono stati giustiziati. Vero o no, giusto o no, potrebbe non essere un buon motivo per arrendersi.

La guerra è cominciata con la missione pubblica di proteggere il popolo di Benghazi e si è trasformata presto in una guerra per spodestare Gheddafi. Il problema era che tra gli scopi militari ed ideologici, le forze dispiegate per la missione erano insufficienti. Non sappiamo quante persone siano state uccise negli scontri durante gli ultimi sei mesi, ma usare il soft power militare in questo modo sicuramente ha protratto la guerra e verosimilmente causato molte più morti, sia militari che civili.

Dopo sei mesi la NATO si è stancata ed ha finito con l’assaltare Tripoli. L’assalto sembra essere consistito in 3 parti. La prima è stato l’intervento delle truppe operative speciali (poche centinaia) che, guidate dall’intelligence in azione a Tripoli, ha attaccato e destabilizzato le forze governative nella città. La seconda, è risultata essere un’operazione comunicativa con cui la NATO ha fatto sembrare che la guerra fosse finita. Il bizzarro incidente in cui era stato annunciato che il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, era stato catturato salvo poi apparire in un SUV “molto non-catturato”, era parte del gioco. La NATO voleva che sembrasse che la leadership e le forze della resistenza fossero state sconfitte perché queste stesse forze si convincessero ad arrendersi. L’apparizione di Saif al-Islam aveva lo scopo di mostrare che la guerra continuava ancora.

In seguito alle speciali operazioni di attacco e di informazione, i ribelli occidentali sono entrati in città con grandi festeggiamenti, sparando perfino colpi celebrativi in aria. I media mondiali hanno fissato la fine della guerra al ritiro delle squadre speciali e i ribelli vittoriosi hanno accettato ciò. Ci sono voluti sei mesi, ma è finita.

E poi è diventato ovvio che non era finita. Il 5% della Libia – una percentuale interessante – non era  stata liberata, i combattimenti per strada a Tripoli continuavano, aree del paese erano ancora sotto il controllo di Gheddafi. E lo stesso Gheddafi non era dove i suoi nemici volevano che fosse. La guerra continuava.

Da tutto questo si possono trarre una serie di lezioni. Primo, che la Libia può non essere importante per il mondo ma per i libici sicuramente non è così. Secondo, non supporre che i tiranni non abbiano sostenitori. Gheddafi non ha governato la Libia per 42 anni senza essere sostenuto da qualcuno. Terzo, non dare per scontato che le forze dispiegate siano necessariamente  sufficienti. Quarto, cancellare l’opzione di una fine negoziata della guerra con gli strumenti delle corti internazionali può essere moralmente gratificante ma comporta che la guerra continui e il numero delle vittime aumenti. Bisogna decidere cosa è più importante – alleviare le sofferenze delle persone o punire il colpevole. Qualche volta è l’uno o l’altro. Quinto, e più importante, non prendere in giro il mondo dicendo che le guerre stanno volgendo al termine. Dopo che G. W. Bush si è imbarcato su una portaerei decorata con lo striscione ‘missione compiuta’, la guerra in Iraq si è fatta ancora più violenta, e il danno per lui ancora più grave. Operazioni d’informazione possono essere utili a convincere l’avversario a capitolare, ma la credibilità politica svanisce se si dichiara che la guerra è finita mentre i combattimenti vanno avanti.

Verosimilmente, Gheddafi alla fine cadrà. La NATO è più potente di quanto lo sia lui e saranno spedite forze sufficienti a farlo cadere. Invece, ci si deve domandare se c’è un’altra strada per ottenere questo risultato con meno costi e più benefici. Lasciando da parte la teoria della guerra per il petrolio, se lo scopo era quello di proteggere Benghazi e spodestare Gheddafi, un maggior numero di forze o una fine negoziale che preveda garanzie contro processi al tribunale dell’Aia, sarebbero verosimilmente serviti meglio allo scopo con una minor perdita di vite rispetto all’applicazione del soft power militare.

E visto che il mondo guarda alla situazione in Siria, tutto questo dovrebbe essere tenuto a mente.

*Traduzione di Paola Saliola

Convegno a Torino: «LA ROMANIA E I DIRITTI UMANI»

0
0
Un convegno internazionale italo-­romeno a Torino
«LA ROMANIA E I DIRITTI UMANI»
A vent’anni da una tragedia misconosciuta

Torino, sabato 24 settembre 2011 Ore 9,30-­18

Centro Congressi Regione Piemonte

Corso Stati Uniti, 23 – Torino

Programma

9,30
Apertura lavori
Bruno Labate (PoesiAttiva)
don Fredo Olivero (Pastorale Migranti Torino)
Giampiero Leo (consigliere Regione Piemonte)

10,00 – UNA GRANDE MENZOGNA: LA RIVOLUZIONE DEL DICEMBRE 1989
Grigore Cartianu Giornalista di «Adevarul», autore di Sfarsitul Ceausestilor. Sa mori impuscat ca un animal salbatic (La fine dei Ceausescu: morite ammazzati come un animale selvatico) e Crimele revolutiei (I crimini della rivoluzione)
L’intervento sarà tradotto con traduzione consecutiva

11,00 – L’ULTIMO GIRONE: L’ESPERIMENTO PITESTI
Dario Fertilio giornalista del «Corriere della Sera», scrittore, autore di Musica per lupi, saggio–‐romanzo storico sull’Esperimento Pitesti

12,00 – Dibattito

13,00 – Buffet aperto a tutti

15,00

LA FUNZIONE GEOPOLITICA DELLA ROMANIA
Claudio Mutti Romenista, saggista, traduttore, redattore della rivista Eurasia, membro del Consiglio direttivo dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze ausiliarie), fondatore e direttore delle Edizioni all’Insegna del Veltro

16,00 – LA GUARDIA DI FERRO E IL PROCESSO CONTRO CORNELIU ZELEA CODREANU
Luca Bistolfi Giornalista e saggista, studioso di Romania, redattore della rivista in rete EaST Journal

17,00 – Dibattito e chiusura dei lavori

Durante l’incontro sarà proiettato un filmato contenente una testimonianza di un sopravvissuto al carcere di Pitesti

Per informazioni: 389.0539569

Alessandro Lattanzio, Terrorismo sintetico

0
0

Alessandro Lattanzio
Terrorismo sintetico
Prefazione di Massimo Mazzucco
Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007, pp. 184, € 20,00

Alessandro Lattanzio raccoglie in questo testo i principali capi d’accusa mossi da studiosi di tutto il mondo alla “versione ufficiale” degli attentati dell’11 Settembre 2001, versione elaborata e diffusa (troppo velocemente?) da gran parte della stampa mondiale previa approvazione del governo statunitense.

Una sostanziale riorganizzazione della notevole quantità di dati riguardanti gli avvenimenti di quel giorno, maledetto prima dal popolo statunitense, poi da quelli europei ed oggi soprattutto da quello afgano ed iracheno.
Non quindi una semplice analisi degli avvenimenti simbolo del “terrorismo sintetico”, quanto piuttosto la costruzione di un quadro complesso e ricco di elementi politici, economici e militari, supportata da numerosi riferimenti ad articoli, perizie e studi oggi facilmente consultabili anche tramite internet.
Centinaia sono infatti i portali in rete che si sono occupati a diverso titolo della dinamica degli “attentati”, l’impatto dei velivoli sulle costruzioni, le caratteristiche costruttive e le specifiche tecnico-dimensionali dei fabbricati e degli aerei coinvolti negli eventi. Tra i soli riferimenti bibliografici del testo trovano posto oltre novanta siti internet, di cui almeno una ventina realizzati in lingua italiana.
È quindi proprio la rete di Internet, che al pari ad esempio del sistema satellitare GPS rappresenta la svolta commerciale della tecnologia militare americana in parte sfuggita al controllo dei propri ideatori, a consentire ancora oggi uno sviluppo ipertrofico degli studi sul 9/11 condotti da periti, tecnici, studiosi, fino ai semplici appassionati.
Il primo passo dell’indagine è simbolicamente compiuto ai vertici dell’apparato militare statunitense, il Pentagono, ove la teoria dei “terroristi islamici” che dirottano un aereo civile e lo fanno schiantare contro il palazzo presenta da subito molti lati oscuri: a seguito dell’impatto non si troverà infatti alcun resto dell’aereo, delle sue scatole nere, dei bagagli, ecc.
Da Washington si sono affrettati a spiegare che il calore sprigionato dall’esplosione avrebbe letteralmente polverizzato il velivolo (1) (da qui l’impossibilità di recuperarne i frammenti) dimenticandosi di chiarire come sia stato poi possibile per l’AFIP (2) identificare i corpi dei passeggeri morti nello schianto; forse i materiali dei velivoli sono più fragili del corpo umano?
Nel caso delle Torri Gemelle (World Trade Center 1 e 2), la versione data da fonti governative sull’attentato appare ancora più debole, in quanto imputa agli incendi provocati dal carburante degli aerei in collisione l’indebolimento delle strutture ed infine il loro crollo.
Praticamente impossibile, se si pensa che il calore sprigionato dal carburante per pochi minuti e parzialmente fuoriuscito all’esterno del palazzo non potrebbe in alcun modo raggiungere temperature prossime al punto di fusione dell’armatura e della carpenteria metallica dei due grattacieli.
Si domanda giustamente Lattanzio: “perché la Torre Sud del WTC è crollata per prima, quando non era così estensivamente danneggiata come la Torre Nord, che è bruciata per quasi un’ora e mezzo prima di crollare? [...] la Torre Sud crollò alle 9.59, ossia 56 minuti dopo l’impatto, mentre la Torre Nord crollò alle 10,29, vale a dire 1 ora e 44 minuti dopo l’impatto. Se l’incendio fosse stato la causa del crollo, allora la Torre Nord, con un incendio più intenso, sarebbe dovuta crollare prima. O almeno avrebbe dovuto cedere prima (non dopo) della Torre Sud”.
Stavolta sono persino le leggi della fisica ad essere messe in crisi dagli imprendibili terroristi di Al Qaeda.
Nel caso delle Torri Gemelle le incongruenze sono macroscopiche ed assai numerose, tali da suggerire l’unica risposta possibile: “[...] le demolizioni convenzionali ebbero una notevole parte nel disastro dell’11 settembre, visto quanto pesantemente erano state imbottite con esplosivi. Ciascun crollo degli edifici del WTC si verificò ad una velocità praticamente da caduta libera (circa 10 secondi o meno) [...] Gli esperti in soccorsi furono meravigliati da quanto fossero fini i pezzi dei detriti”.
Molti testimoni hanno udito forti esplosioni all’interno degli edifici: “Ciascun crollo ha prodotto acciaio fuso identico a quello generato da esplosivi, che causano “punti caldi” che persistono per dei mesi…”.
Difficile davvero credere che in tale scenario, dove tutto il calcestruzzo viene polverizzato e l’acciaio fuso, sia stato possibile “ritrovare” intatto il documento che vorrebbe inchiodare i responsabili dell’attentato: il passaporto di Mohamed Atta, uno dei presunti attentatori che però non risulta negli elenchi degli passeggeri imbarcati sui due velivoli; strano davvero che un attentatore viaggiasse sotto falso nome negli Stati Uniti portando con se anche i veri documenti d’identità.
Impossibile anche spiegare con gli effetti degli incendi il crollo del WTC7, un edificio dalla forma massiccia ubicato in posizione marginale rispetto al complesso edilizio, considerando che lo stesso è crollato al suolo con modalità simili alle Torri, ma senza essere in alcun modo danneggiato o colpito dagli aerei e dai crolli degli altri edifici; anche in questo caso lo schianto avviene in pochi secondi, perfettamente verticale: “Come mai i terroristi si impegnano a fare crollare verticalmente le Torri del WTC, quando con una caduta per “ribaltamento”, assai semplice da ottenere, avrebbero provocato maggiori danni al centro di Manhattan?”.
È un ingegnere esperto nella progettazione di demolizioni controllate di vecchi edifici a confermare che il lavoro sarebbe stato eseguito a regola d’arte.
Davvero notevole quindi la quantità di prove raccolte nel corso degli anni a sostegno della tesi “non ufficiale”, quella secondo cui la catena di sanguinosi attentati condotti con gli aerei civili sarebbe stata ideata o almeno in gran parte concordata con i centri di potere politico e finanziario del paese.
Per contro, le risposte fornite dai diversi enti nordamericani coinvolti nelle indagini (FEMA, FAA, NORAD, ecc.) fanno emergere una sostanziale illogicità della tesi proposta dal governo nordamericano; facile a questo punto capire per quale ragione lo stesso popolo americano, con gli occhi puntati sulla disastrosa campagna militare Enduring Freedom, oggi propenda in gran parte per la tesi della “questione interna”.
Non si deve dimenticare che proprio negli Stati Uniti sono state condotte le indagini più rigorose e dettagliate sugli attentati.
Le pagine conclusive analizzano una grande quantità di informazioni raccolte in merito a sospette speculazioni finanziarie succedutesi fino a pochi giorni prima dell’11 settembre 2001 (3), nonché all’arresto di numerosi cittadini israeliani nelle indagini antiterrorismo condotte nei mesi successivi agli attacchi.
Tra i tanti, l’autore richiama alla mente i cinque cittadini israeliani arrestati mentre filmavano festosi le rovine fumanti delle Torri Gemelle appena colpite. Interrogati e perquisiti, i cinque risultarono tutti impiegati presso un’azienda israeliana con sede negli Stati Uniti, sospettata di dare copertura alle attività del Mossad. Gli stessi giovani, dopo essere stati rilasciati e rispediti in Israele, dichiararono di essere arrivati sul posto con l’intento di documentare gli attacchi terroristici, quegli stessi attacchi che per una parte dell’opinione pubblica israeliana avrebbero potuto rendere più digeribile agli statunitensi la repressione israeliana nei confronti del popolo palestinese.
Non essendo possibile coprire la distanza tra Tel Aviv e New York in un’ora, è chiaro che almeno i “datori di lavoro” dei cinque trattenuti dovevano conoscere in anticipo le mosse dei dirottatori.
L’intromissione del governo israeliano in questa ed in altre simili operazioni ha però cancellato di fatto ogni possibilità di capire se gli arrestati fossero solo a conoscenza degli attacchi terroristici o fossero parte dell’apparato organizzatore.
Da qui le critiche che hanno portato i sostenitori del progetto atlantista a bollare come “assurdo cospirazionismo” lo studio di risposte alternative risultanti molto più credibili di quelle date dall’amministrazione centrale degli Stati Uniti.
Tra la versione dei fatti fornita dall’amministrazione Bush e la verità esiste quindi un ostacolo molto simile ad una sorta di blocco psicologico, il quale affligge in particolare noi cittadini europei, rendendoci incapaci di compiere un’analisi critica degli avvenimenti: “pare impossibile che degli “occidentali” possano avere preparato e messo in opera un simile progetto criminale coinvolgendo tante vittime civili”, pareva dichiarare l’opinione di fronte alle prime incongruenze (4).
Sono infatti proprio le oltre 2500 vittime dell’11 Settembre a richiamare il carattere cinicamente apolide delle oligarchie politico-finanziarie che negli Stati Uniti hanno, almeno, un ufficio o una sede legale.

Luca Bionda
( 11 Maggio 2007 – Eurasia)

Note
1 – La maggior parte degli esperti e dei tecnici indipendenti ritiene che in tale caso l’esplosione potrebbe essere stata prodotta da un missile sparato a breve distanza dal Pentagono. Le dimensioni della breccia prodotta nell’impatto sono sensibilmente minori rispetto a quelle del velivolo, mentre l’altezza del punto di collisione con la facciata testimonia l’impossibilità da parte di un grosso aereo di linea di compiere una simile manovra a bassa quota senza impattare altre strutture limitrofe.
2 – Istituto di Anatomopatologia delle Forze Armate degli Stati Uniti.
3 – Diverse banche e società finanziarie coinvolte a diverso titolo nelle attività del World Trade Center hanno effettuato operazioni “sospette” in borsa nel periodo immediatamente antecedente agli attacchi terroristici.
4 – Di tutto ciò ci avverte già in prefazione Massimo Mazzucco, autore di “Inganno globale”, il migliore documentario finora realizzato sul tema del 09/11.

La Siria sveglierà il BRICS?

0
0

Fonte: http://www.dedefensa.org/article-la_syrie_reveillera-t-elle_le_brics__06_09_2011.html 6 Settembre 2011

Domenica, dopo un incontro con il ministro degli esteri brasiliano Antonio Patriota, il ministro degli esteri russo Lavrov ha dichiarato che “se i paesi BRIC avranno effettivamente voce in capitolo, lo scenario libico non si ripeterà in Siria.”

Secondo quanto riportato da Russia Today (4 settembre 2011), dopo una rapida consultazione con gli altri paesi del gruppo (BRICS), il ministro russo avrebbe precisato:

“‘Le nazioni BRICS cercheranno di impedire che uno scenario di tipo libico sia usato in Siria“.

I commenti del ministro riguardo i paesi BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – sono giunti dopo un incontro con il suo omologo brasiliano, Antonio Patriota. ‘Siamo fermamente convinti che sia inaccettabile istigare l’opposizione siriana a continuare a boicottare i suggerimenti per avviare un dialogo’, ha detto Lavrov. ‘Questo è un invito a una ripetizione dello scenario libico. Le nazioni BRICS non permetteranno che ciò accada. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU non tollererà come tali risoluzioni verranno applicate’ ha detto Lavrov, ‘nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite domandi la fine delle violenze in Siria – non importa da chi sollevata – e spinga tutte le parti al dialogo’”.

Il sito Russia Today, ha ripreso (il 5 Settembre 2011) l’informazione e l’ha sviluppata nella forma di un’intervista con un esperto indiano, il dottor Sreeram Chaulia, professore presso la School of International Affairs di Jindal. Dr. Chaulia adotta la tesi di una strategia di espansione neo-coloniale dei paesi del blocco che eglii definisce Blocco Americanista-Occidentalista (BAO). Egli ritiene che i paesi BRIC, incluso il proprio, siano naturalmente designati ad opporsi alla deriva neocoloniale, soprattutto alle Nazioni Unite e nel campo delle sanzioni per un paese, che il blocco BAO richiede generalmente come primo passo prima di considerare l’invasione di quel paese, o un intervento diretto nei suoi affari interni.
“‘Abbiamo bisogno di evitare ciò e l’unico modo per farlo è che i BRICS formino un fronte unito’, ha detto. ‘E’ necessario contestare le ambizioni egemoniche.’ Ritiene che il BRICS sia un microcosmo del movimento verso un vero mondo multipolare. ‘Si può avere una genuina multipolarità solo attraverso l’azione congiunta da parte delle nazioni BRICS, per prevenire ciò’, ha detto. ‘Se abbiano successo o meno è una questione di proiezione di potenza sul terreno. Diplomaticamente, sì, Russia, Cina, India, Brasile, Sud Africa hanno inviato degli emissari in Siria e sono tutti coinvolti dietro le quinte’”.
L’originalità dell’apprezzamento del Dr. Chaulia è che considera il caso in cui il BRICS non riesca a fermare la deriva americano-occidentalista verso l’intervento. Ciò porterebbe al momento in cui l’opzione militare verrebbe considerata, e questo potrebbe essere il caso della Siria. Che fare in questo caso? Chaulia ha una risposta pronta: l’Iran.
“‘L’unico deterrente che evita altri interventi di tipo libico da parte dell’Occidente, è il fatto che l’Iran sostiene il regime siriano’, ha detto. ‘Impediranno materialmente l’acquisizione della Siria, nel modo in cui le potenze occidentali hanno praticamente occupato la Libia – col dirottamento delle risoluzioni delle Nazioni Unite per proteggere i civili.’ Chaulia ritiene che sia importante per il BRICS coordinarsi con l’Iran e fare in modo che ci sia una ‘transizione pacifica del potere’ e un passaggio alla democrazia, che è il messaggio principale che i membri del blocco inviano. ‘E infatti è un messaggio migliore del ‘metodo del grosso bastone’ della immediata imposizione di sanzioni per ‘salvare vite umane’, di cui statunitensi ed europei parlano’, ha concluso Chaulia”.
Il BRICS ha attraversato un periodo difficile negli ultimi mesi, che corrisponde esattamente al difficile periodo in cui la Russia ha perso la sua solita linea diplomatica. Il voto della risoluzione ONU 1973 a marzo (“protezione dei civili” in Libia), che ha trasgredito il principio (di non ingerenza nella sovranità) a nome di una situazione (massacri di civili) di cui s’è visto che era quantomeno relativa, è stato da parte dalla Russia un errore basato sul ragionamento pigro e l’illusione che, una linea diplomatica ragionevole, possa essere seguita in questo quadro con il blocco BAO. La trasgressione di un principio è innegabile, il cui precedente resta, mentre il giudizio di una situazione dipende da molte contingenze, soprattutto in questo periodo, se non manipolato dal sistema mediatico. (Per “principio” si intende una dinamica di strutturazione come la sovranità e la legittimità, da non confondere in alcun modo con una scelta ideologica, un’alleanza, ecc.)
Con la Russia così imbrigliata, il BRICS, che dipende principalmente da essa per gli impulsi diplomatici (la Cina, più potente, preferisce rimanere defilata), non ha mantenuto le promesse che alcuni – tra cui i russi, inoltre, – avevano fatto a suo nome riguardo la Libia. L’idea è ovviamente che un simile raduno di potenze emergenti, anche informale e suscitato dalla mera dimensione economica, abbia lo scopo di ricercare una certa unità di cooperazione, coordinamento e azione diplomatica; questo è particolarmente vero quando le relazioni internazionali sono sotto l’influenza di una forza di destrutturazione e di dissoluzione come il blocco BAO. Il BRICS dovrebbe poi ritrovare l’eredità del Movimento dei Paesi Non Allineati degli anni ’50 (la Conferenza di Bandung), con la Russia questa volta completamente integrata dalle sue opzioni diplomatiche e dalla totale assenza della dimensione ideologica.
Ovviamente, il suggerimento del Dr. Chaulia va ben oltre questo unico apprezzamento teorico, evocando in modo così preciso il caso dell’Iran. L’ipotesi costituisce un caso molto meno convenzionale, e apre delle prospettive stupefacenti apparendo come una minaccia diretta contro la costruzione dell’antagonismo concesso della narrativa americanista-occidentalista. L’ipotesi sarebbe ancora maggiore se l’Iran si prestasse al gioco, per l’Iran stesso e per la Siria, estraendo il paese dal purgatorio assegnatogli da questa narrativa del blocco BAO.
Non importa, per ora, il destino di questa proposta e la validità delle ipotesi. Rimane una lezione importante. Se il BRICS si muoverà con buone intenzioni per un’azione efficace nelle relazioni internazionali, sarà presto in una posizione di antagonismo con i modelli più importanti della narrativa BAO. Per ora, la questione dell’azione del gruppo BRICS rimane confinata alla proposta di risoluzione della Russia alle Nazioni Unite, riguardo la Siria, che è attualmente esaminata assieme all’altra proposta, del blocco BAO. Oltre alla Cina, altri paesi BRIC sostengono pienamente questa proposta, come hanno annunciato i russi il 29 agosto, 2011. (Va anche notato, forse con qualche ironia, che i francesi hanno fatto sapere che giudicavano che c’era una possibilità di sintesi delle due risoluzioni, che si sentivano assai vicini ai russi sulla questione siriana. Dopo l’avventura libica e in attesa della consegna della portaelicotteri Mistral alla Russia, la diplomazia francese mostra una grande capacità di flessibilità. I russi hanno definito “parziale” la risoluzione del blocco BAO, dove la Francia ha la sua parte.)

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

http://aurorasito.wordpress.com

La CIA si è trasformata in un’organizzazione paramilitare

0
0

In un’intervista rilasciata a Carta Maior, lo storico ed esperto politico, Luiz Alberto de Vianna Moniz Bandeira, segnala l’azione clandestina delle forze speciali degli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia nei conflitti della Libia e della Siria e critica la politica estera del governo di Barack Obama che fa uso dei diritti umani per giustificare interventi in qualsiasi parte del mondo. “La CIA sta diventando sempre più una forza paramilitare con l’abbandono del suo ruolo di agenzia di spionaggio e raccolta dati. I droni, aerei privi di equipaggio, teleguidati dalla CIA, hanno già ucciso, dal 2001, più di 2.000 presunti militanti e civili in vari paesi”, afferma Moniz Bandeira.

Carta Maior: Qual è la sua valutazione per quanto concerne la partecipazione delle grandi potenze occidentali, in particolare, gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia nei conflitti della Libia e della Siria. Esiste una medesima logica che agisce in entrambi i casi?

Moniz Bandeira – Non si tratta di teoria cospirativa. Ma si ha l’impressione che ci sia una logica nella successione delle insurrezioni che, iniziate in Tunisia nel dicembre 2010, successivamente e simultaneamente si sono estese in Egitto e in Siria, il 25 e il 26 gennaio 2011 e, infine, in Libia, il 17 febbraio. Le condizioni economiche, sociali e politiche erano mature. In tutti questi paesi c’è un enorme tasso di disoccupazione che colpisce una grossa fetta della popolazione giovanile, estrema povertà, inflazione, prezzi in rialzo nel settore degli alimenti e il risentimento politico provocato dalla repressione delle dittature.

È ormai confermato che militari delle forze speciali degli Stati uniti, dell’Inghilterra e della Francia, vestiti da arabi, i false-flaggers, cioè un “illegal-team”, con identità di altri paesi, di modo che non possano essere identificati come inglesi, americani o francesi, stanno operando allo scoperto in Libia e non si può scartare la possibilità che agenti della CIA e del M16 si trovino anche in Siria. È poco probabile che le manifestazioni di protesta, iniziate il 26 gennaio, continuino ancora ad affrontare quotidianamente una dura repressione, dopo otto mesi, senza avere prima ricevuti incoraggiamenti e qualche appoggio da parte della Santa Alleanza – Stati Uniti, Inghilterra e Francia. WikiLeak alcuni mesi fa ha rivelato una comunicazione segreta da parte dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Damasco su “Next Steps For A Human Rights Strategy”, informando che, dal 2005 fino a settembre 2010, gli Stati Uniti, con le risorse del Middle East Partnership Initiative (MEPI), hanno erogato segretamente ai gruppi dell’opposizione in Siria la quantità de US$ 12 milioni, così come hanno finanziato l’installazione di un canale satellitare che trasmette all’interno del paese programmi contro il regime di Bashar al-Assad.

Carta Maior: Oltre a questi incoraggiamenti stranieri, quali altri fattori starebbero contribuendo ad alimentare le proteste in Siria?

Moniz Bandeira – Esistono forti fattori religiosi. La maggioranza della popolazione in Siria è salafista, una delle correnti fondamentaliste dell’Islam che pretende di ristabilire i primitivi principi religiosi del Corano. È simile al wahabismo, dottrina difesa da Muhammad ibn Abd-al-Wahhab, e prevalente in Arabia Saudita. Bashar al-Assad, tuttavia, è un alauita, un altro segmento dell’Islam, che cela la sua dottrina con la taqiyya, una pratica sciita, setta islamica dominante nell’Iran e verso la quale è più vicina. Gli alauiti costituiscono solo il 10% della popolazione siriana, ma dominano e controllano tutta la struttura dello Stato da ormai alcuni decenni, almeno sin dagli anni settanta, quando Hafez al-Assad, del partito Ba’ath, si fece carico della presidenza della Siria.

Il partito Ba’ath, fondato a Damasco nel 1946, combinava ideali egualitari, socializzanti, interessi nazionalisti e obiettivi panarabi, contrari alla politica imperialista delle potenze occidentali. Alcune delle sue diramazioni spuntarono in altri paesi del Medio Oriente, come in Iraq, dove mantenne il potere fino alla caduta di Sadam Hussein, nel 2003.

Carta Maior: Siria possiede poco petrolio. Quale o quali sono gli interessi degli Stati Uniti, della Francia e dell’Inghilterra nell’abbattimento del regime di Bashar al-Assad?

Moniz Bandeira – Questi paesi hanno degli interessi strategici come, ad esempio, l’assunzione del controllo di tutto il Mediterraneo e isolare politicamente l’Iran che è alleato con la Siria, così come ridurre l’influenza della Russia e della Cina nel Medio Oriente. La Russia, dal 1971, opera nel porto di Tartus, in Siria, e progetta di ristrutturarlo e ampliarlo come base navale nel 2012, di modo che possa accogliere grandi navi da guerra, garantendo in questo modo la sua presenza nel Mediterraneo. Il fatto è che anche la Russia programma d’installare basi navali nella Libia e nello Yemen. E, secondo da quanto si può dedurre dal telegramma dell’Ambasciata degli USA a Damasco, pubblicato da WikiLeaks, tutto segnala che il finanziamento all’opposizione siriana sin da almeno il 2005, puntava alla caduta del regime di Bashar al-Assad, in modo da impedire un maggiore approfondimento, in ambito navale, dei suoi rapporti con la Russia.

È dovuto a questo che gli Stati Uniti difficilmente riusciranno ad allargare in Siria la stessa strategia che ha sottoposto alla Libia, insieme con la Gran Bretagna e la Francia. La Russia è ancora percepita dagli Stati Uniti come la sua grande rivale e la Cina si oppone alle sanzioni del regime di Bashar al-Saad.

Carta Maior: In questo contesto, come può essere intesa la dottrina del presidente Barack Obama per quanto concerne la politica estera degli USA?

Moniz Bandeira – Nel discorso pronunciato nella George Washington University il 28 marzo 2011, il presidente Obama dichiarò che, anche se la sicurezza degli americani non è direttamente minacciata, l’azione militare può essere giustificata – in caso di genocidio, ad esempio- e gli Stati Uniti possono intervenire, ma non agiranno isolatamente. La sua dottrina è questa, egli specificò chiaramente nel discorso pronunciato al Parlamento britannico, durante la visita di Stato che fece nel Regno Unito tra il 24 e il 16 maggio 2011. Il presidente Obama disse che “we do these things because we believe not simply in the rights of nations; we believe in the rights of citizens”. E più avanti dichiarò che non ha alcun peso l’argomento secondo il quale “a nation’s sovereignty is more important than the slaughter of civilians within its borders” e riconfermò che “noi” pensiamo in modo diverso, accettiamo una responsabilità maggiore, per esempio, che la comunità internazionale deve intervenire quando un leader sta minacciando di massacrare il suo popolo.

Queste parole significano che gli Stati Uniti, congiuntamente con la Gran Bretagna e la Francia non rispetteranno più le norme del Diritto Internazionale stabilite dal Trattato di Westphalia, fondato sulla base dei principi di sovranità nazionale e potranno intervenire in qualsiasi paese con il pretesto di ragioni umanitarie o per la difesa della popolazione civile, ma che in realtà sarà per la difesa dei propri interessi economici e strategici. Così, i capi di governo degli Stati Uniti, della gran Bretagna e della Francia, se lo desiderassero, potrebbero addurre la difesa della popolazione indigena o del medio ambiente e invadere l’Amazzonia.

La questione dei diritti umani e la difesa delle popolazioni civili è diventata una panacea utile affinché gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna possano violare i diritti umani con rigorosi embarghi commerciali, e massacrare popolazioni civili, come hanno fatto in Libia. Quello che il presidente Obama pretende anche, continuando con altri mezzi la politica del presidente George W. Bush, è trasformare il concetto della NATO, contraddicendo il proprio trattato che l’ha prodotto, conferendogli capacità di polizia globale (global cop) per fronteggiare le “nuove minacce”, come “terrorism and piracy, cyber attacks and ballistic missiles”.

Ciò significa che la NATO smetterà di essere un’organizzazione per la difesa dell’Europa occidentale, scopo della sua creazione durante la Guerra Fredda, e diventerà uno strumento di aggressione, pronto a intervenire in tutti i continenti, con o senza autorizzazione dell’ONU. Le sanzioni contro la Siria sono identiche a quelle applicate contro la Libia, subito dopo la ribellione. È il primo approccio per intervenire nel conflitto interno di un qualsiasi paese, il cui governo non conviene alla Santa Alleanza, che reprime le manifestazioni per abbatterlo. Ma, con ogni evidenza, le manifestazioni popolari contro le dittature nell’Arabia Saudita, Bahrein e Giordania, clienti degli Stati Uniti, non potranno ricevere un aiuto qualsiasi.

Carta Maior: Nello specifico, quale sarebbe questa strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale e quali forze speciali starebbero agendo in Libia e, probabilmente, anche in Siria?

Moniz Bandeira – L’attuale strategia degli Stati Uniti, resa operativa dal presidente Obama, il quale si è meritato il premio Nobel delle Pace, è quella di allargare l’impiego dei droni, aerei armati e guidati elettronicamente dalla CIA, per ammazzare presunti terroristi, militanti di al-Qa’ida e talebani, comprese centinaia di civili inermi, come sta facendo in Libia, Afganistan, Pakistan e lo Yemen. Questo è il nuovo compito della CIA che sta diventando sempre di più in una forza paramilitare, abbandonando il ruolo di agenzia di spionaggio e di raccolta informazione. I droni (General Atomics MQ-1 Predator) aerei senza piloti, telecomandati dalla CIA, hanno già ucciso sin dal 2001 più di 2.000 presunti militari e civili e il Centro Antiterrorismo (CTC) attualmente dispone circa 2.000 impiegati che lavorano nell’individuazione dei bersagli per poi attaccarli.

Il presidente Obama ha incrementato queste operazioni senza mettere in rischio la vita dei soldati, così come l’introduzione di un’altra organizzazione militare che, dal 2001, ha ucciso e interrogato più presunti terroristi e talebani che non la CIA. Si tratta della Joint Special Operations Command (JSOC), la quale è subordinata all’U.S. Navy SEAL’s (Sea, Air and Land Teams), che forma parte del Comando di Operazioni Speciali (USSOCOM), unità incaricata di operazioni terrestri e marittime, guerra non convenzionale, riscatto, terrorismo, antiterrorismo, ecc. un comando della SEAl ha ricevuto la missione di assassinare Osama Bin Laden in Pakistan, il 2 maggio 2011. Questo è il compito per il quale la Joint Special Operations Command (JSOC) è incaricata, mettendo in atto il programma sviluppato dal generale David Petraeus, attuale direttore della CIA, quando comandava le truppe americane in Afganistan.

Il programma consiste in “kill/capture”, cioè, ammazzare/catturare in qualunque regione del mondo, terroristi, talebani, che si fonda in una Prioritized Effects List (JPEL) la quale include persino cittadini americani, che fondamento legale o extra legale, secondo la direttrice di classificazione data dal presidente Obama. Il tenente colonnello John Nagl, consulente di contro insorgenza del generale David Petraeus in Afganistan, considera che l’JSOC sia una macchina per uccidere, su scala quasi industriale, pensata contro il terrorismo (“an almost industrial-scale counterterrorism killing machine”). In realtà, si tratta di un comando di squadroni della morte del Pentagono.

Comandi del SEAL’s hanno operato in Libia, così come quelli della Direction générale de la sécurité extérieure (DGSE), della Brigade des forces spéciales terre (BFST), subordinata a Commandement des opérations spéciales (COS), M16 (Inteligence Service) e Special Air Service SAS (Special Air Service) come se fossero arabi, i cosiddetti “ribelli” non avrebbero avanzato di molto oltre Benghazi. Il 20 agosto, giorno in cui si è concluso il digiuno imposto dal Ramadan, una nave della NATO sbarcò nel litorale della Libia con armi pesanti, vecchi jihadisti e truppe speciali dell’JSOC, degli Stati Uniti, BFST, della Francia e SAS, del Regno Unito, sotto il comando degli ufficiali della NATO, che hanno proceduto alla conquista di Tripoli.

Il bilancio dell’Operation Odissey Dawn, dopo 100 bombardamenti da parte della NATO, è tragico: 6.121 civili morti e feriti. Secondo le statistiche 3.093 sono stati ammazzati o feriti; 260 donne uccise e 1.318 ferite; 141 bambini morti e 641 feriti. La NATO, a sua volta, informa che nei primi 90 giorni ha eseguito un totale di 13.184 uscite, tra le quali 4.693 attacchi, danneggiando o distruggendo più di 2.500 bersagli militari, circa 460 installazioni militari, 300 sistemi di radar, oltre approssimativamente 170 posti di controllo e comando, e circa 450 carri armati. Il rapporto non si riferisce alle macerie che i bombardamenti hanno lasciato né alle migliaia di vittime civili, morti, feriti, senza tetto e rifugiati.

Questo è stato l’esito della Risoluzione 1.973 del Consiglio di Sicurezza Nazionale, che autorizza la Santa Alleanza (Stati Uniti, Inghilterra e Francia) proteggere i civili in Libia e che è stata sfruttata per legittimare il diritto d’intervento umanitario per difendere i propri interessi economici, geopolitici e strategici nel mediterraneo. Questo è il modo americano di fare la guerra (American Way of War), adottato dal presidente Obama. Ma gli obiettivi sono identici a quelli di George W. Bush nell’assecondare gli interessi del complesso industriale – militare. Senza intervenire unilateralmente, lui desidera attuarli, trasformandoli con la NATO, in modo da dividere i costi con i suoi membri, principalmente l’Inghilterra, la Francia e la Germania, con lo scopo di evitare che la guerra si percepisca come una faccenda tra gli Stati Uniti e la Libia o qualsiasi altro paese.

Carta Maior: Quale deve essere il futuro della Libia? Lei crede che Gheddafi possa resistere e restare come un influente agente politico nel conflitto?

È difficile da prevedere. La Libia è ancora un paese diviso in tribù e la lealtà è essenziale tra i suoi membri. In ogni caso, vivo o morto, lo spettro di Gheddafi, come comandante o mito, formerà parte della resistenza che alla fine si organizzerà, perché le tribù non accetteranno la presenza di truppe straniere nel loro territorio. Tuttavia, una delle conseguenze dell’”intervento umanitario” in Libia sarà probabilmente la proliferazione di armi nucleari introdotte dalle importazioni clandestine di uranio naturale, centrifughe e strumenti di trasformazione, così come la costruzione d’installazioni di piccola scala. Se lui avesse sviluppato il suo programma di armi nucleari, la campagna di bombardamenti della NATO sarebbe avvenuta? – domandò Leonam dos Santos Guimarães. La risposta sarebbe certamente no. Il diritto internazionale si rispetta solo quando esiste un certo equilibrio di potere e le nazioni minacciate hanno la possibilità di compiere una rappresaglia. È per questa ragione che è quasi impossibile impedire a Iran di sviluppare le sue armi nucleari, non perché debba attaccare Israele, ma per difendersi dalla Santa Alleanza occidentale.

Carta Maior: Per quanto concerne la Siria, quale è la sua valutazione sulla posizione delle altre nazioni arabe ed’Israele di fronte a questo conflitto?

Moniz Bandeira – Non ci sono informazioni sul coinvolgimento di altre nazioni arabe né d’Israele in Siria, dove per il momento non c’è una vera e propria guerra civile, ma un’ondata di proteste. Tutti stanno vedendo gli sviluppi della crisi. Anche la Siria è un paese diviso in molte tribù e il governo conta con l’appoggio d’Iran che, con ogni probabilità, gli fornisce o gli può fornire armi. Sono molto stretti i suoi collegamenti con gli Hezbollah, una forza politica e paramilitare sciita con sede in Libano. Corre voce che gli Hezbollah dispongono dai 30.000 ai 40.000 missili puntati su Israele e difficili da localizzare, perché sono installati in abitazioni familiari. Questa è una delle ragioni – e ci sono altre – per la quale né gli altri paesi arabi né Israele vogliono vedersi coinvolti nelle proteste che stanno avvenendo in Siria.

Carta Maior: I tamburi di guerra stanno suonando in Israele, di fronte alla prospettiva di riconoscimento, a settembre, dello Stato palestinese all’ONU. Esiste, secondo il suo criterio, la possibilità di una generalizzazione dei conflitti in Medio Oriente?

Moniz Bandeira – È previsto che Mahmoud Ridha Abbas (Abu Mazen), in quanto presidente dell’Autorità Palestinese, pronuncerà un discorso nella 66a Assemblea generale dell’ONU che si svolgerà tra il 21 e il 27 settembre prossimo, con il quale solleciterà il riconoscimento dello Stato palestinese. L’ammissione di un nuovo membro richiede l’appoggio dei 2/3 degli Stati presenti nell’Assemblea generale. Se dovesse ottenere questo quorum l’Autorità Palestinese, in quanto Stato, sarà ammessa solo nella condizione di osservatore, giacché il riconoscimento come membro a tutti gli effetti dipende dall’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e, di conseguenza, dal voto degli Stati Uniti.

C’è una grande attesa in Israele, riguardo alla posizione che adotterà gli Stati Uniti nell’Assemblea Generale, giacché il 5 settembre ha reso pubblico alla stampa l’informazione che l’ex segretario della Difesa del presidente Barack Obama, Robert Gates, prima di andare in pensione quest’anno, ha criticato duramente il primo ministro d’Israele, Benjamin Netaniahu, nella riunione del National Security Council Principals Committee degli Stati Uniti. Gates qualificò Israele di “an ungrateful ally” (alleato ingrato) e ha affermato che la politica di Netanihau mette il suo paese in pericolo quando sostiene di rifiutare i negoziati, di fronte a un crescente isolamento e alla sfida demografica, se continua a controllare la Striscia di Gaza. Si pensa che la notizia sia stata divulgata con il beneplacito di Obama, come avvertenza a Netanihau.

Quello di cui si ha paura a Tel Aviv è che milioni di palestinesi esiliati negli altri paesi arabi, si dirigano verso le frontiere d’Israele e avanzino sul suo territorio se l’Assemblea generale dell’ONU riconoscerà lo Stato palestinese, anche se come osservatore. I palestinesi esiliati non hanno altra nazionalità perché; nei ’50, la Lega Araba decise di non concedergliela con lo scopo di conservare nell’agenda la necessità di crear lo Stato palestinese.

*Luiz Alberto de Vianna Moniz Bandeira, professore di Politica estera del Brasile (Universidade de Brasilia), ha tenuto lezioni in numerose università di tutto il mondo. Nel 2005 è stato nominato intellettuale brasiliano dell’anno dall’União Brasileira do Escritores. È console onorario a Heidelberg, decorato con la Bundesverdienst Kreuz dalla Repubblica Federale di Germania. È membro del Comiato scientifico di Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici.

(trad. di V. Paglione)

La Siria nel mirino della NATO

0
0

La Siria nel mirino della NATO: una testimonianza di Gilles Munnier (diario di viaggio Damasco-Hama)
Damasco, 20-21 Agosto 2011

La Siria ha deciso finalmente di esprimersi pubblicamente in merito ai gravi fatti di sangue che hanno sconvolto il paese, a partire dalle prime manifestazioni antigovernative di Deraa (vicino al confine giordano). Pertanto, ho accettato l’invito di un’associazione formata da un gruppo di imprenditori (fra i quali Anas al-Jazaïri, pronipote dell’Emiro Abd el-Kàder) che si propone di appurare in loco l’evolversi della situazione. Ha preso parte al viaggio un centinaio di persone, giornalisti e varie personalità, fra le quali un ambasciatore degli Stati Uniti in pensione e un ex ministro della giustizia turco. Diciamo subìto che costoro, che conoscono Damasco, non hanno riscontrato nella città i cambiamenti e le tensioni riportate ordinariamente dai media. Gli schieramenti di forze militari e di polizia di cui riferisce Al-Jazeera non esistono, se non nei comunicati degli esponenti d’opposizione residenti all’estero.

Sarkozy, uno dei peggiori nemici della Siria

I disordini che stanno sconvolgendo la Siria sono sicuramente oggetto di animate discussioni presso la popolazione. I siriani vogliono sapere cosa pensano i francesi al riguardo e perché Nicolas Sarkozy , che aveva invitato non molto tempo fa Assad a Parigi, è diventato uno dei peggiori nemici della Siria. Il ritardo accumulato dal presidente Assad – nel portare avanti le riforme per il paese – è imputato alle “vecchie barbe” del partito Baath e perciò la cosa non intacca troppo la fiducia verso lo stesso presidente. Tutto si gioca sull’applicazione effettiva delle leggi di democratizzazione annunciate; tuttavia, saranno queste sufficienti a neutralizzare le forze eversive che chiedono il rovescio del regime? Quanto ancora andranno avanti gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, la Francia, Israele, la Turchia ed il Qatar con le loro trame destabilizzatrici? La Russia – verso la quale alcuni striscioni a Damasco esprimevano gratitudine – potrebbe avere un ruolo tutt’altro che secondario per sabotare l’arma dell’embargo occidentale da cui la Siria è minacciata.

Hama, 22 Agosto – Partenza in pullman per Hama, situata a circa 200 km da Damasco. Città conservatrice e recalcitrante verso il potere centrale come il Nahar al-Assi (nome arabo dell’Oronte, il “fiume ribelle” che attraversa la città) lo è nei confronti della natura [l’Oronte è l`unico fiume che scorre in senso opposto rispetto agli altri della regione, ndt]. Sin dalle prime manifestazioni di Deraa, è tornato alla memoria il ricordo della sollevazione di Hama del Febbraio 1982, repressa da Rifaat al-Assad, fratello dell’allora presidente Hafez al-Assad; secondo le stime effettuate, la repressione avrebbe fatto fra i 10.000 e i 20.000 morti. Per taluni osservatori della “Primavera araba”, la questione centrale non era tanto sapere come si sarebbe evoluta la situazione a Deraa, bensì ciò che sarebbe potuto accadere se Hama si fosse nuovamente ribellata.

“Che il regime lasci il potere, che l’ONU intervenga e che giunga la NATO…”

Da allora Hama ha avuto il suo numero di rivolte, saccheggi e morti. Il governatore della città ha tentato di rispondere alla crisi con la negoziazione. Non essendo riuscito ad ottenere risultati concreti, è stato sostituito e il suo successore ha ripreso il controllo della città manu militari. Questi ci riceve presso la prefettura e ci mostra un video girato per le strade e gli edifici della città al termine delle rivolta: una visione apocalittica.

La tappa successiva del nostro programma prevede la visita del palazzo di Giustizia incendiato e di un commissariato attaccato da ‘terroristi’. L’autobus ci attende ma giunti fuori restiamo sorpresi nel trovarci davanti degli oppositori: una quarantina di giovani, non sappiamo da chi radunati, urlano slogan anti-regime. All’incrocio, i militari di guardia, appostati dietro sacchi di sabbia o posizionati sui tetti, restano immobili; un poliziotto in borghese tenta di fermare un manifestante intervistato da una rete televisiva, i compagni dell’intervistato giungono in suo aiuto ma l’agente fugge, inseguito da pochi irriducibili. Vicino a me una giornalista della televisione indiana domanda ad una ragazza in hijab, di circa 17 anni, quali siano le sue rivendicazioni. La ragazza recita in un inglese approssimativo: “Che il regime lasci il potere, che l’ONU intervenga e che giunga la NATO!”. E’ un peccato che la giornalista non abbia chiesto alla ragazza se non reputasse rischioso parlare a viso scoperto ed anche che cosa ritenesse fosse la NATO. Forse un’organizzazione umanitaria…

Teste piantate su lame

Le mura del commissariato attaccate dagli oppositori sono annerite a causa di un incendio, provocato da una bombola di gas trasformata in esplosivo. La facciata è crivellata di colpi d’arma da fuoco di grosso calibro e veicoli carbonizzati ostruiscono il piazzale. Secondo testimonianze di giovani del quartiere, i diciassette poliziotti intrappolati dalle fiamme si sono arresi e degli assalitori “venuti da fuori” li hanno sgozzati e decapitati. Le loro teste sono state piantate su lame e i loro corpi gettati nell’Oronte. La scena orribile, filmata da alcuni complici, è stata inserita su YouTube, certamente per minacciare i funzionari dei servizi di sicurezza che faranno la stessa fine, se non si dimetteranno.

Sulla strada del ritorno, il direttore de L’Index, quotidiano di Constantine [citta algerina, ndt] riceve una chiamata dall’Algeria: un suo collega ha sentito su Al-Jazeera che degli oppositori siriani avevano appena sparato sugli autobus che trasportavano i giornalisti in procinto di lasciare Hama. La notizia è confortante: il canale televisivo arabo non è ancora arrivato a un totale travisamento dei fatti dacché è diventato la voce della Nato.

Da dove arrivano le armi?

Damasco, 20:30 – Fra qualche istante, il presidente Bashar al-Assad riceverà i giornalisti di un canale televisivo satellitare siriano, per rispondere alle domande che tutti si pongono: chi sono gli estremisti infiltrati alle manifestazioni? Chi li ha addestrati? Vero è che possedere un kalashnikov non è così insolito per le famiglie siriane, ma le armi e gli esplosivi utilizzati – o scoperti nei nascondigli – sono nuovi, in gran numero e di qualità. I sospetti conducono naturalmente verso il confine libanese, storicamente una frontiera porosa, ma in tal caso possiamo fare solo delle ipotesi: le armi potrebbero venire dall’Arabia Saudita tramite canali cosiddetti islamisti, controllati finanziariamente da Hariri; oppure da Israele mediante estremisti libanesi cristiani legati al Mossad; o ancora far parte di partite di armi consegnate dalla NATO ai servizi segreti turchi. Le tre possibilità non si escludono a vicenda e potrebbero tutte aver concorso, in diversa misura, all’afflusso di armi verso la Siria. Ciò che è certo, è che il regime baathista si trova a fronteggiare organizzazioni pesantemente armate e che nulla hanno a che fare con le legittime rivendicazioni del popolo siriano.

Damasco, 23 Agosto – Prima del nostro rientro nei rispettivi paesi, ci viene distribuito un testo tradotto di ampi stralci dell’intervista fatta ad Assad e diffusa in serata dalla televisione siriana. Per il presidente, la Siria è vittima di un complotto il cui obiettivo sarebbe il crollo del paese. La situazione sul fronte della sicurezza va migliorando e il presidente ritiene che la destabilizzazione in corso non costituisca un problema insormontabile. Gli attacchi alle postazioni di polizia, gli assassinii, gli agguati ad autobus civili o militari non lo preoccupano oltre misura. “Siamo in grado di affrontare questi problemi in maniera adeguata”. La priorità per lui, quindi, è di migliorare la sicurezza, posto che la soluzione definitiva dei problemi non concerne l’ordine pubblico, ma è anzitutto di tipo politico.
Bashar al-Assad menziona la riunione del comitato centrale del partito Baath del 17 Agosto scorso, nel corso della quale si è discussa l’attuazione dei meccanismi che possano permettere al partito di preservare la sua posizione per i prossimi decenni . Si è anche dibattuta la questione dell’articolo 8 della Costituzione siriana, che riconosce il Baath come partito dirigente; la sua abrogazione necessiterà di un’ampia revisione costituzionale, essendo diversi altri articoli legati a questo.

Elezioni legislative per il prossimo Febbraio?

Il presidente siriano enumera le riforme promulgate (cessazione dello stato d’emergenza, leggi per la costituzione di partiti politici, elezioni pluraliste) e annuncia quelle che seguiranno: legge sull’informazione, creazione di una commissione di revisione costituzionale (la quale avrà dai tre ai sei mesi di tempo per elaborare il programma di riforme), elezioni dell’assemblea popolare nel Febbraio prossimo, di modo da permettere ai partiti di nuova costituzione di fare campagna elettorale. Assad è preoccupato della marginalizzazione delle nuove generazioni; si tratta per lui di un fenomeno molto pericoloso e ritiene invece che i giovani debbano invece giocare un ruolo crescente nella società. Riguardo alla legge sull’informazione, Bashar al-Assad critica le carenze della stampa ufficiale; si dichiara favorevole alla libertà d’espressione ma contrario alla diffusione della stampa in stile tabloid.

Rispondendo ad una domanda sul decreto che concede la nazionalità siriana ai curdi – i quali ne erano ancora privi – Bashar al-Assad ha fatto presente che il testo normativo era pronto già dal 2004, ma l’entrata in vigore era stata rimandata a causa dei disordini allora insorti nelle regioni di al-Assakeh e Qamishli. I curdi – ricorda ancora il presidente – sono una delle componenti della Siria: hanno lottato contro l’occupante francese impegnandosi ai più alti livelli.
Bashar al-Assad è ben cosciente che il primo ciclo di riforme non soddisferà gli occidentali.

Il popolo siriano non riceve ordini dall’estero

Ogni qualvolta l’Occidente parla di “diritti umani”, lo fa per ottenere obiettivi che nulla hanno a che vedere con i primi. I paesi occidentali, afferma Bashar al-Assad, “sono responsabili di massacri perpetrati attualmente dall’Afghanistan all’Iraq, passando per la Libia… milioni di martiri, vittime, mutilati, feriti, vedove, orfani, senza parlare del loro sostegno a Israele, che perpetra i suoi crimini contro palestinesi ed arabi”. Il loro scopo, afferma, non è quello di permettere alla Siria di svilupparsi, ma di condurla a rinunciare ai suoi diritti. Il presidente non darà le dimissioni, come chiedono Obama e Sarkozy: lui non è un presidente ‘fabbricato’ negli Stati Uniti e il popolo siriano non riceve ordini dall’estero.

Bashar al-Assad definisce la relazione della Siria con i paesi occidentali come “perennemente conflittuale”. “In tempi sereni – afferma – essi mantengono un atteggiamento cordiale per ingannarci, adesso ci minacciano; cambia solo la forma. (…) Non bisogna temere né il Consiglio di sicurezza, né la guerra psicologica” e continua affermando che dopo la caduta di Baghdad, un funzionario americano era giunto presso di lui per dargli direttive su cosa dovesse fare e – avendo Assad rifiutato di assecondare tali pretese – gli Stati Uniti inviarono al presidente siriano una cartina militare che segnalava gli obiettivi che sarebbero stati bombardati in territorio siriano.

“Noi non ci piegheremo”

Nel 2005, dopo l’assassinio di Rafiq Hariri gli occidentali usarono il Consiglio di sicurezza per attentare alla sovranità della Siria, con il pretesto della necessità un’inchiesta. I paesi occidentali erano allora nel loro apogeo ma, dice il presidente al riguardo: “noi non ci siamo mai piegati. Oggi [i paesi occidentali] sono più deboli di sei anni fa, attraversati da crisi militari, economiche, politiche e sociali. Perché piegarci?… Noi non ci piegheremo!”.

Assad afferma che di fronte all’embargo esistono alternative su quasi tutti i settori a rischio, grazie al sostegno di paesi vicini o amici. La Siria ha esperienza di misure restrittive e dal 2005 si è rivolta ai paesi dell’Est. “L’essenziale è non farsi prendere dal panico (…). La Siria è autosufficiente sul piano alimentare e in passato ha superato molte crisi analoghe , uscendone rafforzata”.

Parigi, 25 Agosto – Sostenuti dagli elicotteri NATO, i combattenti del Consiglio nazionale di transizione libico (CNT) sono entrati a Tripoli preceduti da forze speciali francesi, dai jihadisti del Gruppo islamico dei combattenti libici e da al-Qaeda. Secondo Natalie Nougayrède, della testata Le Monde, Nicolas Sarkozy descrive la sua campagna di Libia come il punto di svolta verso una nuova diplomazia. Il ‘regime siriano’ è nel suo mirino ed è una questione sulla quale, ha dichiarato, lo stesso affaire libico “avrà delle conseguenze” anche se “non vi è intenzione di fare interventi militari in ogni occasione (…). Bisogna agire nel rispetto della legalità internazionale, che solo l’ONU può garantire”. Detto in altre parole: le sanzioni e le operazioni clandestine dei nemici della Siria sono appena cominciate.

* Gilles Munier, segretario generale dell’associazione Amitiés Franco-Irakiennes è autore di diversi libri sul Vicino e medio Oriente.

Traduzione a cura di Giacomo Guarini


La guerra fredda è davvero finita per gli Stati Uniti?

0
0

Proprio alcuni giorni fa è ricorso il 10° anniversario dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Tuttavia nel corso di questi 10 anni la politica estera degli Stati Uniti non sembra essere mutata di molto rispetto agli anni ’60, quando le teorie della modernizzazione di stampo rostowiano venivano orgogliosamente applicate alla politca estera statunitese. Oggi la USAID ovvero U.S. Agency for International Development sembra continuare ad essere la longa manus de cosiddettol ‘imperialismo civilizzatore’ di qualche decennio fa.

 

Il lupo perde il pelo…

La USAID nasce nel 1961 durante l’amministrazione Kennedy, sulla scia delle teorie rostowiane per la promozione dello sviluppo nei Paesi del Terzo Mondo. Emblema di tali teorie fu l’Alleanza per il Progresso. In parte ispirata dal successo del precedente Piano Marshall, l’Alleanza per il Progresso aveva l’obiettivo di promuovere una ‘sana’ modernizzazione nei Paesi dell’America Latina e rispondere, inoltre, all’esigenza di contrastare la diffusione dei regimi comunisti in un’area strategicamente importante per gli Usa. La rivoluzione castrista del 1959 e la conseguente caduta del regime di Fulgencio Batista ponevano una seria minaccia proprio alle porte degli Stati Uniti. E’ interessante notare come in quegli anni il regime di Castro sia stato il bersaglio di numerose iniziative di intelligence statunitenese volte al rovesciamento del regime. La ben nota crisi dei missili cubani del 1962 fu appunto la risultante di questo tipo di politica.

ma non il vizio

Oggi il programma della USAID a Cuba ha come obiettivi primari quello della promozione della democrazia e dei diritti umani, il rafforzamento della società civile, l’introduzione di tecnologie informatiche e la formazione di giornalisti ‘indipendenti’ in grado di scrivere articoli sulle difficili realtà dell’isola. Ma il 2011 è stato un anno particolarmente critico per gli Stati Uniti. La crisi economica, infatti, ha comportato diversi tagli alla spesa pubblica e in seguito ad una minore disponibilità di mezzi gli USA stanno cercando di ripensare e riadattare la propria leadership.

Le polemiche in effetti non sono mancate riguardo la richiesta di Obama di altri 20 milioni per finanziare la USAID e i suoi programmi anti-Cuba. E’ stato proprio il senatore John Carry, a capo della Commissione per le Relazioni estere del Senato a dichiarare, una volta per tutte, come tali fondi andassero a finanziare azioni contro il governo cubano, nonché programmi di intelligence. Parte della critica si è incentrata anche sull’uso di codici segreti e pseudonimi, sottolineando inoltre come non ci sia alcuna evidenza sul reale beneficio che tali iniziative comportino. La decisione di Kerry di sospendere questi fondi ha provocato dure critiche da parte senatore Bob Mènendez, noto per i suoi legami con la mafia cubano-americana. La decisione di Carry evidenzia, infatti, una tendenza della politica nordamericana a evitare i rischi di un overcommitment. La sua pretesa in quanto membro del Congresso, di ricercare una sorta di pragmatismo in questo tipo di politiche sembra voler indirizzare la politica statunitense verso una nuova attitudine, svincolata da vecchie logiche strettamente legate al concetto bipolare. L’arresto del contractor Allan P. Gross nel 2009 per aver introdotto illegalmente materiale e mezzi di comunicazione richiama subito alla mente gli eventi della Baia dei Porci. Quando gli Stati Uniti interferirono, allora come oggi, negli affari interni di un altro stato.

 

Residui di Guerra Fredda

Nel 1990 Alexeij Arbatov (consigliere di Gorbaciov) dichiarò agli Stati Uniti: “Vi infliggeremo il colpo più tremendo; vi priveremo del nemico”. Alla luce dei fatti, oggi, questa affermazione risulta particolarmente significativa. In seguito alla fine della Guerra Fredda e alla nascita di un nuovo sistema unipolare, gli Stati Uniti sono andati costantemente alla ricerca di una Grand Strategy e di un nemico attraverso i quali autolegittimare la propria esistenza e i propri valori. Basti pensare alla USAID o più semplicemente alla politica di Bush focalizzata sugli Stati canaglia. Perciò, nonostante la Guerra Fredda sia ufficialmente terminata con il crollo dell’Unione Sovietica, ufficiosamente essa continua da parte degli Stati Uniti tuttora con le stesse logiche di alcuni decenni fa, ma nei confronti di Cuba. L’unica differenza rispetto al passato risulta essere l’indiscusso squilibrio di potenza tra le parti.

Inoltre è importante evidenziare come con l’acuirsi della crisi economica e delle difficoltà interne, i progetti della USAID su Cuba siano il simbolo di una sempre maggiore incompatibilità tra la politica estera nordamericana e il consenso delle parti politiche interne. Infatti, stando alle teorie di Barry Posen, il gap di potenza tra gli Stati Uniti e il resto del mondo non ha precedenti nella storia, ma tuttavia è necessario sottolineare come la leadership nordamericana presenti comunque tutte le contraddizioni e le asimmetrie di un’egemonia affermatasi attraverso l’interdipendenza. La spendibilità quindi dell’hard power risulta notevolmente ridotta rispetto al passato e quella del soft power richiede necessariamente una rivisitazione.

L’imperialismo civilizzatore intriso di giustificazioni legate alla morale e una visione messianica del ruolo del proprio Paese all’interno del sistema internazionale continuano ad essere i leitmotiv di un attivismo globale e di una volontà di potenza, ai quali gli USA dovranno rinunciare non senza difficoltà.

Mark Twain affermava : “History doesn’t repeat itself but it does rhyme”. Non resta, perciò, che aspettare che la storia ci presenti le sue “rime” attraverso le quali sarà possibile tirare le somme di questo unipolarismo non privo di contraddizioni.

 

*Fabrizia Di Lorenzo laureanda in Scienze internazionali e diplomatiche – Università di Bologna

 

Il significato geopolitico di Bushehr: D. Scalea al “Secolo d’Italia”

0
0

Fonte: “Il Secolo d’Italia“, 13.09.11 (titolo di “Eurasia”)

 

Dopo 36 anni di tentativi falliti, allarmi e minacce, ieri, a Bushehr, l’Iran ha inaugurato la sua prima centrale nucleare. La reazione nella comunità internazionale è stata minima: nulla di paragonabile al clamore che ha accompagnato il programma atomico della Repubblica islamica negli anni e, in particolare, da quando al potere c’è Ahmadinejad.
Vi sarebbero precise ragioni geopolitiche, che si riassumono nel tentativo di allentare le tensioni con Teheran. Si tratterebbe di un’azione combinata e sottotraccia che coinvolge principalmente Usa e Russia. A spiegarlo è il segretario scientifico dell’Isag, l’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, Daniele Scalea. In quest’ottica, dunque, la presenza all’inaugurazione del ministro dell’Energia russo, Sergei Shmatko, e del capo dell’agenzia atomica russa, Sergei Kiriyenko, non era legata al solo fatto che sono loro a fornire le materie prime. «Da parte della Russia – ricorda Scalea – negli ultimi anni c’era stata una chiusura quasi totale verso il programma atomico iraniano, ora l’apertura della centrale rappresenta un’improvvisa accelerazione». A questo va aggiunta la proposta di Mosca di creare una sorta di reciprocità tra iraniani e comunità internazionale: a ogni passo compiuto da Teheran potrebbe corrispondere un alleggerimento delle sanzioni. Un approccio decisamente più soft dell’aut aut attuale, per cui o l’Iran accetta il pacchetto completo o non se ne fa nulla. Scalea mette in guardia sulle difficoltà di capire i russi fino in fondo, ma spiega che un aiuto per leggere il loro atteggiamento viene da Washington: «La mia impressione è che gli Stati Uniti non abbiamo più intenzione di spingere troppo sull’Iran, hanno i loro problemi interni e Obama è propenso ad allentare le tensioni». Dunque, l’accelerazione dei russi sarebbe il frutto di una strategia condivisa con la comunità internazionale. Dialogando con Teheran, Mosca starebbe facendo quello che nessun altro può fare, ma che tutti auspicano. «E va ricordato – prosegue Scalea – che loro forniscono il combustibile nucleare e poi se lo riprendano, in modo che non possa essere utilizzato a fini militari». In questo quadro, però, «c’è sempre chi potrebbe far saltare il banco». «Israele come la prenderà?», domanda lo storico ed esperto di geopolitica, ricordando che «in questo momento tra Tel Aviv e gli Stati Uniti ci sono forti divergenze di opinione anche sulla primavera araba e sull’appoggio di Washington alle correnti islamiste». «Gli Stati Uniti – conclude Scalea – cercano di chiudere il dossier iraniano, ma Israele potrebbe essere tentata di riaprirlo e, in quest’ottica, va anche letto il monito di Sarkozy su un attacco preventivo all’Iran». 

La marcia su Fiume e la geopolitica italiana verso i Balcani dopo la Grande Guerra

0
0

La notte dell’11 settembre 1919, anniversario del blitz con cui fece clamorosamente irruzione nella baia di Buccari, Gabriele d’Annunzio, assieme ad un pugno di volontari e soldati che si sarebbe irrobustito strada facendo, partì dalla località giuliana di Ronchi alla volta di Fiume, città del dissolto impero austro-ungarico abitata in maggioranza da italiani, i quali nelle tumultuose giornate che segnarono la fine della monarchia asburgica nell’ottobre 1918 avevano plebiscitariamente chiesto l’annessione all’Italia.

La conseguente Conferenza della Pace aveva, però, eluso tale appello, a prescindere dal fatto che nel Patto di Londra stipulato nell’aprile 1915 il capoluogo del Carnaro non era preso in considerazione, poiché era ritenuto lo sbocco al mare di un ridimensionato impero asburgico, la cui scomparsa era all’epoca imprevedibile. Sottoscrivendo quel Patto, l’Italia aveva abbandonato la Triplice Alleanza, stipulata e successivamente rinnovata con Germania e Austria-Ungheria a partire dal 1882: il giro di valzer portò il regno sabaudo a fianco dell’Intesa nella misura in cui Francia, Inghilterra e, obtorto collo, la Russia, pur vessillifera della nascita di uno Stato unitario slavo imperniato sulla Serbia, riconoscevano sulla carta un ampio piano di rivendicazioni territoriali che doveva costituire la base per l’espansione commerciale ed imprenditoriale italiana verso i Balcani e l’Oriente. Trieste, importantissimo porto dell’Impero asburgico, la Dalmazia con tutto il suo entroterra (pur con una componente di popolazione italiana minoritaria), l’Albania, nonché Smirne e altri territori provenienti dal previsto smembramento dell’Impero Ottomano, dovevano dare lo slancio per quel Drang nach Ost cui i precedenti alleati si erano opposti, essendo già loro stessi ben radicati politicamente nei Balcani (Vienna) ed imprenditorialmente in Anatolia (Berlino).

Nonostante l’uscita di scena della Russia zarista, la casa regnante serba dei Karageorgevic trovò negli Stati Uniti d’America e nella Francia i nuovi paladini in seno alla Conferenza della Pace per l’attuazione del progetto panslavista incardinato su Belgrado: necessariamente le rivendicazioni delle componenti croata e slovena che sarebbero state coinvolte nel nuovo soggetto statale andavano a cozzare con le aspettative italiane in Venezia Giulia e Dalmazia. Mentre la grancassa della propaganda nazionalista ed interventista cominciava a far risuonare lo slogan della “vittoria mutilata” a proposito di una mancata annessione di Fiume, Salvemini coglieva il paradosso per cui si invocava per il capoluogo del Carnaro il diritto di nazionalità, ma lo si negava in Dalmazia, per poi rispolverare il Patto di Londra per quanto riguardava la Dalmazia, omettendo però la parte che assegnava ad altri Fiume. Come nelle “radiose giornate di maggio”, Gabriele d’Annunzio fu uno dei protagonisti di questa fase propagandistica, tanto da venire avvicinato da elementi provenienti dai ranghi militari nonché dalla borghesia italiana di Fiume per prendere il comando di un colpo di mano che avrebbe portato all’annessione all’Italia della città, allora presidiata da un contingente interalleato in attesa che se ne definissero le sorti.

Si celavano tuttavia pure altri interessi dietro a questa facciata di retorica nazionalista che dipingeva l’insubordinazione dei reparti militari che avrebbero preso parte all’impresa come un episodio che si sarebbe collocato in continuum nella storia del processo unitario italiano con le imprese volontaristiche garibaldine, spesso avvenute in contrasto con le linee diplomatiche sabaude. Nella primavera di quel 1919, infatti, avevano circolato voci di un colpo di Stato militare che avrebbe coinvolto alti Generali, il Duca d’Aosta (comandante dell’Armata italiana che presidiava la Venezia Giulia in attesa della definizione del confine), Benito Mussolini (che da poco aveva fondato i Fasci di Combattimento) e Gabriele d’Annunzio, il quale si sarebbe tolto d’impaccio affermando il proverbiale “Ardisco, non ordisco”. Lasciando da parte la fondatezza delle notizie inerenti tale possibile golpe, è ben vero che l’Italia era uscita dalla Grande Guerra stremata, che il sacrificio di sangue tributato esigeva ora soddisfazione (le annessioni previste e le concessioni di terra prospettate ai contadini che erano stati arruolati) e che gli ampi poteri che la macchina militare aveva accentrato durante il conflitto erano ora difficili da abbandonare. In particolare in Trentino-Alto Adige, Venezia Giulia e Dalmazia le amministrazioni militari che si erano insediate continuavano a detenere di fatto il potere civile in attesa della sistemazione confinaria definitiva e non perdevano occasione per rimarcare la propria autorità nei confronti delle comunità allogene austriache, slovene e croate che si trovavano in numero non indifferente sotto la loro egida. In questi territori, oltre all’ideale risorgimentale di ricongiungere all’Italia anche le comunità italiane ivi residenti, molto forte era l’interesse strategico di giungere ad un confine militare sicuro, delineato dalla catena alpina (il Brennero in Alto Adige e le Alpi Giulie a est); era, invece, soprattutto la Marina a spingere per l’annessione del litorale dalmata al fine di rendere l’Adriatico un lago italiano, laddove l’Esercito si opponeva causa la difficoltà di presidiare quel territorio così impervio e frastagliato e con una componente croata e serba che avrebbe lottato continuamente per l’annessione al limitrofo Regno slavo.

Il complicato reinserimento dei reduci nella vita civile, inoltre, non riguardava solamente le migliaia di uomini di truppa, ma anche un cospicuo numero di ufficiali che non riusciva proprio a trovare una sua pacifica collocazione nelle strutture dello Stato liberale italiano. Soprattutto da questa componente giungevano spinte ad un’azione di forza che dimostrasse le irrequietezze che ribollivano all’interno del Regio Esercito e desse una spallata al governo Nitti tale da imprimere una svolta autoritaria alle sorti del Paese. Se l’opinione pubblica italiana aveva effettivamente preso a cuore la causa fiumana, nella città adriatica il sentimento di italianità era sicuramente ben radicato e nelle sparute comunità italiane di Dalmazia, dalle quali erano comunque partiti numerosi volontari che avevano combattuto nel Regio Esercito, soprattutto i più giovani, intrisi di ideali nazionalistici, auspicavano l’annessione a ogni costo, mentre la vecchia guardia del partito autonomista di matrice liberale rimaneva fedele alla linea diplomatica ed istituzionale che ne aveva caratterizzato da sempre la politica. Non mancavano neppure interessi da parte dell’imprenditoria triestina, la quale, vedendo oramai imminente l’annessione dello scalo giuliano all’Italia e dovendo quindi confrontarsi con una concorrenza portuale più ampia e robusta di quella cui era finora abituata, auspicava di mantenere in subordine rispetto alle proprie potenzialità almeno la vicina Fiume, una cui sorte in qualità di principale sbocco al mare del nascente stato slavo risultava inaccettabile. D’altro canto, coerentemente con quella che era linea politica di solidarietà nei confronti di Belgrado da parte del Presidente Woodrow Wilson, su Fiume porto del Regno dei Serbi, Sloveni e Croati scommettevano fortemente gruppi imprenditoriali statunitensi pronti ad avviare una linea marittima diretta.

In questa cornice d’Annunzio e i suoi presero possesso della città di Fiume la mattina del 12 settembre 1919, dichiarandone unilateralmente l’annessione all’Italia, trovando però in risposta l’imbarazzo della diplomazia sabauda e la sconfessione dell’operato da parte del Governo. L’entusiasmo che si era diffuso nel Regno a proposito dell’avventura era ampiamente compensato dai timori per una sedizione militare, cui davano adito le significative diserzioni a favore dell’iniziativa dannunziana da parte di soldati schierati in Istria e Friuli, per non parlare dell’aperta connivenza che le forze di Marina dislocate in Dalmazia dimostravano nei confronti di tale impresa, in primis il loro comandante, l’Ammiraglio Enrico Millo. Nitti indisse per novembre nuove elezioni, dalle quali, a scapito di nazionalisti, fascisti ed interventisti, uscirono rafforzati popolari e socialisti, vale a dire i maggiori oppositori degli exploit di d’Annunzio e dei suoi sostenitori, sicché il progetto golpista, che già nelle giornate successive alla trionfale entrata del poeta abruzzese a Fiume aveva mostrato di non avere abbastanza forza per attuarsi, poteva ritenersi completamente fallito.

L’annessione della città adriatica continuava ad essere fortemente osteggiata dalle Grandi Potenze, sicché si cercò di giungere ad un modus vivendi che, rispolverando le ampie autonomie di cui Fiume godeva in epoca asburgica (corpus sepratum facente capo direttamente a Budapest), garantisse l’esistenza di una Città Libera pur nell’orbita italiana. Dopo tre mesi in cui la città era rimasta sostanzialmente isolata, la popolazione fiumana era pronta ad accettare tale soluzione, ma un colpo di mano da parte degli elementi più scatenati dell’entourage dannunziano rovesciò gli esiti del plebiscito che avrebbe dovuto ratificare l’accordo ed il Vate, che era stato investito dei pieni poteri militari fin dal suo ingresso nella “città olocausta”, decise di continuare la sua avventura fino all’annessione. Gli elementi moderati, di sentimenti nazionalisti, monarchici e provenienti soprattutto dai ranghi militari e che fino ad allora avevano diretto la linea politica della spedizione, passarono in secondo piano, lasciando la ribalta ai cosiddetti “scalmanati”, i quali avrebbero impresso all’impresa una svolta a sinistra del tutto inattesa. Nei mesi seguenti molti ufficiali, carabinieri, ma anche soldati semplici avrebbero fatto rientro nella fila dell’Esercito, aderirono invece al laboratorio politico fiumano giovani alla ricerca di avventure che vedevano nel capoluogo del Carnaro un luogo di esuberanza e di ribellione, ma anche alcuni esponenti della sinistra italiana riconobbero un certo credito al nuovo corso dannunziano. Il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris avrebbe di fatto stilato la Carta del Carnaro, la Costituzione che si sarebbe data la città di Fiume per proclamarsi indipendente nel settembre del 1920 in attesa dell’annessione(1); Nicola Bombacci, il quale di lì a qualche mese avrebbe abbandonato il partito socialista per aderire al nascente Partito Comunista d’Italia, aveva da subito riconosciuto un apprezzabile carattere rivoluzionario all’avventura del poeta abruzzese, sostenendo peraltro che pure Lenin fosse di tale avviso; il sindacalista marittimo Giuseppe Giulietti, infine, dette un sostegno anche concreto all’iniziativa, dirottando sul porto adriatico un bastimento pieno di armi. Brandendo la Carta del Carnaro come punto di riferimento per un programma di grandi innovazioni sociali e libertarie, costoro auspicavano di espandere la fiamma rivoluzionaria da Fiume in tutta Italia, ma la componente nazionalista e bellicista che aleggiava comunque sulle rive del Carnaro non consentiva di raccogliere ampi consensi all’interno della sinistra italiana, strenuamente pacifista. Altrettanto velleitaria fu l’iniziativa della Lega di Fiume, studiata come un consesso capace di riunire tutti popoli oppressi del mondo e le cui aspettative non trovavano soddisfazione all’interno di quella Società delle Nazioni che stava prendendo corpo in seno alla Conferenza della Pace di Parigi(2).

D’Annunzio non aveva in effetti tagliato del tutto i ponti con i “moderati”, i quali ed in particolare Giovanni Giuriati, ex Capo di Gabinetto di d’Annunzio, erano fin da principio bene ammanigliati con ambienti del Ministero degli Affari Esteri piuttosto che con i vertici militari; costoro adesso facevano la spola tra Roma e Fiume, sfruttando quest’ultima come punto di riferimento per i movimenti separatisti che cominciavano a delinearsi all’interno dello Stato slavo (soprattutto croati, montenegrini, albanesi del Kosovo, ungheresi di Vojvodina e macedoni). Il Vate stesso, dando il benservito ai suoi collaboratori che maggiormente si erano adoperati riguardo al progetto della Lega di Fiume, decise nella primavera del 1920 di puntare tutto sui cosiddetti “intrighi balcanici”, al fine di rilanciare l’azione militare e capeggiare una nuova spedizione che consolidasse la presenza italiana in Dalmazia ed avviasse lo sgretolamento del regime dei Karageorgevic in una serie di staterelli che sarebbero stati facilmente assorbiti nell’area d’influenza politica e commerciale italiana. Era questo un piano che vedeva interessati anche esponenti della finanza e dell’industria italiana (Senatore Borletti ed Oscar Sinigaglia), i quali però non riuscirono a raccogliere i denari che un progetto simile richiedeva, mentre nel frattempo le truppe italiane erano costrette da un sommovimento popolare ad abbandonare Valona, avamposto per il radicamento in Albania, e la diplomazia invece procedeva. Attraverso le rispettive ambasciate a Vienna, Roma e Belgrado stavano addivenendo ad un accordo: le trattative nascevano dal timore serbo che i movimenti indipendentisti che stavano ruotando attorno al caposaldo fiumano fossero veramente in grado di sgretolare la giovane e fragile compagine statale e ricevettero un’accelerata dall’uscita di scena del Presidente Wilson, strenuo sostenitore delle istanze serbe ma sconfitto alle elezioni presidenziali del novembre 1920. Il conseguente trattato di Rapallo accolse le rivendicazioni italiane sulla Venezia Giulia, mentre in Dalmazia solamente l’enclave di Zara (effettivamente l’unica città ancora abitata in maggioranza da italiani) ed alcune isole sarebbero state annesse: nonostante le dichiarazioni al limite dell’insubordinazione diffuse dai comandi italiani in Dalmazia nei mesi precedenti, i contingenti abbandonarono disciplinatamente le posizioni che venivano a trovarsi al di là del nuovo confine.

D’Annunzio si trovò così da solo con i suoi ultimi fedelissimi (le venature repubblicane della Carta del Carnaro ed un progetto di riforma dell’esercito in senso democratico gli avevano alienato l’appoggio di quasi tutti gli ultimi ufficiali e moderati rimasti a Fiume) a fronteggiare le cannonate con cui le truppe italiane per ordine di Giolitti, nuovamente capo del governo, costrinsero la Reggenza Italiana del Carnaro ad ammainare i propri vessilli al termine del cosiddetto “Natale di sangue”, affinché potesse instaurarsi quello Stato Libero di Fiume che era stato definito nell’ambito del Trattato di Rapallo.

Questo piccolo Stato fiumano avrà vita breve, venendo spartito già nel 1924 (Fiume all’Italia, Sussak al Regno dei serbi, sloveni e croati), ma l’avventura fiumana aveva tracciato due direttive che negli anni seguenti avrebbero contraddistinto la politica estera italiana nei confronti del Regno confinante. Innanzitutto si sarebbe fatto sistematicamente ricorso ai movimenti separatisti slavi nei momenti in cui i rapporti fra Belgrado e Roma si raffreddavano, al fine di destabilizzare il fragile vicino; secondariamente si sarebbe tentato di assorbire nella propria sfera di influenza commerciale la penisola balcanica, ma i capitali italiani si trovarono sempre sopravanzati dagli investimenti francesi prima e da quelli germanici a partire dall’aprile 1941, allorché la Jugoslavia si sarebbe dissolta in seguito all’attacco militare italo-tedesco.

 

Note:

  1. per i contenuti della Carta del Carnaro vedi il saggio di Lorenzo Salimbeni La Carta del Carnaro fra irredentismo e sindacalismo rivoluzionario su Eurasia XXIII Geopolitica e Costituzioni

Destabilizzazione interna ed intervento NATO. Dal Kosovo alla Libia, Conferenza a Benevento

0
0

L’Associazione culturale “Millennium” organizza
la conferenza

“Destabilizzazione interna ed intervento NATO. Dal Kosovo alla Libia”.

Interviene Stefano Vernole, giornalista e redattore della rivista di studi geopolitici Eurasia, coautore de “La lotta per il Kosovo”.

L’evento si terrà il 24 settembre 2011, alle 18:00, presso il Centro di cultura Raffaele Calabrìa, Piazza Orsini, Benevento.

Loretta Napoleoni: “L’Italia faccia come l’Islanda, scelga il ‘default pilotato’ ed esca dall’euro”

0
0
NOTA: “Eurasia” non si assume alcuna responsabilità riguardo la correttezza dei dati riportati nell’articolo qui riprodotto

Fonte: “Tiscali

“Sa che potrebbe essere il giorno in cui la Grecia andrà in bancarotta?”. Curioso che il libro di Loretta Napoleoni, economista e consulente di terrorismo internazionale, compaia proprio oggi in libreria. Un testo, Il contagio (edito da Rizzoli), che fotografa l’attuale situazione internazionale nella quale anche l’Italia di qui a poco potrebbe trovarsi – drammaticamente – ad essere protagonista. L’esigenza (leggasi l’urgenza) è quella di uscire dalla fase del “non ritorno”. Come? La soluzione c’è, dice Napoleoni: l’Italia, d’accordo con l’Europa, scelga il “default pilotato”. Il resto è puro accanimento terapeutico che rischia semplicemente di procrastinare una situazione rischiosa non solo per il nostro Paese ma per l’intera zona euro.
Professoressa, significa che l’Italia come altri Paesi cosiddetti “Piigs” dovrebbe fallire?
“Il problema dell’euro è che, a livello europeo, non esiste né un protocollo né una regola per l’uscita temporanea o permanente di uno Stato dalla moneta unica. Il che significa che la Grecia, ma anche gli altri paesi Piigs come l’Italia sono in balia dei sentimenti del mercato, per quanto riguarda il mantenimento del proprio debito. Significa che se i mercati, come sta succedendo con la Grecia, improvvisamente decidono che questi Stati non sono in grado di ripagare il debito, non c’è una regola su come uscire. Cioè, l’euro non può andare in bancarotta se la Grecia va in bancarotta. Ecco perché parlo di un default volontario pilotato e della creazione di una serie di regole che permettano ad alcuni paesi di uscire temporaneamente dall’euro per riprendersi economicamente, anche in termini di convergenza, tornando entro quei parametri necessari per starci dentro. Seguire insomma l’esempio dell’Islanda che ha fatto un default pilotato e volontariamente è uscita dal mercato dei capitali, ha cioè dichiarato il default e si è messa al lavoro per ripianare i debiti”.
Un caso che sembra rimanere isolato.
“Sì, infatti. Si pensi all’Argentina che è andata in default da un giorno all’altro perché i mercati hanno girato le spalle. L’Islanda però ha una situazione migliore dell’Italia perché non ha l’euro come moneta. E il problema è proprio questo. Nel senso: come usciamo dall’euro? Come possiamo staccarci senza creare un terremoto all’interno di tutta l’Europa? Barroso ha detto: mantenere l’euro è una lotta di sopravvivenza per tutti i Paesi. E ha ragione. Infatti nelle ultime tre settimane in Germania e anche in Olanda dentro le banche si lavora per produrre una proposta, una legislazione che permetta di uscire dalla moneta unica”.
Cosa succederebbe all’Italia se optasse per il default volontario?
“Se facesse quello che ha fatto l’Islanda, un’uscita pilotata dall’euro, succederebbe che l’Italia dovrebbe garantire la metà del debito nazionale che è nelle mani degli italiani e delle banche italiane, cioè 2.850 miliardi di euro. Questo si può fare con una patrimoniale secca che colpisca con un 5 per cento su quell’1 per cento della popolazione, cioè quelle 70 famiglie che detengono da sole il 45 per cento della ricchezza nazionale. Basterebbe questo per garantire il debito interno. Dopodiché per quanto riguarda il debito esterno, quello che è in mano alle banche straniere, su quello bisognerà fare una ristrutturazione. Si rinegozia come è successo per esempio a Dubai. Io ti pago 45 centesimi per ogni euro e si stabilisce un programma di pagamento nei prossimi 5 o 6 anni e mano a mano si paga. Dopodiché l’uscita dall’euro permetterebbe di tornare alla lira che si svaluterebbe immediatamente dando una spinta alle esportazioni e più competitività”.
Perché allora tutto ciò non avviene?
“Perché è una decisione che deve essere presa di concerto con il resto dei paesi europei. Ma è difficile che avvenga perché se l’Italia decide di fare il default pilotato c’è il problema delle banche francesi che hanno una grandissima esposizione nei nostri confronti. L’uscita dell’Italia dall’euro senza un supporto da parte delle altre nazioni, per quanto riguarda le loro economie e le loro banche, potrebbe causare il crollo degli istituti di credito. Quindi la situazione è complessa, però non così complessa da non poter essere risolta. Serve un accordo a livello europeo, ma neanche se ne parla”.
Una questione lessicale: il “debito pubblico” adesso si chiama “debito sovrano”. E’ curioso che questo avvenga proprio quando gli Stati sono più in balia della speculazione dei mercati.
“Il fatto che gli Stati siano in balia dei mercati è una percezione sbagliata e di propaganda. I mercati hanno fatto il loro mestiere. Anzi in un certo senso i mercati sono stati spinti dagli Stati ad acquistare, almeno negli ultimi 12 mesi, i titoli del debito sovrano che non valgono nulla. E non parlo solo dei titoli italiani, ma anche degli altri, vedi i titoli francesi: rendimenti pari a zero. Quindi c’è una sorta di accordo degli Stati con le banche, secondo cui tu compri i miei titoli anche se guadagni zero ed io prometto che ti proteggerò dal crollo dell’euro. Cioè esiste una condizione di mutua convenienza però relativa a una tragedia. Quindi io non direi che la colpa è dei mercati e degli speculatori.
E allora di chi è?
“Dei politici che hanno permesso la creazione di un sistema di questo tipo e loro stessi hanno abusato di questa situazione. Quindi oggi il cittadino dovrebbe essere indignato, come accade in Spagna, non con i banchieri ma con i politici”.
Nel suo libro scrive che “il malessere del modello occidentale è ormai una pandemia”. Dagli Indignados in avanti il “contagio” è inevitabile?
“Sì. Per esempio si prenda una situazione tipo quella dell’Italia, che vende parti del Paese ai cinesi. E i cinesi mica vengono gratis. Il premier quindi vende invece di tassare quelle 70 famiglie che dovrebbero farsi carico della soluzione del problema: ecco questo dovrebbe far indignare la popolazione. Perché si parla della mia vita, della mia democrazia. Poi non è solo Berlusconi, chiariamolo questo. Tutti i Paesi europei vengono gestiti in questo modo. Tutti i politici europei oramai governano come se la democrazia fosse una loro impresa. Si dimenticano la voce del popolo. Noi siamo molto vicini ai fratelli africani, come scrivo nel libro. Loro si sono  ribellati a un malgoverno dittatoriale. Le nostre non sono forme di governo dittatoriali, però sono delle oligarchie quindi tutti ci indigneremo a poco a poco. E’ inevitabile”.
Eppure noi motivi per indignarci ne avremmo già abbastanza. Perché allora fino ad oggi Spagna, Israele, Gran Bretagna sì e Italia no?
“In Italia non c’è ancora la consapevolezza. Lo spagnolo negli ultimi dodici mesi ha progressivamente preso sempre più consapevolezza della situazione economica. E questo perché c’è stata una degenerazione della situazione economica: in Spagna siamo al 43 per cento della disoccupazione giovanile e inoltre gli spagnoli hanno un senso civico più attento del nostro. La vicinanza storica con il franchismo è importante: loro apprezzano di più la democrazia e ci credono di più, sono meno cinici. E capiscono anche che per mantenerla in piedi bisogna difenderla attraverso la voce della strada che è l’unica che il popolo ha. Ma oggi la crisi economica è arrivata anche in Italia e le misure di austerità che ha preso Zapatero le prenderà anche il nostro governo. Insomma, c’è un ritardo temporale relativo proprio alla consapevolezza”.

Gilles Munier sull’opposizione siriana

0
0

Che succede in Siria?
Breve sguardo sull’opposizione siriana

Martedì 6 settembre 2011-09-15

Intervista concessa da Gilles Munier, il 3 settembre 2011, dopo la pubblicazione del suo “diario di viaggio Damas-Hama” (1). Domande poste da Denis Gorteau del sito Que faire. (2)

Denis Gorteau: tutti sono d’accordo nel dire che le riforme sono tardate in Siria. Cosa avrebbe dovuto fare Bachar al-Assad per evitare l’attuale crisi?

Dal momento del suo arrivo al potere, il presidente Assad avrebbe dovuto fare ciò che egli fa oggi. A quel tempo era sua intenzione. Adesso, egli dà l’impressione di proporre delle riforme con il coltello alla gola, e l’opposizione ha colto l’occasione per fare delle proposte ed i paesi occidentali gettano olio al fuoco. Ma, qualunque sia il motivo, ci si aspettava una crisi in Siria l’ennesimo tentativo di destabilizzazione. L’amministrazione Obama, come quella di G W Bush, vuole rimodellare il Vicino Oriente, ciò vuol dire smantellare gli Stati creati dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale con le spoglie dell’Impero Ottomano. Questo passa per ciò che gli ideologi mondiali chiamano un “caos costruttivo e controllati”. Dal disordine provocato, non ne uscirà né l’uno né l’altro, come nel caso di Iraq e Libia. Ciò importa poco ai gruppi capitalisti mondiali che conducono il gioco, per loro l’importante è controllare le risorse naturali del pianeta ed occupare delle posizioni strategiche – la Siria ne è una – nella prospettiva di futuri conflitti.

Denis Gorteau : Senza sottovalutare le qualità del Presidente, la Siria non è un paese retto da una piccola minoranza privilegiata come in Egitto o in Tunisia prima delle rivolte ?

In tutti i paesi ci sono dei privilegiati, a cominciare dalla Francia con gli amici di Sarkozy. È ciò che Michel Poniatowski, ministro dell’interno del Presidente Giscard D’Estaing, chiamava « amici e nemici ». Gli Stati Uniti che si autoproclamano « la più grande democrazia del mondo » non mancano dei privilegiati, per non dire profittatori senza vergogna. La cerchia di G W Bush ne era farcita. Lo si sono visti all’opera in Iraq. Perchè volete che la Siria faccia un’eccezione ? L’importante in un paese è anzitutto e sopratutto il tenore di vita dei suoi abitanti, poi la sicurezza, l’educazione, la salute…E’ tutto quello che gli Occidentali vogliono ridurre. La corruzione è sostenuta dalle imprese occidentali. Essa mina non solo la fiducia dei cittadini verso le loro istituzioni ma mina la sicurezza dello Stato. Corrompere qualcuno con una buona posizione consente di tenerlo al guinzaglio e di farne una fonte d’informazione. Quando egli non serve più, lo si può gettare in pasto all’opposizione.

Ma, siamo chiari…parlando di “minoranza privilegiata”, voi pensate può essere agli Alawiti, comunità religiosa alla quale appartiene la famiglia al-Assad. Perché vorreste, ancora una volta, che la Siria faccia eccezione? In tutto il mondo, le minoranze hanno la tendenza a fare blocco, a privilegiare i loro membri. Nei paesi occidentali, i musulmani non sono ancora organizzati in gruppi di pressione, ma è il caso – insieme ad altri – dei giudei, evangelisti, o dei cattolici (gli Stati Uniti, per esempio). In Siria non ci sono che degli Alawiti – circa il 12% della popolazione – ai posti di responsabilità, anche se sono numerosi. Essi non sono tutti baasisti d’altronde, e tra quest’ultimi non tutti sostengono Bachar al-Assad. Io non penso che si possa dirigere un paese come la Siria senza stabilire un saggio e giusto equilibrio tra le differenti comunità religiose e gruppi etnici che lo compongono.

Denis Gorteau : sembra chiaro che i gruppi armati hanno deliberatamente condotto la politica al peggio in applicazione della legge, ma la maggior parte delle manifestazioni non furono pacifiche e popolari ?

Ciò che sta succedendo in Siria è stato preparato per porre fine alle rivolte che, dopo la Tunisia e l’Egitto, rischiavano di importare altri regimi filo americani. A Deraa, i manifestanti erano, in stragrande maggioranza delle persone pacifiche. Le loro richieste erano legittime, ma esse avrebbero potuto essere espresse in altro modo. Quando degli agenti provocatori infiltrati nei cortei hanno sparato alle forze dell’ordine, queste ultime hanno replicato come fanno in tutto il mondo. L’armata e la polizia non sparano per piacere sul proprio popolo. In seguito c’è stato un problema di cambio, rivolte, saccheggi. Ci sono state molte morti da entrambe le parti…troppo. Quando uno dei vostri genitori è stato ucciso e Al-Jazeera, nuova portavoce della NATO, afferma che è stato assassinato dal regime voi non pensate che a scendere in strada e a vendicarvi. Reclamate il “prezzo del sangue”. Bachar al-Assad ha annunciato che delle inchieste saranno avviate, che “tutti coloro che hanno commesso un crimine contro un cittadino siriano, che esso sia civile o militare, renderà conto”. Ma è ancora possibile visto il numero delle vittime?

Denis Gorteau : Chi compone l’opposizione siriana ?Qual è la posizione dei comunisti ? Dei fratelli musulmani ?

Non sono un esperto dell’opposizione siriana, ma credo sia necessario fare la differenza tra l’opposizione esterna spesso tagliata fuori dalla realtà del paese, e l’opposizione interna. All’estero, delle personalità e dei piccoli gruppi si riuniscono, formano dei coordinamenti, firmano dei manifesti, aprono delle pagine Facebook. Stiamo assistendo ad una battaglia di leaders. Nel mese di agosto una Istanza generale della rivoluzione siriana dichiarante raggruppare 44 gruppi e comitati di coordinamento, ha stimato che la proliferazione d’organismi e di riunioni nuoce all’immagine dell’opposizione, e dei Comitati locali di coordinamento hanno reso pubblica una Dichiarazione del popolo siriano mettendo in guardia contro gli appelli alle armi o ad un intervento straniero lanciati da alcuni contestatori. Ultimamente, degli oppositori hanno creato un Consiglio nazionale di transizione (CNT) ! Essi hanno eletto come loro Presidente, senza consultarlo, Burhane Ghalioun, professore di sociologia politica alla Sorbonne. L’intellettuale che diffida BHL come la peste, ha firmato lo scorso luglio un appello domandando al pseudo filosofo di « risparmiarsi il suo sostegno ». Trova anche che chiamare CNT la nuova organizzazione è di più di cattivo effetto.

A sinistra, le comunità siriane sono divise in due o tre tendenze concorrenti. Una di loro, membro del Fronte nazionale progressista raggruppano notamente il partito Baas, i Nasseriani e il partito social nazionalista siriano (fondato da Antoun Saadé), dichiara che bisogna « ascoltare le rivendicazioni popolari, promuovere delle riforme democratiche, rifiutare le manipolazioni esterne ». Una delle figure storiche del PC siriano essendo avanzato verso idee più liberali, Riad al-Turk – 79 anni, totalizzante 17 anni di prigione – supporta anche le richieste dei manifestanti. Nel 2005, egli reclamava « un cambiamento democratico e radicale » di modo « pacifico e graduale ». Egli trova che le riunioni organizzate « in fretta » all’estero non sono utili nella fase attuale e il carattere islamico che prevale « non è in sintonia con la diversità della società siriana ».

I Fratelli musulmani sono la principale forza d’opposizione all’estero. Essi sono più radicali dei loro omologhi egiziani e molto ambiguo. L’opposizione laica li teme. In agosto, essi hanno creato un Consiglio nazionale ad Instabul. Obiettivo: aumentare la pressione sul regime baahtista e distruggerlo. Essi sono sostenuti dalla Turchia e senza dubbio da Saad Hariri. Nel 2006, dei documenti pubblicati da WikiLeaks rivelarono che Hariri esortava la « comunità internazionale » a isolare Bachar al- Assad ed ha chiesto la sua sostituzione con un’alleanza comprendente i Fratelli musulmani, ed ex funzionari siriani come l’ex vice presidente Abdel Halim Khaddam, un rifiugiato a Parigi. Il quotidiano Al-Akhbar ha accusato uno dei suoi parenti di finanziare i movimenti di protesta. Oggi, non sembra più avere importanza per i Fratelli musulmani di partecipare a delle elezioni democratiche comprendenti il partito Baas e i comunisti, come si augurava nel 2005 Issam Al-Attar, il loro ex leader rifugiato ad Aix-la-Chapelle.

La politica attuale del « tutto o niente » dei Fratelli musulmani e di una parte dell’opposizione siriana è pericolosa per l’avvenire della Siria. La NATO aspetta soltanto un’occasione per distruggere il paese nel nome dei diritti dell’uomo e della protezione dei civili. E’ anche ciò che si augurano gli estremisti di Al-Qaida nel Cham o di Jund al-Cham, ma in nome della loro interpretazione del Corano o degli ordini ricevuti altrove.

Traduzione dal francese a cura di Silvia Starrentino

(1) Gilles Munier, La Siria nel mirino della NATO, http://www.eurasia-rivista.org/la-siria-nel-mirino-della-nato/11144/

(2) http://quefaire.e-monsite.com/rubrique,g-munier-parle-mars-2011,369230.html

Stato di Palestina: una catastrofe da scongiurare?

0
0

Riconoscere ai palestinesi parità di cittadinanza e dunque diritto di voto” sarebbe una “catastrofe per il futuro di Israele e la stabilità del Medio Oriente”. Questo afferma l’ex presidente Usa Jimmy Carter, spiegando che comporterebbe “La fine di Israele come Stato ebraico, ovvero l’autocancellazione di uno dei pilastri che sono a fondamento della nascita di Israele: il suo essere focolaio nazionale del popolo ebraico”.

 

Non siamo qui per criticare l’operato di Carter, che negli ultimi anni si è distinto nel cercare sempre negoziati in Palestina, ma queste frasi ben sottolineano il livello di schizofrenia e sudditanza che la cultura “atlantica” paga nei confronti di Israele, anche quando sposa posizioni che per i più sarebbero coraggiose, come quella dei due popoli due Stati (e che sono costate a Carter l’odio sionista e l’accusa di essere filo Hamas). E’ proprio questo il suggerimento dell’ex presidente americano: Israele deve impegnarsi nei negoziati di pace, accettare uno Stato Palestinese accanto al proprio, ma per il proprio bene e per scongiurare le altre soluzioni messe sullo stesso piano: dall’orribile apartheid nei confronti dei palestinesi alla costituzione di un unico Stato democratico con i cittadini liberi ed eguali.

 

E’ qui che risulta evidente che qualcosa non torna: ci giustificano, proprio con l’obbiettivo di instaurare “democrazie e diritti”, interventi armati voluti e guidati dalla Nato in ogni parte del mondo che costano la vita a migliaia di civili inermi. Eppure uno Stato di questo tipo è assolutamente da scongiurare in “medio oriente” dove si auspica solo la costituzione di due Stati, in quanto “la nascita di uno Stato di Palestina in un quadro di garanzie negoziate è un investimento d’Israele sul proprio futuro”. Di nuovo, non stiamo qui a valutare l’opportunità che l’esistenza di uno Stato Palestinese finalmente riconosciuto possa comportare per i palestinesi stessi e per il mondo tutto; quello che è bene tener presente però è lo strano e contraddittorio uso di concetti come quelli di democrazia, diritti, eguaglianza buoni nelle più diverse occasioni e impiegati per giustificare operazioni completamente opposte.

 

Detto questo c’è da aspettarsi che prima del 23 settembre (l’Assemblea Onu si aprirà il 20) – quando l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe presentare la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina entro i confini del 1967 – cambiamenti tali da evitare agli Usa la pessima figura mondiale di porre il veto ad un sacrosanto diritto di un popolo martoriato. Probabilmente si tenterà di far depositare ad Abu Mazen la richiesta per lo status di “Stato non membro” così che debba esprimersi soltanto l’Assemblea Generale e non il Consiglio di Sicurezza come per un ingresso pieno nelle Nazioni Unite: ciò consentirebbe agli Usa di non porre il veto e non versare altra benzina sull’incendio in cui si sono cacciati dopo aver prodotto la crisi globale. Di certo questo potenziale voto rappresenta diverse incognite nel futuro dei rapporti internazionali: primo fra tutti il dubbio sul futuro dell’area dopo il riconoscimento di uno Stato Palestinese indipendente; sarebbe di certo un passo importante, ma garantirà ai palestinesi giustizia, sovranità, eguaglianza? Oppure Israele come probabile continuerà a farla da padrone controllando l’area? In secondo luogo sarà la reazione dell’opinione pubblica mondiale a produrre risultati; potranno permettersi gli Usa di presentarsi ancora come protettore di un’entità discussa e discutibile come Israele, specialmente in una situazione geopolitica mondiale in cui sono costantemente messi alle corde e subiscono la concorrenza di nuovi attori emergenti e più rispettosi delle diversità dei popoli?

 

Di certo non è seguendo Tel Aviv che si potrà giungere a conclusioni moderate e valide: Netanyahu ha definito “messaggio di pace” l’opposizione all’iniziativa palestinese. E’ quindi un messaggio di pace rifiutare che un popolo chieda libero voto presso l’Onu, significa che, secondo i sionisti, utilizzare regolarmente il diritto onusiano è un atto di guerra. In effetti, conferma Lieberman (Ministro degli esteri di Israele), quella dell’Onu sarebbe una “decisione unilaterale”. Queste frasi, francamente prive di senso, smentiscono le più basilari evidenze e anche retoriche sulla costituzione dell’Onu quale difensore della pace e della sicurezza internazionale. Quasi sembrerebbe che per Israele la comunità internazionale sia formata solo da se stesso. E’ da augurarsi per il futuro del popolo palestinese e della pace che non continuino a passare questo tipo di concetti unilaterali.

 

*Matteo Pistilli è redattore di Eurasia

 

 


11 settembre e neo-cons: l’opinione d’un diplomatico iraniano

0
0

Fonte: “Voltairenet

 

Con l’influenza della NATO e degli stati alleati, i media ed i politici hanno abbracciano la teoria della cospirazione islamica come un’ovvia ed indiscutibile spiegazione per gli attacchi dell’11 settembre. Ma la verità di un uomo è la menzogna di un altro. Nel resto del mondo, prevale l’idea che l’evento fosse stato orchestrato dai neoconservatori. Questo è, per esempio, il punto di vista dell’Ambasciatore Mohsen PakAein, responsabile della politica iraniana nei confronti dell’Afghanistan.

11 settembre – Chi si nascondeva dietro agli eventi? Per scoprire le ragione del successo nei piani dei neoconservatori americani e nel continuare con i loro obiettivi ambiziosi, è necessario comprendere le cause e le motivazioni dietro agli eventi dell’11 settembre.

L’11 settembre, il commercio americano, l’esercito ed i centri politici sono collassati come risultato delle esplosioni, con polvere ed un’enorme nuvola di fumo. Durante questo evento, due passeggeri si sono abbattuti contro il World Trade Center, ed un altro ha colpito il Pentagono. In oltre, Un altro jet è crollato – per ragioni sconosciute – prima di colpire l’obiettivo. Secondo le ultime statistiche, queste operazioni hanno avuto come risultato oltre cinquemila morti e feriti. Immediatamente, venne dichiarato in tutta la nazione uno stato di emergenza. Il cielo sopra l’America venne dichiarato una non-fly zone, e l’esercito americano venne messo in allerta. In oltre, i paesi europei passarono, in maniera informale, in uno stato di emergenza, e le loro forze di sicurezza diedero inizio ad operazioni di spionaggio ed intelligence.

I programmi ufficiali dei mass media europei vennero interrotti, gruppi di crisi, così come “esperti” di politica e di forze armate, tennero riunioni speciali per provare a ridurre l’insicurezza, la quale si era sparsa tra tutti gli apparati politici, ed a provare a controllare l’agitazione popolare in seguito a questa uccisione di massa. Qualche ora dopo le operazioni, l’allora presidente degli Stati Uniti definì gli eventi sopra menzionati una tragedia nazionale per l’America, affermando che si tratta di una guerra. E’ una guerra all’America, disse George Bush, aggiungendo – è un attacco allo stile di vita, alla democrazia, ed ai valori del mondo moderno. Bush continuò dicendo che l’America era entrata in guerra, una guerra tra il male e il bene – e vinceremo questa guerra, affermò.

Gli eventi dell’11 settembre prepararono la tappa necessaria per portare avanti le idee radicali dei neoconservatori americani. Dichiarando guerra e tirando fuori la sua gigante macchina da guerra, l’America si riferì all’articolo cinque del trattato di Washington della NATO per la prima volta in cinquant’anni, preparandosi ad attaccare obiettivi in tutto il mondo. Questa misura presa dall’America ha segnato una nuova fase nella politica e nell’ordine mondiale.

Il primo passo di questa interazione è stato l’attacco all’Afghanistan. Alcuni ricercatori, fidandosi di molte prove, credono che l’America stessa sia la causa dietro agli eventi dell’11 settembre. Lyndon LaRouche, un ex candidato alla presidenza americana ed uno degli analisti di spicco dei problemi politici ed economici, affermò in un’intervista che gli eventi dell’11 settembre erano stati pianificati e portati avanti da politici americani veterani, per canalizzare e reindirizzare l’amministrazione di George W. Bush verso la direzione da loro desiderata. Disse che l’11 settembre [non può essere stato] opera di un’organizzazione esterna perché, considerando il sistema di sicurezza, questi eventi potevano solo essere stati orchestrati da gruppi e organizzazioni di sicurezza interna. E ad alti livelli delle autorità di pubblica sicurezza, naturalmente, potrebbe esserci stata cooperazione con altri, benché in maniera limitata, ma ciò che è evidente è il fatto che questi attacchi vennero controllati dagli alti ranghi delle autorità ed organizzazioni della sicurezza americana.

Volevano pianificare un effettivo colpo di stato contro Bush. Non avevano intenzione di rovesciare il governo, ma volevano muovere l’amministrazione Bush verso una certa direzione. Nel suo libro The Big Lie, scritto a proposito dell’11 settembre , Thierry Meyssan, un ricercatore francese, dice: ‘Dopo la caduta inaspettata delle due torri del World Trade Center, non vennero svolte delle complete indagini ufficiali sul come sia successo, ma la relazione ufficiale ha confermato l’idea dei due jet, e l’identità degli imputati, senza portare prove circa loro esistenza o il loro coinvolgimento nell’incidente. Immediatamente, c’è stata un’enfasi sulla demolizione degli edifici danneggiati e sulla raccolta delle macerie, e tutto ciò che rimaneva in quel luogo veniva messo sotto il controllo dell’F.B.I venendo dichiarato parte dei segreti della difesa nazionale.

La rapidità con la quale le macerie vennero raccolte aumentò sospettosamente con i vigili del fuoco del Fire Department di New York, poiché non trovarono convincenti gli ufficiali di Washington, ed erano certi che il carburante dei due jet non era sufficiente a sciogliere lo scheletro di ferro delle due torri in così poco tempo. E praticamente e chimicamente, è impossibile, a meno che le due torri non fossero fatte di cartone. Per questa ragione, gli ufficiali del Fire Department hanno fatto richiesta per un’indagine per chiarire se è avvenuta o no un’esplosione nella base delle due torri. Tuttavia, le autorità dell’F.B.I non accolsero questo suggerimento. C’è un altro mistero qui, considerando che edifici così alti possono essere demoliti solo tramite esplosivi, mentre in questo caso non c’è nessun’altra prova o foto che mostri cosa sia successo nella base delle due torri.’

In un’intervista su France TV, Meyssan rivelò segreti che possono essere raccontati solo da esperti di scienze aerospaziali. Disse: ’Seguendo un confronto tra esperti in questo campo, è diventato chiaro che è impossibile per dei jet passeggeri, come quelli che si sono scontrati con il World Trade Center, avere una precisione tale senza aver posto in anticipo dei radar tra le due torri. Questo è esattamente ciò che successe nelle due ore prima dell’attacco, che ha disturbato radio e TV attorno a quell’area. Così, senza questi radar, non sarebbe stato possibile ottenere una tale precisione, anche se molti jet avessero portato avanti questa missione simultaneamente.

Ci sono altri aspetti che sollevano dubbi sul coinvolgimento di agenti stranieri nell’esplosione. A proposito degli scritti in arabo che mostrano come imparare a volare e pilotare aerei, va notato che la terminologia aeronautica non è mai stata scritta in arabo, ma sempre e solo in inglese. Per quanto riguarda l’attacco al Pentagono, l’amministrazione statunitense dichiarò che queste operazioni si svolsero con l’impatto di un Boeing 757 nel primo o secondo piano, mentre il velivolo prima citato volò così basso da toccare l’erba attorno al Pentagono. Tuttavia, quando venne toccato l’argomento, esperti in aeri da guerra dichiararono che un tale atto non poteva essere stato [compiuto] da aerei non militari, come un Boeing 757, perché tale velivolo mira agli obiettivi verticalmente o vola basso, ma non vicino al terreno, e attacca improvvisamente l’obiettivo orizzontalmente. E dato che il Pentagono non è molto alto, ma con soli due piani, è impossibile per un jet non militare colpire il pentagono orizzontalmente, dato che i jet Boeing non possono volare così bassi; e anche se una cosa del genere fosse possibile, danneggerebbe gli alberi, i cavi elettrici, e altre cose intorno all’area, il che non è accaduto. Infatti, nessun segno o traccia di questo tipo è stata individuata sulla scena dell’incidente.

Ciò che attrae maggior attenzione a questo proposito è il fatto che nessuno ha visto lo scheletro del velivolo nella scena dell’incidente, e non c’era nemmeno una foto a riguardo, ma solo una scatola nera, che è stato detto che sia stata trovata sulla scena dell’incidente, mentre nella prima dichiarazione rilasciata dagli ufficiali, era stato detto che l’attacco era stato portato avanti da un elicottero. In oltre, il luogo bersaglio dell’attacco non ha avuto al suo interno nessuno staff militare o del personale, perché gli edifici erano in costruzione in questo luogo, e le uniche vittime erano lavoratori e persone capitate li per caso. Questo è sorprendente, perché solo una persona dell’esercito è stata uccisa, mentre hanno annunciato che molte delle vittime erano impiegati del Pentagono.

Un’altra cosa sorprendente è la mancanza di controlli sui piloti o sui colpevoli delle operazioni. Un altro punto è che, quando un velivolo viene dirottato, la sua informazione viene trasmessa in codice alla torre di controllo, e i velivoli non militari usano anche numeri di serie identificativi che vengono trasmessi alla torre di controllo tramite dischi trasmittenti, e infatti, è grazie a questo che è possibile rintracciare tali velivoli. Allo stesso modo, quando un aereo non manda segnali, si presume sia un aereo nemico, e vengono trasmessi segnali di allarme. Nel caso dei due jet che hanno colpito le twin tower, non c’è stato alcun segnale.

Un altro punto sul quale vale la pena riflettere, circa il sopra citato incidente, è che non ci sono vittime tra i funzionari delle aziende appartenenti al world trade center. Nel momento dell’incidente, la maggior parte di questi manager erano stati invitati per una colazione cordiale in una base militare, molto lontana da New York, ed erano stati raggiunti da George W. Bush.

Complessivamente, ci sono prove considerevoli che indicano come l’11 settembre sia stato organizzato da neoconservatori americani per avere l’opportunità di raggiungere i loro obiettivi, come rafforzare il militarismo, attaccare paesi come Iraq e Afghanistan, ed assicurarsi l’aiuto di altri paesi per combattere il terrorismo. Questo ci mostra la volontà e la determinazione dei neoconservatori di consolidare il potere americano attraverso il globo ad ogni costo.

 

(Traduzione di Giuliano Luiu)

 

* Mohsen Pakaein è capo del Direttorato Generale sull’Afghanistan del Ministero degli Esteri della Repubblica Islamica d’Iran

 

Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo

0
0

Si è tenuta sabato 17 settembre 2011 (ore 15.30) a Brescia, presso il Best Western Hotel Master di Via Luigi Apollonio 72, la conferenza “Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo”.

Sono intervenuti come relatori: Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”), Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG e redattore di “Eurasia”, co-autore di Capire le rivolte arabe), Aldo Braccio (redattore di “Eurasia”, autore di Turchia, ponte d’Eurasia) e Stefano Vernole (redattore di “Eurasia”).

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Nuove Idee” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

L’evento rientra nel Ciclo 2011-2012 dei Seminari di Eurasia.
VIDEO INTEGRALE

Votazioni ONU per il riconoscimento della Palestina. Il fallimento del processo di pace e l’isolamento israeliano

0
0

Le votazioni del Consiglio di Sicurezza ONU per il riconoscimento dello stato palestinese previste per la fine di settembre 2011 costituiscono una svolta per la politica dell’Autorità Nazionale Palestinese che sfida l’autorità USA e quella di tutto il Quartetto per azzardare il supporto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Da questo azzardo si annunciano una serie di scenari preoccupanti per Israele e per le mire USA nel MENA, ma anche una reale prospettiva per il popolo palestinese di un primo passo per vedersi finalmente riconoscere in modo concreto il diritto di autodeterminazione.

Fase I: votazioni al Consiglio di Sicurezza

Sono previste per la fine di settembre 2011 le votazioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il riconoscimento di uno stato palestinese indipendente e sovrano basato sui confini del 4 Giugno 1967 e con capitale Gerusalemme Est. La richiesta presentata al Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea Generale dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmud Abbas costituisce un’importante variazione della posizione dell’ANP rispetto al processo di pace con Israele; la richiesta infatti aggirerebbe la fase di negoziato per la soluzione dei due stati, che fino ad oggi non ha portato ad alcun risultato concreto, cercando il riconoscimento della Dichiarazione di Indipendenza dello Stato Palestinese (Algeri 1988) direttamente dalle Nazioni Unite.

La sessione del mese di Settembre del Consiglio di Sicurezza sarà presieduta dal Libano, sul cui supporto l’ANP fa molto affidamento. Ad oggi, tra i membri permanenti ONU, Cina e Russia hanno espresso il loro appoggio all’Autorità Nazionale Palestinese, Francia e Regno Unito non si sono ancora espressi ufficialmente, mentre gli Stati Uniti hanno già annunciato il loro veto, il ché determinerà a priori la bocciatura della richiesta in sede di votazione. A partecipare come membri non permanenti del 2011 troviamo: Colombia, Sud Africa, Portogallo, Germania, India, Libano, Nigeria, Bosnia Erzegovina, Gabon e Brasile. E tra i dieci membri, proprio quest’ultimo è quello che forse si è mostrato più solidale alla causa palestinese. Nell’annunciare il proprio appoggio all’ANP il Brasile definisce il riconoscimento della sovranità palestinese come il completamento di 64 anni di vecchie promesse (mai mantenute), sottolineando l’importanza di questa votazione per sbloccare l’empasse nel quale il Quartetto (USA, UE, Russia e ONU) ha lasciato irresponsabilmente il processo di pace. Nelle dichiarazioni dell’ambasciatore brasiliano presso l’ONU Maria Luiza Ribeiro Viotti è chiara la condanna di Israele e degli USA per il fallimento del processo pace, fallimento che oggi più che mai rischierebbe di mettere in serio pericolo la sicurezza e la pace in Medio Oriente.

Fase II: votazioni all’Assemblea Generale

Parallelamente, l’Autorità Nazionale Palestinese presenterà formale richiesta all’Assemblea Generale il 20 settembre per ottenere il riconoscimento sia dello status di osservatore indipendente sia di quello di stato sovrano che, se riconosciuto, avrà validità solo per singoli paesi che avranno eventualmente votato a favore. A garantirne l’approvazione serviranno due terzi della maggioranza, 129 paesi su 193 dovranno quindi votare a favore. Diversi stati membri dell’Unione Europea si sono già espressi contrari, Germania, Italia, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, mentre Francia, Portogallo e Regno Unito non si sono ancora sbilanciati; le trattative sono ancora in corso e la posizione dell’Unione Europea non è affatto unanime.

La Palestina è l’unico caso di “ente osservatore” delle Nazioni Unite, qualifica che con il supporto dell’Assemblea Generale verrebbe modificata in “stato osservatore”, riconoscendogli implicitamente la qualifica di stato sovrano e determinandone la presenza in diverse agenzie ONU come l’UNESCO, l’UNICEF e il WHO. Sul piano politico, il riconoscimento dell’Assemblea Generale di uno stato palestinese entro i confini del ’67, ne riconoscerebbe automaticamente i confini, appunto, e vice versa riconoscerebbe la condizione illegale in cui si verrebbero a trovare gli oltre 120 insediamenti e 90 posti di blocco israeliani in Cisgiordania, determinando un forte indebolimento israeliano in eventuali trattative per la determinazione dei confini stessi del futuro stato palestinese.

La posizione USA nel “processo di pace”

Nello scambio epistolare tra Ariel Sharon ed il presidente USA G. W. Bush del 14 aprile 2004 che accompagnò il piano di disimpegno da Gaza, il primo ministro israeliano informava il presidente americano del piano unilaterale di “ricollocazione” degli insediamenti e delle installazioni militari dalla Striscia alla Giudea e alla Samaria, cedendo a sud per prendere ad ovest. Il presidente Bush rispose molto amichevolmente tranquillizzando Sharon su diversi punti:

Gli Stati Uniti ribadiscono il loro costante impegno per la sicurezza di Israele, inclusi confini sicuri e difendibili (…). Sembra evidente che un accordo giusto ed equo in un quadro realistico per la soluzione della questione dei rifugiati palestinesi come parte di un qualsiasi accordo sullo status finale dovrà essere trovato attraverso la creazione di uno stato palestinese dove trasferire i rifugiati palestinesi, invece che in Israele. (…) Alla luce delle nuove realtà sul campo, tra cui la presenza di grandi centri abitati israeliani, è irrealistico aspettarsi che l’esito delle negoziazioni sulla status finale consisterà in un pieno e completo ritorno alla linea di armistizio del 1949, e tutti i precedenti sforzi di negoziato per la soluzione dei due stati sono arrivati alla stessa conclusione.

L’eventuale creazione di uno stato palestinese farebbe emergere una serie di problemi, come la questione dei confini, quella dei rifugiati e dello status dei cittadini palestinesi in Israele, che attualmente l’amministrazione Obama preferisce chiaramente evitare. E’ irrealistico aspettarsi il completo ritorno ai confini del 1967, afferma tra le righe Bush. Quindi? Israele proprio dal processo di pace di Oslo (1993) in poi ha incessantemente continuato le sue operazioni di colonizzazione della West Bank, con un incremento di oltre il 50% dell’attività di espropriazione ed occupazione della proprietà privata e pubblica palestinese. E nel 2004, nella prospettiva della soluzione dei due stati, Sharon ottiene dal presidente USA la garanzia per l’annessione della maggior parte degli insediamenti nella West Bank ed il consenso sul riconoscimento sul diritto al ritorno palestinese come applicabile soltanto al futuro stato palestinese, e non a quello israeliano.

Nonostante il presidente Obama abbia diverse volte annunciato una politica di supporto alla “democratizzazione del Medio Oriente”, la sua posizione rispetto alle richieste palestinesi contraddirebbe le sue numerose dichiarazioni a supporto della “primavera araba”, oltre ché le dichiarazioni di biasimo del Febbraio 2011 per la politica di espansione territoriale israeliana. I palestinesi erano stati infatti avvisati che nel presentare la risoluzione al Consiglio di Sicurezza avrebbero provocato la sospensione degli aiuti economici americani all’Autorità Nazionale Palestinese. Il 29 Giugno il Senato americano ha presentato una risoluzione per chiedere al presidente di porre il veto alle future votazioni del Consiglio di Sicurezza e di sospendere l’assistenza economica all’ANP. Parallelamente l’ambasciatore americano presso le Nazioni Unite ha minacciato la sospensione dei finanziamenti all’organizzazione internazionale nel caso in cui questa riconoscesse lo stato palestinese, mostrando così un tentativo disperato di riprendere in mano le redini del processo di pace in Medio Oriente. In questo contesto quello che oggi sta facendo Mahmud Abbas è forse un azzardo: rischiare l’appoggio politico ed economico statunitense per un voto incerto dell’Assemblea Generale; ma è certo che qualsiasi sia il risultato di questo azzardo, Abbas ne uscirà rafforzato sia nella sua leadership interna e che nei suoi rapporti con Hamas e gli altri attori politici palestinesi.

In un quadro in cui la totale assenza di confini precisi tra Israele e territorio palestinese (se non quelli del ’67, entro i quali la risoluzione ONU 242 obbligherebbe Israele a ritirarsi) caratterizza tutto il processo di pace, è stato di fatto permesso ad Israele di espandersi attraverso l’uso della forza senza alcuna garanzia per il rispetto dei fondamentali diritti del popolo palestinese. E l’annuncio israeliano dell’inizio di Agosto 2011 della creazione di quasi 3.000 unità abitative per i coloni ebrei nei Territori Occupati ha ovviamente creato l’ennesimo empasse diplomatico, spingendo il presidente ANP a mettere in disparte la strada degli accordi bilaterali. Il rifiuto israeliano a ritirarsi entro i confini del 1967, come previsto dalla risoluzione ONU 242, di riconoscere la piena sovranità ed indipendenza di uno stato palestinese ed il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi sia in territorio palestinese che in territorio israeliano ha determinato il fallimento di tutti i principali tentativi di raggiungere un accordo bilaterale israelo-palestinese negli ultimi due decenni.

Israele in un vicolo cieco?

Considerando l’attuale contesto geopolitico della regione, dove Israele si ritrova quasi “accerchiato” o da potenze dichiaratamente ostili, come la Siria, o da stati potenzialmente tali, come l’Egitto e la Turchia, e considerando ovviamente i recenti sviluppi politici del Medio Oriente e Nord Africa, il conflitto israelo-palestinese rischia fortemente di ritornare alla sua originaria dimensione regionale di conflitto arabo-israeliano nel caso in cui non venissero accolte le richieste dell’ANP. D’altra parte la crisi diplomatica con la Turchia e con l’Egitto, nonché il successivo assalto all’ambasciata israeliana al Cairo del 9 settembre e una potenziale alleanza militare tra Siria e Iran, incutono il timore per Israele e i suoi sostenitori che, con un eventuale stato palestinese, i rapporti di forza che fino ad oggi sono sempre stati caratterizzati da una netta superiorità militare israeliana rispetto alle altre entità statali e non della regione, si possano modificare al punto di stravolgere gli equilibri nel MENA a sfavore di Israele e degli interessi strategici regionali USA.

Molti analisti hanno poi evidenziato il rischio, nel caso di un rifiuto dell’Assemblea Generale, di un’intifada palestinese, probabilmente incitata e incoraggiata anche da forze politiche esterne che potrebbero trarre degli interessi nello spostare i riflettori degli osservatori internazionali e concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sul singolo conflitto israelo-palestinese. E’ difficile fare delle previsioni, non sappiamo innanzi tutto quale sarà la nuova linea politica egiziana e quindi se Israele manterrà o meno il supporto dell’alleato più importante nella regione. Non siamo ancora in grado di prevedere i futuri sviluppi della crisi siriana e se l’eventuale caduta del presidente Bashar porterà le tensioni sul Golan ad intensificarsi o meno. Ma dopo la guerra in Libia, ancora in corso, il fallimento della guerra in Afghanistan ed il disastro della guerra irachena, ci si chiede se USA e UE abbiano realmente intenzione di affrontare un ulteriore conflitto nel Vicino Oriente, e fino a che punto vogliano e possano sostenere Israele in questa eventuale crisi.

Kawkab Tawfik è laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso la Facoltà di Studi Orientali dell’università Sapienza di Roma. I suoi studi e le sue ricerche vertono soprattutto sul diritto musulmano e sulla politica egiziana.

 

The conflict over the Nile water

0
0

 

 

The conflict over the Nile water raised up when every state on the Nile basin reclaim it’s right to control the water and to had it’s benefits according to it’s natural right, geographic position and economic needs. Currently we are living a very critical situation in Africa ( Nile area ) due to the water and especially after the threaten of many states to the use of force to protect their right over the water. since the beginning of civilization and due to the economic and climatic change Africa lived many wars and conflicts.

 

This conflict is old since the ancient Egyptians considered the Nile and the Delta as a god and were represented by the God Hapi. The recent history of the conflict over the Nile began in the 20 th century. The English realized the importance of the river for their colonies and the advantages the Nile offered for their commerce. The Nile became a dispute matter between the Nile Basin states when Egypt and Britain signed a pact in 1929 that gave Egypt and Sudan 75 percent of the Nile annual flow.

This dispute increased when Egypt and Sudan signed the agreement on the full utilization of the Nile waters in 1959 .

These agreements were refused from all other Nile Basin states that consider these pacts illegal. These states (Burundi, Rwanda, Tanzania, Kenya, Democratic Republic of Congo, Uganda, Ethiopia, and Eritrea) reclaimed rights over the Nile water and they considered that water was not fairly distributed. Ethiopia that contribute 86% of the combined Nile water flow at Aswan(Tedasse 2008), reclaimed sovereignty over the headwaters of the Nile Water Blue.

Ethiopian Foreign Minister Mesfin affirmed some years ago “No earthly force can stop Ethiopia from benefiting from the Nile“. From the another side, Egypt declared that the Nile water issue is a “ red line “ ( Al –Ahram Weekly 2010 ), and it will not allow anyone to change its percentage of the annual flow because it affects its national security. Tension is mounting between Egypt and Sudan and the other Nile Basin countries which accused them of alleged violations of the N.B.I agreement , Sudan threats to pull out of the initiative.

Ethiopia always declared that it has all the rights to exploit its own natural resources and no one could stop its will to construct dams on the Blue Nile. These positions and declarations alerted Egypt that declared that any similar act from Ethiopia will reduce its percentage on the Nile water and it will be considered as an act of war.

Nile Basin Initiative NBI :

The Nile Basin is characterized by poverty, water scarcity, ‘debt exacerbation ‘ (Abdallah 2009) insecurity in economic and social fields. This part of Africa is also living a quick increasing demand on water because of the growing populations in the region . Consequently the risk that Nile Basin could face a new armed conflict on water is high and probable; therefore there was the need to constitute a regional partnership to promote cooperation and development to face the economic and social problems highly presents in the region, to promote peaceful methods to resolve the conflicts and to promote the ‘ Win –Win solution ‘ (Tedesse 2008:20). For this aim in February 1999 it was formally launched the N.B.I. initiative by the water ministers of nine countries that share the river: Egypt, Sudan, Ethiopia, Uganda, Kenya, Tanzania, Burundi, Rwanda, the Democratic Republic of Congo (DRC), as well as Eritrea ( N.B.I 2010) .

The Nile Basin Initiative ( NBI ) is a regional partnership initiated to realize a shared vision ‘ to achieve sustainable socio – economic development through the equitable utilization of , and benefit from, the common Nile Basin water resources ‘ ( ibid ).

To achieve these aims the N.B.I works as an institutional mechanism and launch programmes that are supported by the World Bank and other external parties. The most important one is the Shared Vision Program (SVP). This program was presented to help the N.B.I to realize their shared vision, ‘ harnessing the resources of the river to create a better life for the 300 million people who depend on it ‘ (N.B.I 2010 ). This program focus on ‘water resources, the environment, power, trade, agriculture, applied training, communication and stakeholder involvement and benefit sharing ‘ ( Sudan tribune 2004 ).

The N.B.I is a real challenge that could change the life in the Nile Basin and introduce more development, peace, and more equitable use of the Nile’s water. This possibility to change is really high and it needs the cooperation of all the Nile Basin countries but the tension created since the 2010 agreement puts the N.B.I in risk.

On 14th of May 2010, four of the N.B.I countries (Rwanda, Ethiopia, Tanzania, and Uganda) opened the Cooperative framework Agreement for signature for a period of one year until 13th May 2011. ‘This Agreement will formalize the transformation of the Nile Basin Initiative into a permanent Nile River Basin Commission and facilitate its legal recognition in the member countries as well as regional and international organizations’ ( N.B.I 2010).

The up stream countries insist that Egypt and Sudan are in advantage concerning water sharing, so this status –quo should change. This agreement ‘was boycotted by Egypt and Sudan, both saying the pact is illegal’ (Karuhanga 2010). About this subject the Minister of Lands and Water management of Tanzania Hon. Ambassador Stanislas Kamanzi said that ‘ it is indeed regrettable they didn’t sign, but we will ensure it doesn’t derail the cooperative process that was contemplated with the creation of the NBI, hoping they will end up signing’ (ibid). After these events, declaration and acts, the question I ask here is. Has the N.B.I failed to achieve its goals?

The 14 May 2010 meeting is the answer on the above question, it is clear that the N.B.I failed in achieving the main role of its constitution, many parties are not satisfied from the results of the N.B.I in 11 years of work . The 2010 agreement increases tensions between the Nile Basin states and it could put in risk the future of the Initiative especially that in 2012 when it will finish its mandate especially after the 2011 event when the government of Burundi has signed the River Nile Cooperative Framework Agreement (CFA).This brings the number of the Nile Basin States that have so far signed the CFA to six.

Israel and the Nile:

Since the peace treaty signed between Egypt and Israel in 1979, the relation between the two states developed and Egypt was considered during Mubarak’s regime one of the most alliance of Israel in Middle East, but on the matter of water the two states have incompatible goals and Israel is trying to control the Egyptian percent of the Nile in order to have more control over the Egyptian policy in a future resolution of the Arabic – Israeli conflict.

The idea to obtain benifits from the Nile water is old as the establishment of the Zionist movement and the declaration of the State of Israel. In 1903 the founder of the Zionist Movement Theodor Herzl asked the British Government to accept the Sinai as the Hebrew home in order to have more control over the water ‘ (Almoslim 2004). To achieve this goal Israel is developing many projects to participate the Egyptian and Sudanese quota of the Nile.

Israel is also developing its relationship with the upstream states and in particularly with the most important nation in the Nile Basin “Ethiopia”. Actually there are many news on Israeli’s assistance to Ethiopia to build dams on the Nile, and in the last years the relationship between Israel and Ethiopia has improved especially during the visit of the Ethiopian Prime Minister Zinawi to Tel Aviv in July 2004.

Israel also has a very relevant role in the current situation in Sudan since it support the division and the Southern Sudanese Independence. In fact Israel recognized South Sudan on 10 July 2011, a day after South Sudan became an independent state. The independence of the Southern Sudan will influence the National Security of Egypt because of many aspects, such as geographic and strategic. In my opinion the new state in South Sudan will claim a higher percentage of water and so there will be a new part in this conflict.

It is important to specify that even there is a Peace treaty between the Government of Egypt and Israel, there is a deep hate between people and The recent demonstrations against the embassy in Cairo is a confirmation. The Government of Egypt should take seriously the fair of the citizens.

All these aspects alert Egypt and could create more tension and perhaps a war over water.

 

*Hamze Jammoul, expert in conflict resolution.

 

 

Bibliography and References:

Abdallah,H. (2009)Contemporary Civil Conflicts in the Nile Basin States. Digest of Middle East Studies, [Online ] available from http://search.ebscohost.com/login.aspx?direct=true&db=a9h&AN=41989556&site=ehost- live

( 12 october 2010 ).

Almoslim, the Israel role in the Nile Conflict, Almoslim net. [ on line ]. available from < http://almoslim.net/node/85413 > ( 02 August 2010).

Al masry al youm. (2010) Nile River Politics. [online] available from http://almasryalyoum.com/en/…/nile-river-politics> ( 20 October 2010 ).

Karuhanga, J. (2010) East Africa: Nile Basin Ministers to Meet in Ethiopia. [online] available from < http://www.allafrica.com/sories/201006250002.html > [12 October 2010].

Nile Basin Initiative ( 1999- 2010) Nile Basin Initiative .[ online] available from <http:// www.nilebasin.org > [10 August 2010].

Tadesse, D ( 2003) The Nile: is it a Curse or Blessing ? [online] available from <http://www.iss.co.za/ > [9 October 2010 ].

Bosnia Erzegovina: tra vecchie ostilità e nuove alleanze

0
0

Il clima in BH si era iniziato a riscaldare già in primavera, quando gli screzi tra i serbi e bosniaci musulmani uscirono dai tradizionali schemi. Mentre dal menu del parlamento bosniaco scompariva l’insalata srpska, irritando non poco la sensibilità dei ministri serbo bosniaci che da parte loro cercavano di reintegrare la carne di maiale, la Republika Srpska scatenava il putiferio con la proposta di un referendum che metteva in discussione l’autorità dell’Alto Rappresentante, Mr. Inzko, che a sua volta lo dichiarò incostituzionale, attirando l’attenzione internazionale fino a diventare argomento di discussione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Un po’ più a sud, a Mostar, nasceva l’Assemblea Nazionale Croata, ufficialmente in difesa degli interessi dei croato bosniaci e a bilanciare una non parità in seno al governo della Federazione. E fu così che i croati dell’Erzegovina approfittarono della rabbia generale per l’esclusione di HDZ e HDZ 1990 dal Gabinetto Federale per creare ciò che da tempo volevano creare, ottenendo il consenso dell’elite Serba della Republika e risuscitando i vecchi timori dei bosniaci musulmani per l’agognata formazione di una terza entità.

Alla calda primavera seguì una calda estate. Lo scompiglio generale si acuì poi con la mancata formazione del governo federale dovuta all’opposizione dei leader della RS e dei due maggiori partiti croati alla nomina di Slavo Kukic alla carica di Primo Ministro.

Nella terra del “tutto può succedere”, durante la più grave crisi istituzionale dalla fine della guerra, l’alleanza ostile tra bosgnacci e bosniaci croati sembra ormai in direzione d’arrivo mentre una nuova e più bizzarra alleanza serbo-croata sembra invece consolidarsi.

 

La frustrazione dei croati-bosniaci

 

Fin dall’immediato dopoguerra, la parte croata dell’Erzegovina lamentava l’ingiustizia per non aver ottenuto un quasi stato proprio, così come era accaduto per i serbi della Republika Srpska, e per dover condividere la Federazione con i bosgnacci in una situazione d’inferiorità decisionale.

La parte bosniaco-croata accusa, oggi più che mai, la Federazione di non rappresentare gli interessi di bosgnacci e bosniaci-croati allo stesso modo e rimproverano, non del tutto a torto, i bosgnacci di volere la Bosnia Erzegovina tutta per loro, marginalizzando culturalmente e politicamente gli altri gruppi etnici.

Il sistema politico bosniaco si è infatti dimostrato incapace di rappresentare le preferenze politiche croate. Ciò a causa di un sistema elettorale a quote1 che fa risonare la visione bosniaca-musulmana, provocando inevitabilmente malumori e conflitti. Neppure il rappresentante croato della Presidenza tripartita, Zeljko Komisic, membro del SDP, Social Democratic Party, può considerarsi espressione dei croati della BH che, per la maggior parte, non lo votarono. Komisic fu infatti eletto grazie al voto dei bosgnacci che si assicurarono così due sedie presidenziali su tre.

Un sistema a quote traballante che mal si presta a rappresentare gli interessi dei bosniaci tutti, anch’esso studiato a tavolino dalla comunità internazionale e istituzionalizzato fin dalle primissime elezioni. Comunità internazionale che, come spesso accade, sembra appoggiare il gruppo etnico attaccato e martoriato più di tutti durante la guerra. Senso di colpa in recupero. Nulla di nuovo. Medesima equazione vista ripetersi in varie parti del mondo, ricompensa in termini d’appoggio multisettoriale per gli attaccati, a bilanciare i non pochi errori commessi dalla stessa comunità internazionale durante il conflitto. Politiche e atteggiamenti internazionali molto spesso di parte, che non hanno certo facilitato la riconciliazione tra croati e bosgnacci e che al contrario hanno perpetuato e acutizzato le tensioni.

 

Prima alleati, poi in guerra, poi costretti vicini di casa intolleranti e infine alleati ostili. Questa, riassunta all’osso, la complicata relazione croato-bosgnacca dal 1992 ad oggi. Relazione che, considerata meno problematica rispetto alla ben più (in)popolare relazione ostile serbo-bosgnacca, non ha mai ricevuto adeguate attenzioni e non ha mai preoccupato troppo. Fino ad oggi, fino a quando non viene categorizzata dall’ICG tra le cause scatenanti della peggior crisi a livello nazionale dalla fine della guerra.

L’esclusione dei due maggiori partiti croati dal Gabinetto Federale, l’impasse nella formazione del governo della Federazione, il crescente scontento, seguito di pari passo dalla volontà politica di imboccare strade nuove, hanno agevolato in marzo la formazione dell’Assemblea Nazionale Croata. A giocare un ruolo decisivo sul da farsi: la memoria storica, che ricorda ai bosniaci-croati il periodo prebellico quando godevano di una loro regione: l’Erzeg-Bosna, appendice della Croazia e supportata da Zagabria. Tale supporto venne meno nel ’94 quando Tudjman fu costretto dalle potenze occidentali ad abbandonare i connazionali bosniaci e fu spinto in un’alleanza con i bosniaci musulmani contro i Serbi. Suddetta alleanza fu sancita poi dagli accordi di Dayton in una sola unità amministrativa e istituzionale a stragrande maggioranza musulmana. Oggi, ricreare l’Erzeg-Bosna continua ad essere il sogno del cassetto per la maggioranza dei bosniaci-croati dell’Erzegovina.

 

Il programma politico croato, con soggetto inspiratore l’Erzeg-Bosna, era noto fin dall’inizio di quest’anno. Stavolta gli ideatori si guardano bene dal cadere nella trappola costituzionale che li blocco nel 2001, quando il membro croato della presidenza tripartita Ante Jelavic provò a formare la medesima assemblea senza però nascondere le intenzioni dichiaratamente autonomiste e indipendentiste. Jelavic fu immediatamente rimosso dalla presidenza per decisione dell’Alto Rappresentante per azioni anticostituzionali.

Dieci anni dopo, l’Assemblea Nazionale Croata viene creata su iniziativa del Croatian Democratic Union party (CDU) e di HDZ-1990. Nessuno parla di indipendenza ma piuttosto di autonomia, di coordinamento delle attività dei bosniaci-croati, di progetti di sviluppo. Politicamente si dichiara che non sarà riconosciuto nessun governo che escluda i maggiori partiti croati. L’Alto Rappresentante storce il naso, stavolta non può gridare ad azioni illegali ma fa ben intendere che la costituzione di strutture parallele non sarebbe tollerata.

 

Solidarietà serba, nuova alleanza?

 

Dall’altra parte, i Serbi guardano con una certa simpatia alla nascita del nuovo organo. Appoggio e solidarietà ai bosniaci croati, il giro di ruota. È Dodik a dichiarare per primo che la nuova Assemblea Nazionale Croata non rappresenta una minaccia per la RS e non viola gli accordi di pace; ed e’ sempre il presidente della RS a supportare, non troppo velatamente, la spinta autonomista croata.

I Serbo-bosniaci sono ancora affianco dei bosniaci croati nel respinge fermamente la candidatura di Kukic, appoggiato dal SDP, dal Bosnian Party for Democratic Action (SDA) e dai due partiti croati minoritari, a Primo Ministro della Federazione. Per i due parti croati maggiori, HDZ e HDZ 1990, l’unico candidato legittimo è Borjana Kristo e la leadership serba dichiara che supporterà solamente un “legittimo” rappresentante croato, ovvero esponente dei due partiti maggiori. È l’elite serba a giocare un ruolo decisivo nella bocciatura di Kukic, che a metà luglio non riuscì a reggere alla seconda tornata elettorale in parlamento.

 

La divisione tra bosniaci e croati si acutizza anche sul campo culturale quando i presidenti di HDZ e HDZ 1990 annunciano di voler formare un Accademia delle Arti e delle Scienze con base a Mostar, probabilmente in risposta alla neonata Accademia delle Scienze e delle Arti fondata in giugno dai Muftì bosniaci. Si ricorderà il ruolo giocato dall’Accademia di Belgrado delle Scienze nel dissolvimento della ex-Yugoslavia, e quanto le divisioni politiche diventino ancora più pericolose quando l’asse del conflitto si sposti dal contesto politico a quello delle scienze, vere o presunte. Preoccupati i tanti che sostengono che tali istituzioni servono solo ad accelerare il processo di distruzione del paese e dall’altra parte conquistate le simpatie dell’elite serbo-bosniaca che non vede niente di male nella formazione di tale Accademia e, soprattutto, si chiede perché mai i bosgnacci avrebbero il diritto ad avere un’Accademia loro, perlopiù poco scientifica, e i Croati no.

È ormai evidente che la leadership serba stia applicando la strategia mirante a supportare una rappresentanza croata forte, abbastanza forte da contrastare la controparte bosniaco musulmana e abbastanza forte da costituire il suo migliore alleato interno.

Non solo la RS simpatizza con i croati dell’Erzegovina ma ricuce vecchi strappi con la Croazia. Il rapporto di inimicizia tra i due paesi confinanti, che ha rappresentato una costante nelle ultime due decade, con picchi di tensione nel 2008, quando la Croazia riconobbe il Kosovo, si vede oggi completamente trasformato. Quest’anno Dodik incontra il presidente croato Ivo Josipovic in diverse occasioni. Cordialità, sorrisi e simpatie si respirano nell’aria. Dodik fa ammenda per i crimini commessi durante la guerra e discute con il presidente croato di temi riguardanti rifugiati, inquinamento e nuove cooperazioni economiche tra Croazia e RS.

 

Complice della nascita del nuovo amore: la struttura governativa voluta dalle potenze “salvatrici”, a seconda dei punti di vista, che oramai fa acqua da tutte le parti. Ciò perché, semplicemente, non è supportata dal consenso dei tre gruppi etnici che usano quella stessa struttura come campo di battaglia tra obiettivi politici inconciliabili.

 

Diverse sono le voci che supportano l’idea della separazione. Molti i sostenitori di un distaccamento della RS e di una sua eventuale unione alla Serbia, che considerano questa la più naturale delle evoluzioni. Non certo la più semplice. I sostenitori della secessione mancano spesso di considerare l’effetto domino che indubbiamente provocherebbe una secessione della RS, si rafforzerebbero le spinte indipendentiste dell’Erzegovina e gli effetti collaterali, considerata l’alta percentuale di bosgnacci che vivono nella regione, sarebbero di gran lunga più importanti dei benefici. Per non parlare poi delle conseguenze che un distaccamento della RS provocherebbe in altre parti dell’Europa, nord del Kosovo in primis.

 

Estendendo il discorso a Serbia e Croazia, è improbabile, alla luce degli accadimenti più recenti, che i due stati supportino una secessione delle rispettive regioni sorelle. Serbia e Croazia sono infatti in una fase cruciale nel processo di adesione all’UE; la Serbia ha fatto il grande balzo in avanti con la cattura degli ultimi grandi ricercati per crimini di guerra, Mladic e Hadzic, e la Croazia ha appena portato a termine con successo i negoziati per accedere all’UE nel 2013. Per i due stati pochi o nulli sarebbero i vantaggi derivanti da un ipotetico sostegno alle spinte indipendentiste della RS e dell’ Erzegovina. Meglio mantenere buoni rapporti di vicinato, ma che ognuno se ne stia a casa propria.

Indubbiamente sia i serbo-bosniaci che i croato-bosniaci sono ben consapevoli di tutto ciò, ed è probabilmente questa consapevolezza che li spinge a trovare altre alleanze, all’interno della stessa BH. Alla luce di questa consapevolezza l’alleanza improbabile serbo croata all’interno della stessa BH troverebbe tutta la sua ragion d’essere tale da poter esser considerata l’evoluzione logica della relazione improbabile.

 

Voci per la sopravvivenza

 

Né i serbo-bosniaci né i croati bosniaci parlano più tanto di secessione. Non è conveniente parlare di secessione di questi tempi.

Dodik sostiene che la BH non può continuare ad esistere nello stato attuale ma può sopravvivere solo sotto forma di unità confederata all’interno della quale la RS (e conseguentemente anche l’Erzegovina) godrebbe di una larga autonomia, attraverso il trasferimento di processi decisionali al livello locale e lasciando sotto la direzione federale solo difesa, politica monetaria e internazionale.

Dello stesso parere sembrerebbero i leader dei due partiti croati maggiori, sicuramente quietati dal fatto che i croati dell’Erzegovina votano anche alle elezioni croate e vedono rappresentate le loro preferenze politiche, se non nello stato in cui abitano, nello stato di cui vorrebbero forse far parte.

Diverso il parere di Bakim Izetbegovic che prende atto del fatto che una BH multietnica guidata da un governo centrale non funziona. Tutti gli sforzi avrebbero fallito secondo B. Izetbegovic che suggerisce ai bosgnacci di concentrarsi sul consolidamento della loro autorità politica in aree a maggioranza bosgnacca, mentre serbi e croati sarebbero liberi di andare per le loro strade.

Proposta alquanto pericolosa da far sembrare Dodik addirittura tra i più ragionevoli, cosa che non spesso accade.

 

Dalla comunità internazionale l’invito ad un strategical political rethink che vedrebbe la stessa comunità internazionale, troppo intromessa nelle attività politiche locali, fare un passo indietro.

Il ruolo della comunità internazionale si ridurrebbe a quello di supervisione delle attività dello stato che dovrebbe essere incoraggiato a iniziare il cammino delle riforme, politico-istituzionali, sulla base dello schema di Dayton. Chiaro l’assunto che l’integrità territoriale della BH non si discute.

 

 

1 Il sistema delle quote viene applicato per la maggior parte delle cariche federali. Questo fa in modo che vi sia un candidato per ogni gruppo etnico; ogni cittadino vota poi per in candidato che più gli aggrada, a prescindere della provenienza etnica.

Viewing all 153 articles
Browse latest View live


Latest Images